Per una pausa spirituale durante la IIª Settimana di Pasqua
Ogni 2ª domenica di Pasqua viene proposto sempre lo stesso brano evangelico (Giovanni 20,19-31), in forza dell’indicazione cronologica presente nel testo stesso: «Otto giorni dopo» (v. 26). Tale nota identifica un ritmo settimanale, caratterizzato dall’incontro del Cristo risorto con la comunità dei suoi discepoli: perciò questa domenica viene definita ‘ottava’ di Pasqua. Il consueto schema dei sette giorni è ripreso dalla tradizione ebraica, mentre è nuova la scelta del «primo giorno» della settimana come quello festivo: in questo passaggio dal sabato alla domenica è racchiusa simbolicamente la novità dell’evento cristiano, determinato appunto dalla risurrezione di Gesù Cristo.
L’evangelista Giovanni narra due apparizioni del Risorto nel cenacolo e le colloca in due domeniche successive: il giorno stesso della risurrezione e «otto giorni dopo», cioè nella domenica seguente. Significativo nel racconto giovanneo è il fatto dell’assenza e della presenza del discepolo Tommaso. Il suo ruolo è così significativo da indurre la liturgia ortodossa a chiamare questa festa «Domenica di Tommaso». Il brano letterario si può dividere in tre momenti: dapprima viene narrata l’apparizione del Cristo agli apostoli (vv. 19-23), a cui segue il breve dialogo fra i testimoni del Risorto e l’assente Tommaso (vv. 24-25); quindi ha luogo l’incontro con il discepolo presente nel cenacolo con gli altri (vv. 26-29). Gli ultimi versetti del capitolo (vv.n 30-31) non appartengono propriamente a questo episodio, ma costituiscono l’epilogo all’intera narrazione giovannea. Giovanni non precisa il luogo in cui avvenne il primo incontro fra il Cristo risorto e i suoi discepoli: annota solo che «le porte erano chiuse». La causa di tale chiusura è esplicitata come «timore dei Giudei»: gli amici di Gesù hanno paura delle autorità che l’hanno condannato a morte e si chiudono in casa. Il narratore sottolinea quindi la venuta straordinaria del Risorto in quell’ambiente chiuso e precisa poi che «stette in mezzo a loro». Il corrispondente verbo greco (hístēmi) ha una particolare connotazione, anche perché è costitutivo del verbo «risorgere» (anístēmi) e del sostantivo «risurrezione» (anástasis). Significa «stare in piedi», tipica posizione di uno vivo, e la sfumatura dell’aoristo esprime l’inizio di un’azione improvvisa: Egli si collocò quindi «al centro», segnando visivamente il proprio ruolo centrale e decisivo.
Il saluto («Pace a voi!»), ripetuto due volte, potrebbe essere il corrispondente di un banale «buona sera!», visto che è abitudine ebraica salutarsi così. Eppure Giovanni intende dare a formule consuete un significato decisamente più profondo: come aveva già spiegato nei discorsi della cena (cfr. Gv 14,27), la ‘pace’ data da Gesù non è affatto simile a quella del mondo. In tale saluto, dunque, l’evangelista ha racchiuso il senso dei «beni messianici» che il Risorto comunica in dono ai suoi amici. La possibilità di una pienezza di vita (questo è shâlom) è strettamente connessa all’evento di morte e risurrezione: perciò le parole di Gesù incorniciano il gesto di mostrare le mani e il fianco, ovvero le parti del corpo che recano i segni della sua morte. Non sono infatti piaghe (ferite che non riescono a guarire), ma cicatrici, cioè ferite rimarginate: testimonianza di un fatto storico, che è stato superato e trasformato da causa di morte in fonte di vita.
La pace messianica è dono e impegno: comporta infatti la continuazione dell’opera affidata dal Padre a Gesù. In tal modo i discepoli subentrano al Cristo stesso e vengono mandati a proseguire l’opera di «perdonare i peccati», cioè liberare l’umanità dal potere del male che rovina il progetto divino e frustra le attese umane: non si tratta di tollerare il peccato, ma di guarire alla radice quelle ferite che possono continuare a uccidere. Tale opera di guarigione può essere compiuta solo dallo Spirito Santo: perciò Giovanni precisa che nel contesto stesso della missione apostolica viene loro donato dal Risorto lo Spirito divino, tramite il simbolico gesto del ‘soffio’. Ricorre infatti lo stesso raro verbo (en-ephýsēsen) che è adoperato in Gen 2,7 per indicare il soffio vitale infuso dal Creatore all’uomo plasmato dalla terra: così l’evangelista vuole alludere all’opera di nuova creazione compiuta dal Risorto che dà origine ad un’umanità rinnovata, portatrice del suo stesso Spirito vitale. In forza di tale Spirito che opera in loro, i discepoli di Gesù potranno realizzare nella storia la grandiosa opera di vittoria sul peccato.
Ogni 2ª domenica di Pasqua viene proposto sempre lo stesso brano evangelico (Giovanni 20,19-31), in forza dell’indicazione cronologica presente nel testo stesso: «Otto giorni dopo» (v. 26). Tale nota identifica un ritmo settimanale, caratterizzato dall’incontro del Cristo risorto con la comunità dei suoi discepoli: perciò questa domenica viene definita ‘ottava’ di Pasqua. Il consueto schema dei sette giorni è ripreso dalla tradizione ebraica, mentre è nuova la scelta del «primo giorno» della settimana come quello festivo: in questo passaggio dal sabato alla domenica è racchiusa simbolicamente la novità dell’evento cristiano, determinato appunto dalla risurrezione di Gesù Cristo.
L’evangelista Giovanni narra due apparizioni del Risorto nel cenacolo e le colloca in due domeniche successive: il giorno stesso della risurrezione e «otto giorni dopo», cioè nella domenica seguente. Significativo nel racconto giovanneo è il fatto dell’assenza e della presenza del discepolo Tommaso. Il suo ruolo è così significativo da indurre la liturgia ortodossa a chiamare questa festa «Domenica di Tommaso». Il brano letterario si può dividere in tre momenti: dapprima viene narrata l’apparizione del Cristo agli apostoli (vv. 19-23), a cui segue il breve dialogo fra i testimoni del Risorto e l’assente Tommaso (vv. 24-25); quindi ha luogo l’incontro con il discepolo presente nel cenacolo con gli altri (vv. 26-29). Gli ultimi versetti del capitolo (vv.n 30-31) non appartengono propriamente a questo episodio, ma costituiscono l’epilogo all’intera narrazione giovannea. Giovanni non precisa il luogo in cui avvenne il primo incontro fra il Cristo risorto e i suoi discepoli: annota solo che «le porte erano chiuse». La causa di tale chiusura è esplicitata come «timore dei Giudei»: gli amici di Gesù hanno paura delle autorità che l’hanno condannato a morte e si chiudono in casa. Il narratore sottolinea quindi la venuta straordinaria del Risorto in quell’ambiente chiuso e precisa poi che «stette in mezzo a loro». Il corrispondente verbo greco (hístēmi) ha una particolare connotazione, anche perché è costitutivo del verbo «risorgere» (anístēmi) e del sostantivo «risurrezione» (anástasis). Significa «stare in piedi», tipica posizione di uno vivo, e la sfumatura dell’aoristo esprime l’inizio di un’azione improvvisa: Egli si collocò quindi «al centro», segnando visivamente il proprio ruolo centrale e decisivo.
Il saluto («Pace a voi!»), ripetuto due volte, potrebbe essere il corrispondente di un banale «buona sera!», visto che è abitudine ebraica salutarsi così. Eppure Giovanni intende dare a formule consuete un significato decisamente più profondo: come aveva già spiegato nei discorsi della cena (cfr. Gv 14,27), la ‘pace’ data da Gesù non è affatto simile a quella del mondo. In tale saluto, dunque, l’evangelista ha racchiuso il senso dei «beni messianici» che il Risorto comunica in dono ai suoi amici. La possibilità di una pienezza di vita (questo è shâlom) è strettamente connessa all’evento di morte e risurrezione: perciò le parole di Gesù incorniciano il gesto di mostrare le mani e il fianco, ovvero le parti del corpo che recano i segni della sua morte. Non sono infatti piaghe (ferite che non riescono a guarire), ma cicatrici, cioè ferite rimarginate: testimonianza di un fatto storico, che è stato superato e trasformato da causa di morte in fonte di vita.
La pace messianica è dono e impegno: comporta infatti la continuazione dell’opera affidata dal Padre a Gesù. In tal modo i discepoli subentrano al Cristo stesso e vengono mandati a proseguire l’opera di «perdonare i peccati», cioè liberare l’umanità dal potere del male che rovina il progetto divino e frustra le attese umane: non si tratta di tollerare il peccato, ma di guarire alla radice quelle ferite che possono continuare a uccidere. Tale opera di guarigione può essere compiuta solo dallo Spirito Santo: perciò Giovanni precisa che nel contesto stesso della missione apostolica viene loro donato dal Risorto lo Spirito divino, tramite il simbolico gesto del ‘soffio’. Ricorre infatti lo stesso raro verbo (en-ephýsēsen) che è adoperato in Gen 2,7 per indicare il soffio vitale infuso dal Creatore all’uomo plasmato dalla terra: così l’evangelista vuole alludere all’opera di nuova creazione compiuta dal Risorto che dà origine ad un’umanità rinnovata, portatrice del suo stesso Spirito vitale. In forza di tale Spirito che opera in loro, i discepoli di Gesù potranno realizzare nella storia la grandiosa opera di vittoria sul peccato.
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