“Il serpente era il più astuto di tutti gli animali selvatici che Dio aveva fatto” (Genesi 3,1). Abilmente il narratore, dopo aver presentato un mondo armonico dove le relazioni originarie (uomo-donna; creatura-Creatore; uomo-cosmo) appaiono in tutto il loro splendore, introduce una realtà inaspettata: l’astuto serpente. Astuto è un termine che in Genesi si trova soltanto qui e che potrebbe derivare proprio dalla radice di “praticare la divinazione”, “esercitare la magia”. Si noti la trasformazione dell’immagine del serpente. L’autore si serve della sua figura, ben conscio delle numerose associazioni che essa suscita; ma lo scopo è un altro: dare al racconto un significato che rovescia il simbolo culturale originario del serpente. Da simbolo di sapienza, si muta in simbolo di male, di morte. E questo perché assume qui il ruolo di una sapienza che si autofonda e che nega il timore di Dio come suo principio; tale sapienza è solo foriera di tragiche illusioni.
Il testo sopra citato afferma sostanzialmente due cose. Da una parte la creaturalità del “serpente”; esso non può essere una divinità, anche se la sua astuzia e la sapienza che egli incarna pretendendo di raggiungere la divinità. In questo modo il male è demitizzato, è dedivinizzato, appartiene cioè alla realtà delle cose che non sono in Dio, ma è una realtà delle creature. Dall’altra parte si afferma la sua astuzia: il serpente è intelligente (‘ārûm). L’astuzia del serpente si mostra qui nel modo con cui procede nella seduzione della donna, provocandola, costringendola quasi a prendere le difese di Dio. Attraverso l’annotazione sull’astuzia del serpente si delinea, con grande finezza, una riflessione che precisa e modifica profondamente il pensiero della cultura dell’antico Vicino Oriente sul rapporto tra sapienza, vita e morte. Vi è quindi espressa una critica spietata della sapienza “autonoma”; infatti la sapienza che il serpente qui incarna giunge a proporre l’acquisizione di una “sapienza” eminente, pretende di dare accesso ad un sapere, ad un discernimento di tipo divino, ma che non sfocerà su alcuna pienezza di vita. Al contrario, giocando sulle parole “furbo” e “nudi”, che in ebraico suonano come simili, questa sapienza si aprirà su ciò che è più contrario alla vita, e cioè la nudità, la precarietà, la penosità della condizione umana.
Per essere davvero efficace, la tentazione dovrà perciò introdursi in modo menzognero, avvalendosi del riferimento a Dio. Il tentatore si presenta pertanto munito della parola di Dio, di cui si fa interprete: “ E’ vero che Dio ha detto… ?”. Sul piano linguistico la domanda del serpente non è una vera e propria domanda, ma è una specie di esclamazione ironica, provocatoria. Il serpente trasforma, imbrogliando, il comandamento di Dio. La sua esclamazione/domanda contiene un’interpretazione falsa, perché Dio non ha mai detto che l’uomo non deve mangiare di nessun albero. Egli accentua il carattere negativo del comandamento, che non è più principio di vita e di felicità, ma è negatore della libertà dell’uomo. La tentazione per l’uomo è sempre quella di non sperimentare più l’obbedienza a Dio come principio di libertà, come vita, ma di considerare Dio come negatore della libertà umana.
Il testo sopra citato afferma sostanzialmente due cose. Da una parte la creaturalità del “serpente”; esso non può essere una divinità, anche se la sua astuzia e la sapienza che egli incarna pretendendo di raggiungere la divinità. In questo modo il male è demitizzato, è dedivinizzato, appartiene cioè alla realtà delle cose che non sono in Dio, ma è una realtà delle creature. Dall’altra parte si afferma la sua astuzia: il serpente è intelligente (‘ārûm). L’astuzia del serpente si mostra qui nel modo con cui procede nella seduzione della donna, provocandola, costringendola quasi a prendere le difese di Dio. Attraverso l’annotazione sull’astuzia del serpente si delinea, con grande finezza, una riflessione che precisa e modifica profondamente il pensiero della cultura dell’antico Vicino Oriente sul rapporto tra sapienza, vita e morte. Vi è quindi espressa una critica spietata della sapienza “autonoma”; infatti la sapienza che il serpente qui incarna giunge a proporre l’acquisizione di una “sapienza” eminente, pretende di dare accesso ad un sapere, ad un discernimento di tipo divino, ma che non sfocerà su alcuna pienezza di vita. Al contrario, giocando sulle parole “furbo” e “nudi”, che in ebraico suonano come simili, questa sapienza si aprirà su ciò che è più contrario alla vita, e cioè la nudità, la precarietà, la penosità della condizione umana.
Per essere davvero efficace, la tentazione dovrà perciò introdursi in modo menzognero, avvalendosi del riferimento a Dio. Il tentatore si presenta pertanto munito della parola di Dio, di cui si fa interprete: “ E’ vero che Dio ha detto… ?”. Sul piano linguistico la domanda del serpente non è una vera e propria domanda, ma è una specie di esclamazione ironica, provocatoria. Il serpente trasforma, imbrogliando, il comandamento di Dio. La sua esclamazione/domanda contiene un’interpretazione falsa, perché Dio non ha mai detto che l’uomo non deve mangiare di nessun albero. Egli accentua il carattere negativo del comandamento, che non è più principio di vita e di felicità, ma è negatore della libertà dell’uomo. La tentazione per l’uomo è sempre quella di non sperimentare più l’obbedienza a Dio come principio di libertà, come vita, ma di considerare Dio come negatore della libertà umana.
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