Per una pausa spirituale durante la IIª Settimana di Pasqua
Uno dei Dodici non era presente a quell’incontro determinante. Il narratore non lo presenta solo per nome (Tommaso), ma ne spiega il significato: purtroppo la nuova versione CEI 2008 ha conservato la stessa traduzione precedente, che non è adeguata. Un lettore italiano infatti comprende che Dìdimo fosse il soprannome di Tommaso, mentre è la traduzione greca (Dídymos) del vocabolo aramaico (Tomá’): entrambi significano «Gemello». L’espressione greca ho legómenos ricorre anche in Gv 4,25 per spiegare «Messia» con «Cristo»: è evidente che Giovanni vuole fornire la forma greca (Cristo) di un termine semitico (Messia). Lo stesso avviene qui. Inoltre è da osservare che in ben tre casi (oltre a questo avviene in Gv 11,16; 21,2) l’evangelista ci tiene a precisare che Tommaso significa Gemello: se lo fa, è perché lo ritiene importante.
Alla testimonianza dei discepoli («Abbiamo visto il Signore!») egli risponde con un’esigenza imprescindibile: per poter credere ritiene necessario vedere il segno dei chiodi e mettere la mano nel suo fianco. Proprio quello che Gesù aveva fatto coi discepoli nel primo incontro diviene oggetto del desiderio di Tommaso: più che incredulità è ricerca di sicurezza, desiderio di una garanzia che lo possa rendere certo dell’identità del Crocifisso con il Risorto. La richiesta sembra corretta, perché il Cristo lo accontenta e gli dà soddisfazione (come dice la liturgia bizantina).
Però l’evangelista sottolinea che l’apparizione a Tommaso non è privata: ripete infatti con precisione i vari passaggi del racconto precedente e ambienta il secondo incontro «otto giorni dopo» (la seconda domenica di Pasqua!), quando il discepolo ‘gemello’ non è isolato, ma presente con gli altri. A lui quindi è riservata tutta l’attenzione e il narratore vuole evidenziare come il Risorto conosca bene le parole del discepolo assente, visto che gliele fa ripetere quasi alla lettera, aggiungendo un decisivo imperativo: «Non essere incredulo, ma credente!» (v.27). Nell’originale greco questo imperativo (mḕ ghínu) è espresso col verbo «divenire» (non «essere») e il tempo presente gli conferisce una connotazione di continuità in divenire: si tratta dunque di un’esortazione alla dinamica di fede, che muove dalla condizione di chi è «senza-fede» (á-pistos) per tendere alla realtà di chi è «credente, affidato» (pistós).
L’evangelista non dice che Tommaso abbia toccato Gesù. Semplicemente gli mette sulle labbra la più alta professione di fede di tutto il vangelo: «Mio Signore e mio Dio!» (v. 28). Il discepolo riconosce in Gesù il Kýrios, termine abituale per rendere in greco il nome proprio Yhwh, e Dio stesso; inoltre i due titoli divini sono caratterizzati dal possessivo, per indicare la stretta relazione con la propria vita. Alla luce di tale confessione si può cercare qualche soluzione al senso del nome Gemello: dall’essere ‘doppio’, tipico del dubbio, è passato infatti ad una adesione chiara; inoltre proprio grazie alla fede, diviene ‘simile’ a Gesù stesso, lasciandosi conformare a lui; infine – ancora meglio – il narratore vuole suggerire al lettore di riconoscere in Tommaso il proprio simile, facendo con lui l’itinerario di crescita nella fede in Cristo Gesù.
Con la beatitudine del credente Giovanni conclude il suo racconto: «Beati quelli che non hanno visto e hanno creduto!» (v. 29). L’esperienza dell’apostolo è stata importante per la sua fede; ma la sua testimonianza è fondamentale per la nostra fede. Come i primi destinatari del Vangelo, anche noi dopo duemila anni, non abbiamo visto né il Crocifisso né il Risorto: eppure crediamo in lui, perché effettivamente lo abbiamo incontrato nella mediazione ecclesiale, nell’esperienza dei sacramenti, nella profondità della nostra relazione umana. Da tale autentico incontro deriva per noi, gemelli di Tommaso, la beatitudine, ovvero la profonda contentezza del credente.
Il capitolo 20 termina con l’epilogo (vv. 30-31), in cui Giovanni spiega per quale fine ha raccontato quei segni di Gesù: anzitutto perché i suoi lettori (cioè noi!) credessero che Gesù è il Cristo e il Figlio di Dio. Ma il fine ultimo è la vita: credere in Gesù infatti permette di avere la vita, cioè la possibilità di vivere in modo pieno e realizzato.
Uno dei Dodici non era presente a quell’incontro determinante. Il narratore non lo presenta solo per nome (Tommaso), ma ne spiega il significato: purtroppo la nuova versione CEI 2008 ha conservato la stessa traduzione precedente, che non è adeguata. Un lettore italiano infatti comprende che Dìdimo fosse il soprannome di Tommaso, mentre è la traduzione greca (Dídymos) del vocabolo aramaico (Tomá’): entrambi significano «Gemello». L’espressione greca ho legómenos ricorre anche in Gv 4,25 per spiegare «Messia» con «Cristo»: è evidente che Giovanni vuole fornire la forma greca (Cristo) di un termine semitico (Messia). Lo stesso avviene qui. Inoltre è da osservare che in ben tre casi (oltre a questo avviene in Gv 11,16; 21,2) l’evangelista ci tiene a precisare che Tommaso significa Gemello: se lo fa, è perché lo ritiene importante.
Alla testimonianza dei discepoli («Abbiamo visto il Signore!») egli risponde con un’esigenza imprescindibile: per poter credere ritiene necessario vedere il segno dei chiodi e mettere la mano nel suo fianco. Proprio quello che Gesù aveva fatto coi discepoli nel primo incontro diviene oggetto del desiderio di Tommaso: più che incredulità è ricerca di sicurezza, desiderio di una garanzia che lo possa rendere certo dell’identità del Crocifisso con il Risorto. La richiesta sembra corretta, perché il Cristo lo accontenta e gli dà soddisfazione (come dice la liturgia bizantina).
Però l’evangelista sottolinea che l’apparizione a Tommaso non è privata: ripete infatti con precisione i vari passaggi del racconto precedente e ambienta il secondo incontro «otto giorni dopo» (la seconda domenica di Pasqua!), quando il discepolo ‘gemello’ non è isolato, ma presente con gli altri. A lui quindi è riservata tutta l’attenzione e il narratore vuole evidenziare come il Risorto conosca bene le parole del discepolo assente, visto che gliele fa ripetere quasi alla lettera, aggiungendo un decisivo imperativo: «Non essere incredulo, ma credente!» (v.27). Nell’originale greco questo imperativo (mḕ ghínu) è espresso col verbo «divenire» (non «essere») e il tempo presente gli conferisce una connotazione di continuità in divenire: si tratta dunque di un’esortazione alla dinamica di fede, che muove dalla condizione di chi è «senza-fede» (á-pistos) per tendere alla realtà di chi è «credente, affidato» (pistós).
L’evangelista non dice che Tommaso abbia toccato Gesù. Semplicemente gli mette sulle labbra la più alta professione di fede di tutto il vangelo: «Mio Signore e mio Dio!» (v. 28). Il discepolo riconosce in Gesù il Kýrios, termine abituale per rendere in greco il nome proprio Yhwh, e Dio stesso; inoltre i due titoli divini sono caratterizzati dal possessivo, per indicare la stretta relazione con la propria vita. Alla luce di tale confessione si può cercare qualche soluzione al senso del nome Gemello: dall’essere ‘doppio’, tipico del dubbio, è passato infatti ad una adesione chiara; inoltre proprio grazie alla fede, diviene ‘simile’ a Gesù stesso, lasciandosi conformare a lui; infine – ancora meglio – il narratore vuole suggerire al lettore di riconoscere in Tommaso il proprio simile, facendo con lui l’itinerario di crescita nella fede in Cristo Gesù.
Con la beatitudine del credente Giovanni conclude il suo racconto: «Beati quelli che non hanno visto e hanno creduto!» (v. 29). L’esperienza dell’apostolo è stata importante per la sua fede; ma la sua testimonianza è fondamentale per la nostra fede. Come i primi destinatari del Vangelo, anche noi dopo duemila anni, non abbiamo visto né il Crocifisso né il Risorto: eppure crediamo in lui, perché effettivamente lo abbiamo incontrato nella mediazione ecclesiale, nell’esperienza dei sacramenti, nella profondità della nostra relazione umana. Da tale autentico incontro deriva per noi, gemelli di Tommaso, la beatitudine, ovvero la profonda contentezza del credente.
Il capitolo 20 termina con l’epilogo (vv. 30-31), in cui Giovanni spiega per quale fine ha raccontato quei segni di Gesù: anzitutto perché i suoi lettori (cioè noi!) credessero che Gesù è il Cristo e il Figlio di Dio. Ma il fine ultimo è la vita: credere in Gesù infatti permette di avere la vita, cioè la possibilità di vivere in modo pieno e realizzato.
Nessun commento:
Posta un commento
Nota. Solo i membri di questo blog possono postare un commento.