domenica 29 aprile 2012

383 - IL BUON-BEL PASTORE - 29 Aprile 2012 – Quarta Domenica di Pasqua

(Atti 4,8-12  1ªGiovanni 3,1-2  Giovanni 10,11-18)

La quarta domenica di Pasqua è detta, tradizionalmente, del Buon Pastore: in essa infatti la liturgia propone sempre brani evangelici in cui Gesù è presentato con le immagini del pastore. Proprio per questo motivo è stata anche scelta come giornata di preghiera per le vocazioni: a Colui che pasce il gregge di Dio si chiede con particolare fiducia l’aiuto e la grazia per coloro che lungo la storia sono chiamati a continuare la sua opera pastorale.

L’icona del ‘Bel Pastore’ esprime il rapporto unico e personalizzato tra Gesù e i suoi, fatto di trasparenza sponsale e di fiducia totale. La bellezza è «l’esca del divino» (S. Weil), perché si impone per la sua capacità di attrarre con gratuità, oltre i pregiudizi e con nuove prospettive. La bellezza di Gesù, legata al dono di sé, rovescia i criteri del mondo: la sapienza è nella stoltezza della Croce e la potenza è nella debolezza dell’amore che tutto trasforma. In Gesù, ascoltato con «le orecchie del cuore» (S. Benedetto) e preferito ai maestri del nulla, Dio si interessa a ciascuno, lo chiama per nome, lo cerca ovunque, lo salva pagando di persona.

C’è diffidenza verso questa immagine ‘pastorizia’ e rifiuto sdegnoso del proprio ruolo di ‘pecora’. Ci si crede tanto autonomi, pur essendo spesso dei ‘gregari’ negli acquisti, nelle correnti di pensiero, nel ‘politicamente corretto’… Ci si consegna facilmente a ‘pastori’, che offrono (o ‘impongono’?) servizi a pagamento, ‘mercenari’, ai quali non importa nulla della nostra vita e felicità.

In tempo di Pasqua, la porta evoca l’obbedienza del Figlio alla volontà del Padre fino alla croce, l’accesso alla terra promessa della risurrezione, il grande dono del Battesimo, l’unicità del Signore capace di radunare le pecore da tutti i luoghi della dispersione.

PREGHIERA - Sei tu, Gesù, il buon pastore: ognuno di noi è prezioso ai tuoi occhi tanto che non hai esitato a versare il tuo sangue. È questo che ci dà la certezza del tuo amore totalmente gratuito: non è nessun calcolo a guidare la tua relazione con noi, ma solo un amore smisurato che ti conduce ad esporti in prima persona per difenderci dal male.

Sei tu, Gesù, il buon pastore: tu ci conosci fin nel profondo con uno sguardo colmo di benevolenza e di compassione. Davanti a te noi sappiamo di poter stare con fiducia, senza nascondere le nostre fragilità, le nostre debolezze, le nostre ferite. Nulla, infatti, ti è ignoto di quello che passa per l’anima e proprio per questo, assieme a te, possiamo affrontare senza paura anche i percorsi più difficili.

Sei tu, Gesù, il buon pastore: la tua voce ha un timbro unico capace di raggiungere le zone più profonde della nostra esistenza e di destare in noi il desiderio di seguirti.

sabato 28 aprile 2012

382 - PADRE GIOVANNI PIAMARTA SARA' PROCLAMATO SANTO IL 21 Ottobre 2012.

381 - LA COMPRENSIONE DELLE SCRITTURE

Per una pausa spirituale durante la IIIª Settimana di Pasqua

Luca (24,35-48) presenta l’apparizione del Cristo risorto ai discepoli il giorno stesso di Pasqua. Questa scena segue immediatamente l’episodio dei discepoli di Emmaus che tornano velocemente a Gerusalemme con l’entusiasmo di chi ha fatto un grande incontro e brama comunicarlo ad altri; ma trovano che anche i discepoli in città sanno la grande notizia e sapientemente Luca mette sulle loro labbra un’antica formula di fede apostolica: «Davvero il Signore è risorto ed è apparso a Simone» (v. 34). Essi raccontano quindi «ciò che era accaduto lungo la via e come l’avevano riconosciuto nello spezzare il pane» (v. 35): in tal modo l’evangelista sottolinea ancora una volta i temi del cammino e del riconoscimento, che tanto gli stanno a cuore e che ora riprende con il nuovo racconto. Notiamo che l’espressione «spezzare il pane» (in greco: klásis tû ártu; reso in latino con: fractio panis) costituisce il termine tecnico più antico, adoperato dalla comunità cristiana per indicare la celebrazione eucaristica, e deriva dalla prassi giudaica di iniziare il pasto con tale gesto orante: riferito a Gesù, richiama certamente il gesto simbolico da lui compiuto nell’ultima Cena, alludendo alla propria vita «spezzata e data».

Come era capitato lungo la via per Emmaus (24,15), così ora si ripete nel cenacolo: mentre i discepoli stanno parlando delle loro esperienze, «egli stesso» (in greco c’è solo il pronome autós, senza il nome proprio Gesù) «stette in mezzo a loro» (v. 36). Come in Giovanni (cfr. Gv 20,19.26), anche Luca adopera un semplice verbo (éstē) per indicare la presenza di Gesù che, in piedi, si colloca al centro del gruppo; evita quindi ogni particolare di ‘apparizione’ miracolosa. Come in Giovanni (cfr. Gv 20,19.21.26), anche Luca riporta il saluto iniziale di Gesù nella forma «Pace a voi», con l’intento di dare al normale saluto giudaico un significato profondo, in quanto la ‘pace’ rappresenta l’evento messianico stesso e ai discepoli viene comunicato l’effetto dell’opera compiuta dal Messia nella sua Pasqua di morte e risurrezione.

Luca però, a differenza di Giovanni, aggiunge alcune importanti osservazioni sulla reazione dei discepoli, i quali «sconvolti e pieni di paura credevano di vedere un fantasma» (v. 37): in greco si adopera il termine «pnêuma», per indicare uno ‘spirito’, cioè una realtà incorporea. È chiaro che l’evangelista vuole insistere sulla realtà anche fisica del corpo del Cristo risorto: ciò che segue nel racconto ribadisce oltre ogni incertezza l’intenzione di affermare narrativamente che la risurrezione di Gesù è avvenuta nel «suo vero corpo».

Le parole di Gesù servono per chiarire al lettore la reazione dei discepoli: il loro turbamento è dovuto al fatto che sorgono dubbi nel cuore (v. 38). È tradotto con ‘dubbi’ il termine dialoghismós che evoca piuttosto ragionamenti e scambi verbali, per dire come il tanto parlare che di quell’evento avevano fatto non fosse sufficiente a comprenderlo e accettarlo (cfr. 24,17). Come in Giovanni (cfr. Gv 20,20), anche Luca sottolinea il riferimento alle mani e ai piedi del Risorto, in quanto sono le parti del corpo che recano i segni della condanna a morte, cioè ferite guarite, cicatrici che dicono il fatto della morte e il suo superamento. È importante, anzi fondamentale, l’identità del Crocifisso con il Risorto: la risurrezione infatti non è altro rispetto alla storica vicenda vissuta da Gesù, bensì la sua ripresa trasfigurata dalla potenza divina.

Il Risorto non è uno pnêuma, ma «ha carne e ossa», addirittura – dice Luca – prese una porzione di pesce arrostito e lo mangiò davanti a loro (vv. 42-43). Nel suo consueto tentativo di scusare gli apostoli, l’evangelista spiega che non credevano ancora perché erano troppo contenti, sembrava loro «troppo bello per essere vero!»: tale insistenza ha però la funzione di convincere il lettore, aiutandolo a superare i vari dubbi che l’annuncio della risurrezione poteva comportare, soprattutto in un ambiente di cultura ellenista. Inoltre per Luca è importante il fatto che gli apostoli abbiano mangiato con Gesù dopo la sua risurrezione dai morti (cfr. At 10,41): perciò in questo caso è detto che egli stesso mangiò con loro. Proprio da questa condivisione della mensa con il Risorto nacque per la comunità cristiana la prassi eucaristica, come reale – anche se sacramentale – continuazione dell’originale «mangiare con il Risorto».

Al vertice dell’incontro sta la parola di Gesù che spiega il senso di ciò che è avvenuto, richiamando le parole (hoi lógoi) che aveva già rivolto loro durante la vita terrena, ma che i discepoli non avevano ancora accolto e capito. Per la terza volta nei racconti del cap. 24 ritorna l’importante forma verbale «bisogna» (24,7.26.44), per sottolineare una necessità teologica: «Bisogna (dêi) che si compiano tutte le cose scritte su di me nella legge di Mosè, nei Profeti e nei Salmi». Questa formula tripartita richiama il consueto modo giudaico di indicare la Bibbia, che offre la via percorribile per comprendere il significato di ciò che è capitato al Messia Gesù: «Così sta scritto: il Cristo patirà e risorgerà dai morti il terzo giorno» (v. 46). Una frase del genere non si trova in nessun testo biblico, tuttavia esprime la sintesi del messaggio teologico che si può ricavare dalla meditazione sull’Antico Testamento. Infatti il Messia Gesù, risorto dai morti, è considerato la chiave ermeneutica delle Scritture, ma al contempo sono i testi biblici che offrono preziosi chiarimenti per comprendere l’evento del Cristo. Luca stesso si è formato all’interno delle prime comunità cristiane attraverso lo studio delle Scritture, rilette nella prospettiva dell’annuncio apostolico.

Un ulteriore passaggio però è molto importante e l’evangelista lo evidenzia con cura, inserendo questa frase esplicativa fra i due discorsi di Gesù: «Allora aprì loro la mente per comprendere le Scritture» (v. 45). Solo la grazia e la potenza del Risorto possono ‘aprire’ la mente umana e permettere di capire in profondità la Bibbia, in quanto parola e progetto di Dio: è la continua presenza del Cristo in mezzo all’assemblea eucaristica dei discepoli che rivela loro lungo i secoli il senso delle Scritture. In forza di tale incontro e di tale comprensione, gli apostoli diventano «testimoni» (mártyres) di un evento che parte da Gerusalemme, ma riguarda tutta l’umanità, chiede cambiamento di mentalità (metánoia) e offre il perdono dei peccati.

L’intelligenza delle Scritture e la missione ci collegano di continuo a Gesù: così diventiamo, anche noi, annunciatori del suo perdono e della conversione, collaboratori della sua opera. È il Cristo stesso che ci apre la mente e che agisce in noi. Noi possiamo solo offrire mente, cuore e mani perché Gesù continui nel mondo la sua azione di salvezza.

sabato 21 aprile 2012

380 - L’INCONTRO CON IL RISORTO - 22 Aprile 2012 – Terza Domenica di Pasqua

(Atti 3,13-15.17-19 1ªGiovanni 2,1-5 Luca 24,35-48)

Le varie apparizioni del Risorto, proposte dai Vangeli domenicali in questo periodo, chiedono di spostare il baricentro della vita ecclesiale dalle iniziative e dall’organizzazione, dalle strategie e dai progetti al soggetto personale ed ecclesiale che li attua nella storia. Il tempo pasquale rimette al centro dell’attenzione Cristo, con cui i discepoli di ogni tempo sono chiamati a confrontarsi. La domanda vera e urgente allora è: «Per Chi» si fanno quelle attività? L’essere efficienti è utile, ma non è sufficiente. Il movente di tutto deve essere Cristo.
Il cristianesimo non è una somma di iniziative o di strutture, ma un rapporto personale e comunitario con Cristo, che si può vivere solo dentro a un’autentica vita ecclesiale. L’amore a Cristo è il fondamento ed il principio di ogni impegno. Tutto allora può essere un’occasione per incontrare Cristo e sperimentare la bellezza dell’appartenenza al Signore che tiene insieme i credenti, nonostante le loro differenze e fragilità.
Gesù è il Signore e il Maestro, perché è il Figlio di Dio, il Rivelatore del cuore del Padre, colui che è passato dal buio del mistero del male. Ha diritto di parola solo chi ha fatto dono completo della propria vita. Il cristianesimo non è la religione del “libro”, perché la Parola è una Persona, Gesù, canale del colloquio tra Dio e l’uomo. L’ascolto di Gesù fa passare dal vuoto interiore all’accensione del cuore, dalla delusione all’entusiasmo, dal cammino sconsolato alla corsa appassionata al sepolcro.
Il Risorto educa la libertà delle persone, incontrandole negli ambiti del quotidiano: l’educazione è efficace se coglie la persona nell’insieme delle sue esperienze. L’Eucaristia nasce dalla vita di ogni giorno (‘spezzare il pane’, mangiare) e torna al quotidiano: affetti, lavoro, socialità, dolore, tempo.
L’assimilazione della Pasqua fa fronte alla crisi antropologica, rilevata anche dal Censis, che presenta gli italiani adulti come aggressivi, insoddisfatti e paurosi, dalle passioni tristi, vogliosi di ‘fare i giovani’, assuefatti al dolore altrui, incapaci di controllo delle pulsioni, con la crisi dell’autorità e il declino del desiderio, con riferimenti valoriali e ideali comuni sempre più deboli, con una crescente fragilità dei legami e delle relazioni sociali. Il soggetto è regola a se stesso, sempre più autoreferenziale. Molti ritengono di essere buoni cattolici anche senza tener conto della morale della Chiesa in relazione alla sessualità, al pagamento delle tasse ecc. C’è bisogno di ripartire dalla Pasqua, di essere ‘nuove creature’, di animare dal basso la società e illuminare le relazioni e i destini condivisi.
PREGHIERA - Il passaggio è inevitabile per tutti coloro che desiderano arrivare alla fede: è nelle Scritture, infatti, che si trova una luce che rischiara gli eventi dolorosi della tua passione e morte, Gesù, e permette di cogliere il senso di un percorso altrimenti oscuro e indecifrabile.
Ecco perché tu apri la mente dei discepoli all’intelligenza del testo sacro: grazie ad essa, infatti, ci è possibile scorgere l’amore di Dio che si rivela nel tuo dono totale.
Veramente, Gesù, tu hai offerto tutta la tua vita, fino in fondo, senza nulla trattenere per te. E la risurrezione è il sigillo che il Padre ha posto su quella che, a prima vista, poteva sembrare la vicenda prevedibile del perdente di turno, dell’ingenuo e dello sconfitto.
No, la via della croce è il percorso scelto da Dio per venire incontro all’umanità,
a costo di essere anche rifiutato e ucciso, nella certezza che solo l’amore può salvare veramente il mondo.

venerdì 20 aprile 2012

379 - PADRE PIAMARTA EDUCATORE AL LAVORO E ATTRAVERSO IL LAVORO.

Il grande vescovo di Cremona Geremia Bonomelli, amico ammiratore di Padre Giovanni Piamarta (1841-1913), così conclude una sua lettera: “Piamarta è il prete dei tempi moderni ! Quanti giovani ha ricondotto sulla retta via! Quante lacrime ha asciugate! Quanti genitori ha consolati, restituendo loro i figli riabilitati con il lavoro e con la pietà cristiana”.Il Vescovo sottolinea. in Padre Piamarta, la forza riabilitante del lavoro, della sua potenzialità di ricostruzione della persona del giovane specie se associata alla pietà cristiana.D’altro canto i suoi ragazzi, diventati padri di famiglia, confermavano le parole del vescovo Bonomelli, quando gli scrivevano “per esprimere il debito di incancellabile riconoscenza per i saldi principi, la saggia parola,il suo esempio, la vita esemplare, per i benefici ricevuti, per i mezzi d’imparare un mestiere”.Piamarta non è un teorico dell’educazione, ma un educatore che riflette sulla sua peculiare missione di dare dignità attraverso il lavoro a giovani che partivano sfavoriti nella vita.Ma dalla sua prassi e dai suoi scritti sparsi, si possono tracciare almeno tre indicazioni:-la prima è un’educazione che parte dal lavoro-la seconda è l’educazione che conduce alla valorizzazione del lavoro-la terza è sui ruoli educativi-Si possono segnalare le sue "fonti segrete"Lo possiamo fare riportando tre pagine del suo “diario ideale”, di recente pubblicazione:1.Un itinerario ideale di educazione a partire dal lavoro.1. I miei ragazzi la prima cosa che capivano era il lavoro. Non che fossero tutti fanatici del lavoro, ma è certo che il lavoro ben fatto li gratificava e soprattutto comprendevano che avrebbe permesso loro di farsi una posizione dignitosa nella vitaOccorreva certo avviarli al lavoro per i quali erano tagliati, perché buona parte della buona riuscita nella vita è fare il lavoro che piace, o, forse meglio, quel lavoro che è più conforme ai talenti ricevuti.2. Dal lavoro viene lo studio: anche se qui agli Artigianelli i libri all’inizio non erano molto popolari, tuttavia non è stata un’impresa ardua far comprendere come lo sviluppo tecnico presupponga non solo abilità manuale ma anche un bagaglio sempre più corposo di nozioni teoriche.3. La fatica e la perseveranza necessaria per ottenere dei buoni risultati, aiutava a mettere in evidenza la necessità di formarsi un carattere forte, che non si lascia demoralizzare dalle piccoli e grandi difficoltà, ma che permette di diventare grandi nelle difficoltà.Quanti ragazzi hanno raggiunto alti traguardi, pur partendo da condizioni sfavorevoli, per il fatto di non lasciarsi piegare dalle condizioni avverse. Un carattere tenace, non lamentoso, che non scarica sempre le colpe sugli altri, che non si lascia abbattere facilmente, che cerca sempre soluzioni alternative, è garanzia di buona riuscita nella vita.4. Il passo che viene logico è la necessità di formarsi una coscienza che dice che non tutto quello che si desidera è buono, che non tutto quello che è possibile fare, può o deve essere fatto. E’ la formazione all’onestà, a non approfittare della posizione di vantaggio per rovinare l’altro, al tener presenti i bisogni e le difficoltà altrui. Se uno ha più doti di un altro per questo non deve sentirsi superiore e umiliare o affamare l’altro.In un mondo di furbi, l’onestà è assai probabilmente la furbizia più lungimirante.5. Alla base di tutto ci sta poi la formazione religiosa che illumina e affina la coscienza, la quale, sapendo di dover rendere conto a Dio, agisce guidata da criteri di umanità e di carità, che vanno ben oltre quelli della nuda giustizia. E tendono a promuovere la fraternità che è ciò che rende vivibile e amabile l’umana avventura.Mi piaceva ripetere: “Chi si inginocchia davanti a Dio, può camminare a testa alta in mezzo agli uomini. Il santo timor di Dio, fa perdere la paura degli uomini”.6. E infine, ho sempre combattuto la mediocrità, assunta come progetto di vita, per convincere che il progetto di Dio su di noi è la santità, la quale passa anche attraverso il desiderio di fare bene ogni cosa, il che rende contenti, fa contenti gli altri, ed è anche rasserenante perché non ci si sente soli nella vita.Il regalo dei miei carissimi ex alunni è proprio quello di confermarmi che li ho aiutati a vivere da uomini e, molti, anche da buoni cristiani.Penso che sia proprio lo Spirito Santo che ha operato nella mia missione, perché tutto questo ho dovuto inventarlo, cammin facendo, senza alcuna preparazione specifica se non quella del Vangelo.Ma non è il Vangelo la più possente forza propulsiva della costruzione di un’umanità più umana?”2. Educare al lavoro“Ogni giorno, quando passo a visitare le officine dei tipografi, fabbri, falegnami, sarti, panettieri, calzolai ecc., il mio cuore si riempie di gioia nel vedere tanti ragazzi che si preparano alla vitaIl pensiero che molti di essi sono stati tirati fuori dalla strada e da ambienti malsani corporalmente e spiritualmente, mi ripaga assai dei notevoli sacrifici che dobbiamo affrontare per loro.Il quotidiano contatto con la loro fatica nell’ apprendere bene un mestiere, mi obbliga a spiegare il significato del lavoro, che sarà parte essenziale della loro esistenza.Oggi ci sono concezioni parziali del lavoro, che non soddisfano, perché non rispondono alla realtà.Ci sono coloro che lo esaltano, al punto di dimenticare la fatica e le delusioni che spesso lo accompagnano. A quelli che dicono: “Il lavoro nobilita l’uomo” i miei ragazzi più birbanti rispondono, ridacchiando:”Ma lo rende simile alla bestia”.D’altro lato ci sono coloro che mettono in risalto solo gli aspetti negativi, citando magari il detto .biblico:”Guadagnerai il pane col sudore della tua fronte”. Il che è vero, ma non è tutto.Il lavoro è anche miglioramento della persona, è occasione di scoprire e di applicare le proprie capacità, è fonte di soddisfazione quando è ben fatto.Attraverso il lavoro ci si realizza, specie quando il lavoro corrisponde alle proprie attitudini.Oltre alla realizzazione personale, mi piace presentare il lavoro come contributo al miglioramento della società. Il grande progresso al quale stiamo assistendo è frutto del lavoro sempre più perfezionato. L’intelligenza applicata al lavoro ha creato macchine che lo rendono meno faticoso...Ma non sempre le cose sono così scorrevoli. Il lavoro va apprezzato, ma quando non da nessuna soddisfazione? Quando non è riconosciuto? Quando non piace?E i contrasti sul lavoro? Le ingiustizie? Le lotte? Gli odi? Le gelosie? Le rivalità? A NazarethQuando penso a queste cose il mio cuore corre a Nazareth,perché a Nazareth si trova il vero senso del lavoro. A Nazareth si lavora, si vive sotto lo sguardo di Dio e ci si vuol bene.A Nazareth si lavora: Giuseppe insegna un lavoro al Creatore di tutte le cose.Posso dire con orgoglio ai miei ragazzi che Gesù riceve una formazione ‘artigianale”, é un “artigianello”, è un tecnico che nella bottega di Giuseppe ha vissuto la maggior parte della vita sotto lo sguardo di Dio, crescendo in età, sapienza e grazia, imparando un mestiere e guadagnandosi il pane col sudore della fronte.“Con ciò le varie condizioni di vita, i vari uffici, tutti i mestieri, sono nobilitati, ingentiliti e consacrati, dall’averne partecipato l’uomo-Dio, il quale, avendo scelto il più umile, con questo suo fatto relativizzò le invidiate grandezze del mondo e conferì invece valore alle cose poco apprezzate”.Il Figlio di Dio è cresciuto come uomo lavorando, per mostrare come l’uomo che lavora puòcrescere nella statura di Figlio di Dio. Il lavoro, che fa parte della vita umana, lo innalza ad altezze vertiginose quando è unito alla volontà del Signore, perché,come dice S. Agostino, permette al “divino Architetto di costruire una casa eterna, attraverso impalcature provvisorie”.A Nazareth inoltre ci si vuol bene, si collabora, ci si aiuta, si è solidali.Anche questo è espressione della volontà di Dio, il quale vuole che si cresca nell’amore reciproco.Lavorando dunque con competenza e onestà, nell’ accettazione delle difficoltà, in solidarietà con chi fatica con noi, vestiamo la nobile livrea dei figli di Dio che collaborano con il Padre onnipotente creatore del cielo e della terra, il quale vuole costruir una dimora eterna per noi attraverso il nostro lavoro di costruttori di impalcature che passano.3. La divisione dei compiti educativi“Non mi sono mai piaciute le dispute, nelle quali si compiace il nostro secolo, e dove chi lavora di meno sembra aver più tempo per pensare a come imporsi di più.Le ho evitate il più possibile, anche perché c’è sempre il pericolo di far prevalere l’amor proprio sull’amore alla verità, oltre al pericolo di mancare alla carità.Ma qualche volta l’amore per la verità e la difesa dei miei confratelli mi ha spinto a prendere in mano la penna e mettere le cose in chiaro.Devo avere già accennato alle difficoltà con il dottissimo sacerdote don Baizini, inviato alla Colonia di Remedello per aiutare Padre Bonsignori nella formazione spirituale degli alunni.Io non ho neppure un decimo della sua scienza, ma non potevo accettare le sue osservazioni dettate probabilmente da una visione troppo teorica della realtà di oggi.La cultura è obbligata a misurarsi con la dura realtà quotidiana, dove le “belle” idee valgono nella misura in cui servono a interpretare o a cambiare la realtà.Una svalutazione delle realtà umane.Il dotto sacerdote rimproverava l periodico La Famiglia agricola di non educare il popolo perché gli articoli del Bonsignori e del Longinotti, pur eccellenti dal punto di vista tecnico scientifico, non contenevano nemmeno “mezza frase di spirituale” e che gli articoli volti all’educazione morale dei contadini, ad allontanarli dall’abuso del vino, dal cattivo uso del denaro e così via, non sembravano ispirati alla morale cristiana, quanto piuttosto ad una morale naturale e laica.Lo stesso mi scriveva: “Ci vuole molta dose di asineria giornalistica e grande ignoranza del cuore umano, per non capire che ci vuole ben altro per allontanare i contadini dall’uso del vino, dallo sprecare il denaro, dal rubare”.Questo mi è sembrato un attacco all’impegno di dare risalto alle cause seconde, senza oscurare la Causa Prima, per unire tecnica e religione, aggiornamento scientifico e maturazione spirituale, stima delle realtà naturali e affermazione delle realtà soprannaturali.In nome del soprannaturale svalutava il naturale: un errore di prospettiva opposto ma analoga, a quella di coloro che in nome del naturale svilivano il soprannaturale.I campi sono distinti anche se convergenti. A ciascuno il suo: ai tecnici spetta di illuminare sulle competenze professionali, mentre ai formatori religiosi spetta l’illustrazione delle realtà eterne.“La missione, concludevo la mia lettera insolitamente lunga. è duplice, di ordine diverso, ma mira ad un identico scopo finale”.Dobbiamo aver fiducia nella ragione e nella volontà umana rafforzate dalla grazia, per rispettare la creazione che non viene cancellata , ma elevata, dal Dio redentore.Se i due piani vanno distinti, non vanno opposti, per non dividere fede e ragione, come vorrebbero coloro che in nome della ragione vogliono cancellare la fede.L’educazione è fatta anche di equilibrio, di buon senso, di gradualità, di fiducia nelle potenzialità del giovane quando è sorretto dalla grazia del Signore, di paziente attesa.E’ una vera arte, dove il meglio astratto è nemico del bene concreto-Illumina Signore me e i miei collaboratori nell’educazione.“4. Le fontiLe fonti alle quali P.Piamarta ha attinto non sono le teorie pedagogiche, ma quelle più modeste e forse più impegnative dei santi. Da buon bresciano era più colpito dall’esemplarità che dalle teorizzazioni.In questo settore si possono ricordare tre Maestri-esemplari, come punti di riferimento: Benedetto, Ignazio di Loyola, Filippo NeriPerché il lavoro sia cristiano, occorre unire la “mistica del lavoro che trasforma la persona” (Benedetto) alla”mistica del lavoro che trasforma il mondo” (Ignazio), in un clima di serenità e di gioia (Filippo Neri).a)Benedetto e la perfectio operantisIl lavoro, nella tradizione benedettina, è visto come ascesi, come mezzo per salire a Dio.Il lavoro deve essere “regolato”, dal capriccio disordinato ad una ratio ordinata, alla collaborazione, in obbedienza.Infatti a Dio si va con i passi della ferialità, della quotidianità orientata a Dio.Benedetto si concentra sulla causa prima di fronte alla quale si vive l’esistenza quotidiana,fortiter, fideliter, feliciter.“Voi siete i benedettini dell’era moderna” dichiarava ammirato l’abate Caronti, nella visita apostolica in vista dell’ approvazione della Congregazione S.Famiglia di Nazareth, voluta anni prima da P.Piamarta.Del resto l’Istituto Artigianelli sorgeva su un terreno che, per più di mille anni, era parte della celebre abbazia benedettina di Santa Giulia, un luogo dove il binomio, ora et labora, pietas et labor hanno costituito un programma formidabile per la ricostruzione della civiltà occidentale.b) Ignazio di Loyola: nella cultura umanistica rinascimentale cresce l’attenzione per la cause seconde, che dà importanza all’ oggettività del lavoro ben fatto, espressione della capacità dell’uomo, della sua virtus.Da qui la valorizzazione della professionalità e della competenza. Si parla di perfectio operis. Importante per il miglioramento e l’umanizzazione del creato, che va continuamente “ordinato” dall’impegno dell’uomo.c)Filippo Neri sottolinea il lato gioioso della vita cristiana, al quale dà grande contributo la festa e l’allegria quotidiana.In P. Piamarta ’impegno per organizzare le grandi feste era pari all’impegno dell’organizzazione del lavoro. Soleva ripetere che “di festa in festa, si va in Paradiso”: la festa fa parte della pietas, dell’orientamento, del senso della vita, che è destinata a sfociare nella grande festa eterna.Nella festa si interpreta il lavoro quotidiano, si dà un’anticipazione di quello che ci attende.Alla base c’è la visione benedettina: lo splendore della liturgia parla del risultato ultimo del lavoro: si vive per fare festa più di quanto non si faccia festa per lavorare.Ripresa e reinterpretata dai gesuiti, con la festa barocca: la festa in chiesa non deve essere da meno della profana. Anzi la festa deve cominciare in chiesa, una festa allegra, paradisiaca, barocca.S. Filippo Neri vuole trasformare la vita quotidiana in una festa, con la scoperta della bellezza della vita cristiana, fonte di allegria.Per questo occorre diffondere l’allegria attraverso il gioco, la musica, il teatro, la gioia della buona coscienza e dell’essere amici del Signore.Coll’ occupare il tempo libero facendone il “tempo dell’allegria”, col nobilitare il quotidiano con il lavoro ben fatto, con la festa solennizzata che proietta e anticipa il futuro positivo.ConclusioneP. Piamarta educa attraverso il lavoro e al lavoro, ma immettendo il lavoro nel complesso della realizzazione dell’uomo nel suo cammino verso Dio.Nessuna idolatria del lavoro, ma anche valorizzazione del lavoro, fonte di sostentamento, di realizzazione personale, di miglioramento del mondo, di santificazione.Per questo si rifà ai grandi maestri della tradizione cristiana, che hanno preso sul serio l’importanza del lavoro, a partire dal Maestro, che prima imparò la dura lezione del lavoro a Nazareth, per poterla poi diffondere nel corso dei secoli.E ne ha acquistato in semplicità e incisività.

padre Piergiordano Cabra

378 - GESÙ E TOMMASO (seconda parte)

Per una pausa spirituale durante la IIª Settimana di Pasqua

Uno dei Dodici non era presente a quell’incontro determinante. Il narratore non lo presenta solo per nome (Tommaso), ma ne spiega il significato: purtroppo la nuova versione CEI 2008 ha conservato la stessa traduzione precedente, che non è adeguata. Un lettore italiano infatti comprende che Dìdimo fosse il soprannome di Tommaso, mentre è la traduzione greca (Dídymos) del vocabolo aramaico (Tomá’): entrambi significano «Gemello». L’espressione greca ho legómenos ricorre anche in Gv 4,25 per spiegare «Messia» con «Cristo»: è evidente che Giovanni vuole fornire la forma greca (Cristo) di un termine semitico (Messia). Lo stesso avviene qui. Inoltre è da osservare che in ben tre casi (oltre a questo avviene in Gv 11,16; 21,2) l’evangelista ci tiene a precisare che Tommaso significa Gemello: se lo fa, è perché lo ritiene importante.
Alla testimonianza dei discepoli («Abbiamo visto il Signore!») egli risponde con un’esigenza imprescindibile: per poter credere ritiene necessario vedere il segno dei chiodi e mettere la mano nel suo fianco. Proprio quello che Gesù aveva fatto coi discepoli nel primo incontro diviene oggetto del desiderio di Tommaso: più che incredulità è ricerca di sicurezza, desiderio di una garanzia che lo possa rendere certo dell’identità del Crocifisso con il Risorto. La richiesta sembra corretta, perché il Cristo lo accontenta e gli dà soddisfazione (come dice la liturgia bizantina).
Però l’evangelista sottolinea che l’apparizione a Tommaso non è privata: ripete infatti con precisione i vari passaggi del racconto precedente e ambienta il secondo incontro «otto giorni dopo» (la seconda domenica di Pasqua!), quando il discepolo ‘gemello’ non è isolato, ma presente con gli altri. A lui quindi è riservata tutta l’attenzione e il narratore vuole evidenziare come il Risorto conosca bene le parole del discepolo assente, visto che gliele fa ripetere quasi alla lettera, aggiungendo un decisivo imperativo: «Non essere incredulo, ma credente!» (v.27). Nell’originale greco questo imperativo (mḕ ghínu) è espresso col verbo «divenire» (non «essere») e il tempo presente gli conferisce una connotazione di continuità in divenire: si tratta dunque di un’esortazione alla dinamica di fede, che muove dalla condizione di chi è «senza-fede» (á-pistos) per tendere alla realtà di chi è «credente, affidato» (pistós).
L’evangelista non dice che Tommaso abbia toccato Gesù. Semplicemente gli mette sulle labbra la più alta professione di fede di tutto il vangelo: «Mio Signore e mio Dio!» (v. 28). Il discepolo riconosce in Gesù il Kýrios, termine abituale per rendere in greco il nome proprio Yhwh, e Dio stesso; inoltre i due titoli divini sono caratterizzati dal possessivo, per indicare la stretta relazione con la propria vita. Alla luce di tale confessione si può cercare qualche soluzione al senso del nome Gemello: dall’essere ‘doppio’, tipico del dubbio, è passato infatti ad una adesione chiara; inoltre proprio grazie alla fede, diviene ‘simile’ a Gesù stesso, lasciandosi conformare a lui; infine – ancora meglio – il narratore vuole suggerire al lettore di riconoscere in Tommaso il proprio simile, facendo con lui l’itinerario di crescita nella fede in Cristo Gesù.
Con la beatitudine del credente Giovanni conclude il suo racconto: «Beati quelli che non hanno visto e hanno creduto!» (v. 29). L’esperienza dell’apostolo è stata importante per la sua fede; ma la sua testimonianza è fondamentale per la nostra fede. Come i primi destinatari del Vangelo, anche noi dopo duemila anni, non abbiamo visto né il Crocifisso né il Risorto: eppure crediamo in lui, perché effettivamente lo abbiamo incontrato nella mediazione ecclesiale, nell’esperienza dei sacramenti, nella profondità della nostra relazione umana. Da tale autentico incontro deriva per noi, gemelli di Tommaso, la beatitudine, ovvero la profonda contentezza del credente.
Il capitolo 20 termina con l’epilogo (vv. 30-31), in cui Giovanni spiega per quale fine ha raccontato quei segni di Gesù: anzitutto perché i suoi lettori (cioè noi!) credessero che Gesù è il Cristo e il Figlio di Dio. Ma il fine ultimo è la vita: credere in Gesù infatti permette di avere la vita, cioè la possibilità di vivere in modo pieno e realizzato.

377 - GESÙ RISORTO E TOMMASO (prima parte)

Per una pausa spirituale durante la IIª Settimana di Pasqua

Ogni 2ª domenica di Pasqua viene proposto sempre lo stesso brano evangelico (Giovanni 20,19-31), in forza dell’indicazione cronologica presente nel testo stesso: «Otto giorni dopo» (v. 26). Tale nota identifica un ritmo settimanale, caratterizzato dall’incontro del Cristo risorto con la comunità dei suoi discepoli: perciò questa domenica viene definita ‘ottava’ di Pasqua. Il consueto schema dei sette giorni è ripreso dalla tradizione ebraica, mentre è nuova la scelta del «primo giorno» della settimana come quello festivo: in questo passaggio dal sabato alla domenica è racchiusa simbolicamente la novità dell’evento cristiano, determinato appunto dalla risurrezione di Gesù Cristo.
L’evangelista Giovanni narra due apparizioni del Risorto nel cenacolo e le colloca in due domeniche successive: il giorno stesso della risurrezione e «otto giorni dopo», cioè nella domenica seguente. Significativo nel racconto giovanneo è il fatto dell’assenza e della presenza del discepolo Tommaso. Il suo ruolo è così significativo da indurre la liturgia ortodossa a chiamare questa festa «Domenica di Tommaso». Il brano letterario si può dividere in tre momenti: dapprima viene narrata l’apparizione del Cristo agli apostoli (vv. 19-23), a cui segue il breve dialogo fra i testimoni del Risorto e l’assente Tommaso (vv. 24-25); quindi ha luogo l’incontro con il discepolo presente nel cenacolo con gli altri (vv. 26-29). Gli ultimi versetti del capitolo (vv.n 30-31) non appartengono propriamente a questo episodio, ma costituiscono l’epilogo all’intera narrazione giovannea. Giovanni non precisa il luogo in cui avvenne il primo incontro fra il Cristo risorto e i suoi discepoli: annota solo che «le porte erano chiuse». La causa di tale chiusura è esplicitata come «timore dei Giudei»: gli amici di Gesù hanno paura delle autorità che l’hanno condannato a morte e si chiudono in casa. Il narratore sottolinea quindi la venuta straordinaria del Risorto in quell’ambiente chiuso e precisa poi che «stette in mezzo a loro». Il corrispondente verbo greco (hístēmi) ha una particolare connotazione, anche perché è costitutivo del verbo «risorgere» (anístēmi) e del sostantivo «risurrezione» (anástasis). Significa «stare in piedi», tipica posizione di uno vivo, e la sfumatura dell’aoristo esprime l’inizio di un’azione improvvisa: Egli si collocò quindi «al centro», segnando visivamente il proprio ruolo centrale e decisivo.
Il saluto («Pace a voi!»), ripetuto due volte, potrebbe essere il corrispondente di un banale «buona sera!», visto che è abitudine ebraica salutarsi così. Eppure Giovanni intende dare a formule consuete un significato decisamente più profondo: come aveva già spiegato nei discorsi della cena (cfr. Gv 14,27), la ‘pace’ data da Gesù non è affatto simile a quella del mondo. In tale saluto, dunque, l’evangelista ha racchiuso il senso dei «beni messianici» che il Risorto comunica in dono ai suoi amici. La possibilità di una pienezza di vita (questo è shâlom) è strettamente connessa all’evento di morte e risurrezione: perciò le parole di Gesù incorniciano il gesto di mostrare le mani e il fianco, ovvero le parti del corpo che recano i segni della sua morte. Non sono infatti piaghe (ferite che non riescono a guarire), ma cicatrici, cioè ferite rimarginate: testimonianza di un fatto storico, che è stato superato e trasformato da causa di morte in fonte di vita.
La pace messianica è dono e impegno: comporta infatti la continuazione dell’opera affidata dal Padre a Gesù. In tal modo i discepoli subentrano al Cristo stesso e vengono mandati a proseguire l’opera di «perdonare i peccati», cioè liberare l’umanità dal potere del male che rovina il progetto divino e frustra le attese umane: non si tratta di tollerare il peccato, ma di guarire alla radice quelle ferite che possono continuare a uccidere. Tale opera di guarigione può essere compiuta solo dallo Spirito Santo: perciò Giovanni precisa che nel contesto stesso della missione apostolica viene loro donato dal Risorto lo Spirito divino, tramite il simbolico gesto del ‘soffio’. Ricorre infatti lo stesso raro verbo (en-ephýsēsen) che è adoperato in Gen 2,7 per indicare il soffio vitale infuso dal Creatore all’uomo plasmato dalla terra: così l’evangelista vuole alludere all’opera di nuova creazione compiuta dal Risorto che dà origine ad un’umanità rinnovata, portatrice del suo stesso Spirito vitale. In forza di tale Spirito che opera in loro, i discepoli di Gesù potranno realizzare nella storia la grandiosa opera di vittoria sul peccato.

376 - LA RISURREZIONE … IL RISORTO (seconda parte)

Per una pausa spirituale durante la IIª Settimana di Pasqua

C’è ancora un particolare: il ‘sudario’, che in greco indica semplicemente un fazzoletto. Non era messo sulla faccia per coprire il volto, ma veniva arrotolato intorno al viso, nella composizione della salma per conservare chiusa la bocca. Infatti il verbo greco utilizzato (entylíssō) non vuol dire ‘piegare’, ma ‘arrotolare’: quindi il narratore vuol dire che il sudario, rimasto arrotolato, non era sgonfio, ma sollevato. Il corpo di Gesù fu composto così nel sepolcro. Ora però il testimone oculare nota che, in contrasto con la posizione delle altre tele, il sudario era arrotolato, non sgonfio, ma sollevato come prima. L’espressione greca allà chōrís significa proprio: «ma diversamente» ed evidenzia il contrasto fra la posizione delle tele e quella del sudario.
Eppure si trovava nello stesso posto (eis héna tópon, ovvero in unum locum, come traduce il latino). Letteralmente l’espressione vuol dire: in un posto; ma se è solo questo, l’indicazione è davvero banale e inutile, giacché tutte le cose sono «in un posto». L’uso dell’aggettivo numerale in un caso simile non è previsto dalla lingua greca, ma Giovanni si esprime con una formula semitica, per cui il numerale uno corrisponde all’aggettivo «stesso, medesimo». Pertanto la strana espressione giovannea intende ribadire che il sudario non era in un altro luogo, bensì nello stesso di prima: nessuno lo aveva tolto ed era ancora lì dove lo avevano messo.
Ma l’effetto prodotto era strano: infatti, poteva sembrare che ci fosse rimasta solo la testa, dal momento che il sudario, arrotolato e spesso, teneva sollevate le tele nella zona del capo, senza che nessuno avesse rimosso niente.
Ecco che cosa vide il discepolo amato. Vide una situazione tale che nessun agente umano avrebbe potuto produrre: nessuno infatti avrebbe potuto portare via il corpo e lasciare le tele in quello stato. Vide una situazione umanamente inspiegabile e credette alle Scritture e alla parola stessa di Gesù.
La risurrezione quindi non è presentata come una rianimazione del cadavere, ma come una “sparizione” del corpo, che implica una trasformazione totale dell’essere di Gesù. Egli infatti lasciando le tele funebri nel sepolcro, si presenta ai discepoli con il suo vero corpo: è lo stesso di prima, eppure vive in una dimensione totalmente nuova. È l’assoluta novità del Risorto. Lazzaro uscì dal sepolcro, portando cioè con sé i segni della morte, con le mani e i piedi ancora bloccati dai ‘legacci’ (keiríai) e il viso ‘circondato’ (periedédeto) dal sudario (cfr. Gv 11,44): Gesù, al contrario, lascia dentro tutte le tele funebri e semplicemente ‘sparisce’.
A questo punto l’evangelista interviene direttamente nel testo per dire che i discepoli non avevano ancora capito; così ribadisce come la comprensione piena e matura dell’evento di Cristo si abbia solo dopo la Pasqua. Infatti, solo dopo l’esperienza dell’incontro con il Risorto, gli apostoli capirono tutto il senso della storia precedente. Capirono che la risurrezione è l’intervento decisivo e creatore di Dio che ha trasformato completamente il corpo umano di Gesù, facendolo entrare in una dimensione nuova, annuncio e garanzia anche della nostra risurrezione.

375 - LA RISURREZIONE … IL RISORTO (prima parte)

Per una pausa spirituale durante la IIª Settimana di Pasqua

Nessun vangelo descrive l’evento della risurrezione, ma solo l’incontro con il Risorto e, prima di tutto, con i segni della assenza del corpo. È molto importante questa fedeltà ai dati della esperienza apostolica. Gli apostoli non hanno visto risorgere il Cristo, hanno visto la tomba vuota e hanno incontrato il Cristo dopo la Pasqua e di questo parlano. Mentre nella veglia del Sabato santo la liturgia propone il racconto della visita al sepolcro secondo i tre Sinottici, nella Messa del giorno di Pasqua viene proclamato lo stesso racconto secondo Giovanni (Gv 20,1-9).
Questo racconto fa parte della strutturazione più antica del Vangelo, è comune a tutti e quattro gli evangelisti e costituisce l’esperienza fondante della comunità pasquale: gli apostoli e i loro amici quel mattino, il giorno dopo il grande sabato di pasqua, vanno al sepolcro e lo trovano vuoto. Ciò che Giovanni dice in più rispetto ai sinottici è lo stato delle tele funebri all’interno del sepolcro. Analizziamo dunque questo testo, con l’intento di capire meglio che cosa videro i discepoli nella tomba vuota.
Un primo particolare giovanneo è il contrasto fra la luce e le tenebre. Maria di Magdala si reca alla tomba al mattino, eppure è ancora buio: l’indicazione del mattino è cronologica, mentre il buio è spirituale. Fuori è già spuntata la luce, ma dentro il cuore e la testa dei discepoli c’è ancora l’oscurità, cioè la non comprensione e l’assenza di fede.
Per questo, avendo visto la pietra rimossa dal sepolcro, Maria ha dedotto, secondo una logica puramente umana, che qualcuno abbia rubato il cadavere di Gesù: la prima spiegazione del fatto non è la risurrezione, ma è il furto della salma. Così il cuore della Maddalena è impazzito, la testa non ragiona più, corre disperatamente. Allarmati da questo annuncio, anche i due discepoli corrono al sepolcro.
Che cosa videro Simon Pietro e il discepolo che Gesù amava? Purtroppo, in questo caso, la precedente traduzione italiana non ci aiutava affatto a capire; la nuova versione ha portato alcuni miglioramenti significativi, anche se c’è bisogno ancora di qualche precisazione. La traduzione (CEI 1971) che parlava di «bende per terra» e di «sudario piegato in un luogo a parte» era proprio scorretta. Ho spesso chiesto a diverse persone che mi spiegassero come si immaginavano la scena del sepolcro vuoto in base a questa descrizione. E tutti concordavano nell’immaginarsi una simile scena: le bende, come strisce di stoffa, disordinatamente sparpagliate per il pavimento, mentre il sudario è pensato come un fazzoletto ben ripiegato e collocato da una parte. Una scena del genere non dice niente di preciso, al massimo una gran confusione.
La nuova versione (CEI 2008) migliora la resa, traducendo: «i teli posati là» e «il sudario – che era stato sul suo capo – non posato là con i teli, ma avvolto in un luogo a parte». Si potrebbe ancora migliorare e vi propongo questa traduzione: «Chinatosi, vide le tele giacenti, ma non entrò. Giunse intanto anche Simon Pietro che lo seguiva ed entrò nel sepolcro e vide le tele giacenti, e il sudario, che gli era stato posto attorno al capo, non giacente con le tele, ma arrotolato nello stesso posto» (20,5-7). Cerchiamodi capire meglio.
Giovanni è stato testimone alla morte e alla sepoltura di Gesù: ha potuto vedere come era stato collocato il suo corpo nel sepolcro. Nella prassi funeraria degli ebrei non esisteva niente di simile alle mummie egiziane; non si usavano strisce di stoffa, ma un grande lenzuolo che avvolgeva tutto il corpo, dopo che questo era stato spalmato di olio profumato; poi la stoffa del lenzuolo veniva fatta aderire al corpo con due o tre legacci, all’altezza del collo, della vita e dei piedi.
L’insieme di queste stoffe di lino è detto da Giovanni othónia; in latino è reso con linteámina e deve essere tradotto in modo generico con ‘tele’ (o ‘teli’). Quindi, per descrivere la posizione di queste tele Giovanni non fa riferimento al pavimento, ma usa il participio del verbo che vuol dire giacere (in greco kéimena): difatti il traduttore latino ha correttamente tradotto con «vidit linteamina posita». Perché l’evangelista insiste tanto nel descrivere questo particolare? Che cosa vuol dire con ciò? Evidenzia un contrasto: le tele non erano più su, ma erano andate giù! Dobbiamo immaginare che il lenzuolo sia rimasto intatto, i legacci chiusi, ma il tutto era afflosciato, le tele si erano sgonfiate, perché il corpo non c’era più. Sembrava quasi che ci fosse ancora, dato che tutto era perfettamente intatto.

374 - PASQUA … UN’OCCASIONE DA NON PERDERE

Per una pausa spirituale durante la IIª Settimana di Pasqua

La Pasqua è un’occasione singolare per annunciare il centro della fede cristiana, la risurrezione di Cristo, e per collegarla con l’esperienza quotidiana, facendo scoprire ad ognuno il ruolo di testimone del Risorto. L’attuale contesto è segnato dal congedo dal sacro, dalla «secolarizzazione della secolarizzazione» (S. Natoli), dalla indifferenza, dalla cultura anticattolica, dalla sostituzione della salvezza (ultra-mondana, escatologica, totale) con l’ossessione (tutta mondana) della salute, dal consolidarsi di una religione sociale che usa la fede come collante fra le persone o, peggio, dall’impiantarsi di una religione senza fede, di un cristianesimo senza Cristo, di una liturgia senza celebrazione.
Ma in quello che a volte sembra essere solo un deserto, resta sempre risorgente la domanda di senso, la constatazione di un ‘oltre’ che trafigge le singole esistenze finite, di un mistero che continua a provocare. È dunque necessario ripartire dalla novità rivoluzionaria del cristianesimo, dalla grammatica della fede che ritrova nello stesso tempo semplicità ed efficienza. L’augurio della Chiesa è di «respirare Pasqua ora», secondo l’espressione del poeta inglese G. M. Hopkins.
Il termine ebraico ‘Pasqua’ indica l’‘andare oltre’. Per gli Ebrei è la memoria del passaggio dalla schiavitù alla terra di libertà. La Pasqua cristiana costituisce il superamento della morte da parte di Cristo. La garanzia della verità della fede cristiana poggia dunque sul pilastro della risurrezione. Al credente non basta sapere che Gesù è morto; si tratterebbe di una croce in più tra i tanti patiboli della storia. Solo i cristiani pongono la loro fede in Cristo risorto, e non si è cristiani se non lo si crede. Essi non adorano neppure la croce ma il Crocifisso risorto: «Ciò che fa credere è la croce, ma ciò in cui crediamo è la vittoria della croce» (B. Pascal). Scrive Benedetto XVI: «Se si toglie questo, la fede cristiana è morta. Gesù in tal caso è una personalità religiosa fallita. Egli non è più il criterio di misura». Gesù al centro!
La Pasqua è il più grande evento della storia dell’universo, è come un’onda energetica, un movimento di espansione che avanza nel tempo. All’uomo, che lungo tutta la sua esistenza, dal concepimento alla morte, è sempre immerso in relazioni, viene donata una Compagnia senza fine. L’uomo post-moderno, impegnato con le sole sue forze a vincere ciò che distrugge la vita individuale e collettiva, sarebbe destinato a perdere irrimediabilmente la sfida. La Pasqua ha una valenza antropologica originale, risponde ad un’esigenza profonda ed universale del cuore di ogni donna e di ogni uomo: sconfiggere la paura della morte, con i suoi ‘anticipi’.
Con la resurrezione di Gesù, Dio ha avallato l’operato del Figlio: Cristo è l’uomo riuscito, la pietra angolare della casa, il Signore della vita, l’asse portante della storia. Ha scritto il poeta francese A. de Lamartine: «Il sepolcro di Cristo è il punto di partenza di un’idea che ha rinnovato l’universo; di una civiltà che ha trasformato tutto… Quella tomba è il sepolcro del vecchio mondo e la culla del nuovo». Gesù non è passato dalla tomba alla terra, bensì dal soggiorno dei morti al Padre, alla vita eterna. La risurrezione di Gesù è una vita trasfigurata: «Una vita che ha inaugurato una nuova dimensione dell’essere uomini … una sorta di “mutazione decisiva”, un salto di qualità» (Benedetto XVI).
Per noi, è l’avvenire che viene solo da Dio, con una totale gratuità. La nostra esistenza o è inconsistenza/inganno o è una promessa fondata. In società assai fluide come quelle europee, l’uomo ha bisogno di taluni punti fermi su cui poggiare. La fede nel Risorto è il dono più potente e straordinario che l’uomo possa ricevere, perché gli consente di porre con estremo realismo la questione della vita. Questa è la speranza cristiana: siamo destinati a durare per sempre!

lunedì 16 aprile 2012

373 - PADRE PIAMARTA E LE QUATTRO SCODELLE.

Il 3 dicembre 1886 non è solo la data di nascita dell'Istituto Artigianelli (Brescia), ma il giorno in cui don Piamarta diventa "Padre" Piamarta. Così lo chiamano quei primi quattro ragazzi attorno a quattro scodelle, vedendo che per lui non era rimasto nulla: "Padre" è la parola che esce spontanea dal cuore dei ragazzi. Padre, perchè provvede loro il cibo del corpo e dello spirito. "Padri" saranno chiamati i suoi continuatori che, come lui, hanno detto "si" all'invito di dedicare la vita ai giovani.

sabato 14 aprile 2012

372 - DALL’INCREDULITÀ ALLA FEDE - 15 Aprile 2012 – Ottava di Pasqua

(Atti 4,32-35 1ªGiovanni 5,1-6 Giovanni 20,19-31)

L’incredulità di Tommaso aiuta a purificare ogni falsa concezione di Dio e a scoprire il volto autentico di Dio che, in Cristo, si è caricato delle piaghe dell’umanità ferita. La misericordia è un tratto disarmante e incredibile del volto del Dio cristiano: Tommaso si sente amato anche nella sua incertezza e debolezza.
David M. Turoldo definiva Cristo «la mia dolce rovina»: se lo si incontra davvero, non si può più fare a meno di lui e, se si scappa lontano da lui, a poco a poco o prepotentemente si è obbligati a tornare sui propri passi, ancora più sedotti di prima. Per fare esperienza di Cristo, occorre mettersi in gioco totalmente: non basta il ‘sentito dire’, l’emozione momentanea, il ‘provare’…
Carlo Carretto diceva che Cristo non prende gusto a nascondersi, ma invita a superarci e a ritrovarlo concreto là dove si temeva che fosse assente. Tutta la storia sacra, da Abramo a Maria, presenta personaggi che hanno trovato Dio là dove la loro vita stava per naufragare. Dio è sempre più grande delle previsioni umane, sa precedere e raggiungere chiunque ed ovunque.
Si tratta di non lasciarsi condizionare dalla voce del buon senso, della prudenza e della paura per credere al sasso del piccolo Davide di fronte al gigante Golia, per imparare a danzare al ritmo della speranza, per nutrirsi di futuro più che di nostalgia.
Credere è bello, appagante e contagioso. Per vincere la tentazione dell’attivismo, spesso denunciato dall’attuale Pontefice, la Chiesa ha bisogno di formarsi alla scuola di Tommaso, che si fa di nuovo discepolo.
La fede cristiana coinvolge il corpo, non solo la mente. Tommaso ha visto il corpo crocifisso e sepolto di Gesù: ora abbisogna di un incontro diretto con lui, per crederlo vivo. La risurrezione è un fatto storico, che introduce Gesù con la sua umanità, fatta di carne e di spirito, in una dimensione di vita profondamente nuova. Per T. Verdon, studioso di arte, nessuna grande fede attribuisce importanza al corpo umano quanto il cristianesimo. Erroneamente annoverato tra le ‘religioni del libro’, esso in realtà crede in un Verbo divino che «si fece carne in Gesù Cristo». Tutto allora diventa ‘carnale’ e ‘corporeo’: l’immaginario, il linguaggio e la ritualità. Nessun cedimento allo gnosticismo e ad una fede disincarnata.
Le ferite di quel corpo crocifisso diventano ‘feritoie’ che lasciano trasparire l’amore del Padre, il prezzo dello scontro drammatico con le forze del peccato, la condivisione con le sofferenze dell’uomo. Quelle mani e quegli occhi purificati nel contatto con Cristo potranno accogliere e diffondere la pace, lenire e consolare, costruire la vita buona del Vangelo, trasmettere la gioia ricevuta dal Risorto.
Allo Spirito Santo vanno chiesti occhi di Pasqua, capaci di guardare nella morte fino alla vita, nella colpa fino al perdono, nella divisione fino all’unità, nella piaga fino allo splendore, nell’uomo fino a Dio, in Dio fino all’uomo, nell’io fino al tu. Si crede, si prega, si vive con tutto se stessi: anima e corpo, relazione coi fratelli di fede, legame col mondo.
PREGHIERA - La professione di fede di Tommaso squarcia oggi, Gesù, i nostri silenzi, dissolve i nostri dubbi, vince le nostre ultime resistenze. E ci proietta nel mondo della fede, con uno slancio colmo d’amore. Non è facile né immediato credere alla tua risurrezione, soprattutto dopo aver vissuto in prima persona gli eventi dolorosi della tua passione e morte.
Eppure tu ci prendi per mano come hai fatto con Tommaso. Ci offri la tua presenza, ci fai dono della tua pace. Tu immetti nella nostra esistenza il soffio del tuo Spirito che dischiude orizzonti nuovi di compassione e di misericordia. Tu ci mostri i segni indelebili della tua sofferenza, ma anche del tuo amore smisurato. E ci inviti ad abbandonarci senza alcuna reticenza alla tua grazia che rigenera.
È proprio allora che avvertiamo il bisogno di dirti con semplicità quanto sei importante per noi: alle tue mani affidiamo questa nostra vita perché tu ci conduca alla pienezza e alla gioia dell’eternità.

371 - BEATO GIOVANNI BATTISTA PIAMARTA: EDUCATORE DEI GIOVANI.

Per conoscere la vita e le opere di padre Piamarta clicca qui:

martedì 10 aprile 2012

370 - UN SORRISO … UN PICCOLO PROGRAMMA DI VITA PERSONALE E FAMILIARE

IL SORRISO
Salvifico e terapeutico, cura le piaghe del corpo e medica le ferite dell’anima. Un’espressione del viso semplice e contagiosa, simbolo di un profondo
bisogno di dialogo, di amore e di solidarietà.
Alla scoperta del perché è così importante imparare a sorridere.

15 Aprile Ottava di Pasqua: UN SORRISO … UN PICCOLO PROGRAMMA
DI VITA PERSONALE E FAMILIARE

Un sorriso
(Gino Mazzella)
Un sorriso non costa niente e produce molto,
arricchisce chi lo riceve
senza impoverire chi lo dà.
Dura un solo istante,
ma talvolta il suo ricordo è eterno.
Nessuno è così ricco da poter farne a meno,
nessuno è abbastanza povero da non poterlo donare.
Crea la felicità in casa,
è il segno tangibile dell'amicizia.
Un sorriso dà riposo a chi è stanco,
rende coraggio ai più scoraggiati.
Non può essere comprato, ne prestato, ne rubato,
perché è un valore solo nel momento in cui viene dato.
E se qualche volta incontrate qualcuno
che non sa più sorridere,
siate generoso,dategli il vostro,
perché nessuno ha più bisogno di un sorriso
quanto colui che non sa regalarne ad altri.

I bambini imparano ciò che vivono
(Doret's Law Nolte)
Se un bambino vive nella critica impara a condannare.
Se un bambino vive nell'ostilità impara ad aggredire.
Se un bambino vive nell'ironia impara ad essere timido.
Se un bambino vive nella vergogna impara a sentirsi colpevole.
Se un bambino vive nella violenza impara ad uccidere.

Se un bambino vive nella tolleranza impara ad essere paziente.
Se un bambino vive nell'incoraggiamento impara ad avere fiducia.
Se un bambino vive nella lealtà impara la giustizia.
Se un bambino vive nella disponibilità impara ad avere una fede.
Se un bambino vive nell'approvazione impara ad accettarsi.
Se un bambino vive nel sorriso impara a sorridere alla vita.
Se un bambino vive nell'accettazione e nell'amicizia
impara a trovare l'amore nel mondo.

369 - PENSIERI SUL SORRISO

IL SORRISO
Salvifico e terapeutico, cura le piaghe del corpo e medica le ferite dell’anima. Un’espressione del viso semplice e contagiosa, simbolo di un profondo
bisogno di dialogo, di amore e di solidarietà.
Alla scoperta del perché è così importante imparare a sorridere.
14 Sabato di Pasqua: PENSIERI SUL SORRISO

Chi sa ridere è padrone del mondo. (Giacomo Leopardi)
Un giorno senza un sorriso è un giorno perso. (Charlie Chaplin)
Un sorriso non dura che un istante, ma nel ricordo può essere eterno. (F. Schiller)
Il riso è la distanza più corta tra due persone. (Anonimo)
Sorridi sempre, anche se è un sorriso triste, perché più triste di un sorriso triste c'è la tristezza di non saper sorridere. (Jim Morrison)
Se guardi indietro potresti ricordare qualcosa che non tornerà più. Se guardi avanti potresti pensare a qualcosa che non arriverà mai. Chiudi gli occhi e riaprili solo quando avrai la forza di tornare indietro senza piangere e guardare avanti sorridendo. (Anonimo)
Non si può ridere di tutto e di tutti, ma ci si può provare. (Friedrich Nietzsche)
Cerca il ridicolo in ogni cosa e lo troverai. (Jules Renard)
Il riso è il sole che scaccia l'inverno dal volto umano. (Victor Hugo)
Ci vogliono settantadue muscoli per fare il broncio ma solo dodici per sorridere. Provaci. (Mordecai Richler)
Il sorriso è alla bellezza, quello che il sale è alle vivande. (Carlo Dossi)
La nostra capacità di riconoscere qualsiasi oggetto fallisce se si dispone di meno di un terzo di secondo. Per gli oggetti geometrici se si ha a disposizione meno d'un cinquantesimo di secondo. Ma la percezione d'un sorriso rimarrà in noi dopo che è balenato per non più d'un millesimo di secondo, tanto è sensibile la nostra mente alla vista del volto umano. (Richard Bach)
Nella fatica del tuo sorriso cerco un ritaglio di Paradiso. (Fabrizio De André)
Sorridere per primo è più importante. (Aldo Busi)
Un sorriso può aggiungere un filo alla trama brevissima della vita. (Laurence Sterne)
Sorriso è un arcobaleno sul nostro viso … (Lailly Daolio)
Molti cuori ha visitato l'aurora, nidi nascosti in cui covano calde speranze d'amore pronte a schiudersi, al primo tocco leggero che dice che è l'ora di spegnere il freddo notturno del buio e aprire il sorriso all'annuncio solenne del sole. (Aurora Barba)
Il sorriso è la musica silenziosa dell'animo.( Teresa Spera)
Un sorriso può sciogliere il ghiaccio.( Grazia Finocchiaro)
A volte basta un sorriso per dimenticare le difficoltà della vita. (Maurizio Usai)
Il sorriso è la benzina per affrontare questo viaggio chiamato vita. (Enrico Mattei)
Nel silenzio di un sorriso si esprimono infoinite emozioni. (Leonardo Cantoro)
Siamo seri. Facciamoci una bella risata: (Anonimo)
Non sapremo mai quanto bene può fare un semplice sorriso. (M. Teresa di Calcutta)
BUONA PASQUA BUONA PASQUA BUONA PASQUA BUONA PASQUA

368 - COME ALLENARSI AL SORRISO

IL SORRISO
Salvifico e terapeutico, cura le piaghe del corpo e medica le ferite dell’anima. Un’espressione del viso semplice e contagiosa, simbolo di un profondo
bisogno di dialogo, di amore e di solidarietà.

Alla scoperta del perché è così importante imparare a sorridere.

13 Aprile Venerdì di Pasqua: COME ALLENARSI AL SORRISO

I pensieri positivi della sera. Questo esercizio è un classico della psicologia positiva. Consiste nel focalizzarsi, poco prima di addormentarsi, sui bei momenti trascorsi durante la giornata. Non occorre ricercare grandi vissuti, basta evocare piccole gioie quotidiane.
Sostenersi nei momenti positivi. La condivisione sociale è un regolatore delle emozioni che funziona al ribasso per quelle negative, grazie a un effetto di sostegno, e al rialzo per quelle positive. Esprimerle, dunque, consente di codificarle nella nostra memoria, trasformandole in risorse a cui attingere per affrontare le avversità future.
Conoscere le proprie esigenze di felicità. La tendenza a fossilizzarsi sulle abitudini e ad accontentarsi delle “felicità commerciali” deve essere contrastata riflettendo regolarmente su ciò che realmente piace.
Non perdere mai di vista le proprie priorità. È fondamentale avere sempre ben presente la differenza tra ciò che è urgente e ciò che è importante. Tra le cose urgenti rientra, ad esempio, fare la spesa, cucinare, lavorare; tra quelle importanti, stare bene con le persone care, meditare, dedicarsi a una lettura, pregare. In generale, ciò che è urgente è rumoroso e mobilita, mentre ciò che è importante è silenzioso e si lascia dimenticare facilmente. Perdere di vista le cose importanti provoca un’inspiegabile sensazione di frustrazione e di vuoto esistenziale a cui, in un primo momento, è difficile dare una spiegazione. Sino a quando finalmente capiamo: da quanto tempo non sorrido? E se fosse questa la mia malattia?
Pregare. “La preghiera dell’uomo triste non ha mai la forza di salire fino a Dio. Poiché si prega solo nello sconforto, se ne dedurrà che nessuna preghiera è mai giunta a destinazione”. Questa frase paradossale, attribuita a uno gnostico del II secolo, insegna una cosa importante: si prega anche con il sorriso.
Annoverare il sorriso tra i propri valori personali. Memorizziamo meglio una situazione di emozioni se queste ultime sono associate a dei valori. Pertanto, valorizzando il potere, saranno ricordati soprattutto i successi; privilegiando il denaro, i guadagni e gli arricchimenti conquistati. Al contrario, ricercando il sorriso, risulterà più facile far riaffiorare i ricordi legati ai momenti felici.
( tratto da Cristophe André, “Quattro lezioni di pace interiore. Viaggio attraverso gli stati d’animo”, Corbaccio, Milano)
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367 - RIMEDIO PER LA FATICA

IL SORRISO
Salvifico e terapeutico, cura le piaghe del corpo e medica le ferite dell’anima. Un’espressione del viso semplice e contagiosa, simbolo di un profondo
bisogno di dialogo, di amore e di solidarietà.

Alla scoperta del perché è così importante imparare a sorridere.

12 Aprile Giovedì di Pasqua: RIMEDIO PER LA FATICA

“A essere innescato – prosegue Pasquale Ionata, psicoterapeuta, già docente di psicologia della personalità alla Pontificia facoltà Auxilium di Roma – è l’allenamento della tensione psichica, che produce un grande sollievo e un benefico rilassamento interno, sostituendo all’attività di facoltà affaticate quella di altre più fresche, utilizzate di rado. Quando si è stanchi ed eccitati, è più facile ottenere il riposo in questo modo piuttosto che rifugiandosi nell’inazione, durante la quale la mente continua a svolgere a vuoto il suo febbrile lavoro. Altra funzione utile del sorriso è quella di costruire uno sfogo innocuo e opportuno delle tendenze represse. Anzitutto di quella ludica, dell’inclinazione a giocare che è assai viva in noi e di cui non si tiene abbastanza conto. Troppo presto e troppo duramente viene represso il nostro “io bambino” che, grazie a un sorriso, può invece risvegliarsi, riaffiorare e ravvicinarci”. Da un punto di vista fenomenologico, sorriso e riso sfumano l’uno nell’altro. “lo psicologo Owen Fitzpatrick, allievo di un grande della psicoterapia come Richard Bandler – conclude Pasquale Ionata -, ha scoperto che ciò che accomuna i migliori comici è l’incredibile capacità di osservare una data situazione e di trovarne il lato divertente. Le sue scoperte sono note come la tecnica del “Filtro per ridere”. Essa consiste nel guardare a ciò che disturba attraverso gli occhi di un comico: immaginando, cioè, di dover presentare una scenetta o un monologo incentrato su un problema personale, provando a esagerare platealmente l’esperienza. La forza di una risata e di un sorriso possono aiutare a gestire in maniera efficace ogni tipo di problema e, in generale, rendono la vita più facile e divertente”. Resta solo da chiedersi: quali favori – per dirla alla maniera di Trevor – possiamo “passare” al nostro prossimo? Tanto per iniziare, basta sorridere.
(Articolo di Elisa Fontana, pubblicato dal Messaggero di Sant’Antonio – Dicembre 2012)
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366 - CHI SORRIDE STA MEGLIO

IL SORRISO
Salvifico e terapeutico, cura le piaghe del corpo e medica le ferite dell’anima. Un’espressione del viso semplice e contagiosa, simbolo di un profondo
bisogno di dialogo, di amore e di solidarietà.

Alla scoperta del perché è così importante imparare a sorridere.

11 Aprile Mercoledì di Pasqua: CHI SORRIDE STA MEGLIO

Ma il sorriso potenzialmente è anche altro: scherno, aggressività, freddezza. Quali caratteristiche ha allora quel movimento espressivo ascrivibile a un atteggiamento facciale di benessere? A questa domanda risponde Pio Ricci Bitti, ordinario di psicologia generale all’università di Bologna, responsabile di una serie di esperimenti sulla natura sociale ed emotiva del sorriso: “ I sorrisi che esprimono emozioni positive implicano la presenza di almeno due movimenti mimici, ovvero l’innalzamento e l’allargamento degli angoli delle labbra, a opera del muscolo zigomatico maggiore, e la contrazione del muscolo orbicolare dell’occhio. In alcuni studi è stato analizzato il sorriso che esprime sensazioni piacevoli, un caso che potrebbe essere ascritto, in senso lato, al benessere: all’innalzamento e all’allargamento degli angoli delle labbra si associano una lieve apertura della bocca e una relativa riduzione della rima palpebrale”. Ma quindi, quali sono gli effetti del sorriso sul benessere psicofisico? In merito interviene Pasquale Ionata, psicoterapeuta, già docente di psicologia della personalità alla Pontificia facoltà Auxilium di Roma: “L’azione benefica sul nostro corpo si traduce in rapide contrazioni ritmiche delle fibre muscolari del diaframma. Esse producono un massaggio salutare sugli organi addominali, stimolandone le funzioni, attivando le secrezioni digestive ed epatiche; influiscono, inoltre, sul ritmo respiratorio, attivano la funzione polmonare e l’azione del cuore, producendo una migliore ossigenazione. Ma ben maggiore è l’utilità psicologica del sorriso”. Non a caso, in psicoterapia, le conquiste più importanti sono quelle che prevedono un diretto coinvolgimento delle stesse risorse del paziente. Di conseguenza, il sorriso, appropriatamente stimolato, ha in sé una notevole efficacia terapeutica, in quanto aziona le dinamiche alla base del benessere. La trama della nostra felicità è data infatti – come mostra la maggior parte degli studi sul tema – più dalla frequenza e dalla ripetizione di piccoli stati d’animo che dalla presenza di grandi sommovimenti emozionali.
(Articolo di Elisa Fontana, pubblicato dal Messaggero di Sant’Antonio – Dicembre 2012)
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lunedì 9 aprile 2012

365 - SERENITA’ TERAPEUTICA

IL SORRISO
Salvifico e terapeutico, cura le piaghe del corpo e medica le ferite dell’anima. Un’espressione del viso semplice e contagiosa, simbolo di un profondo
bisogno di dialogo, di amore e di solidarietà.

Alla scoperta del perché è così importante imparare a sorridere.

10 Aprile Martedì di Pasqua: SERENITA’ TERAPEUTICA

La letizia in volto, portatrice di un messaggio di per sé antiaggressivo, antigerarchico e socialmente coesivo, rappresenta non a caso, un importante forma di regolazione del comportamento espressivo che riguarda tanto gli aspetti interattivi e sociali quanto l’esternazione e la comunicazione delle emozioni. A confermare il valore terapeutico è, tra le altre, l’esperienza stessa di Smile train, per cui il sorriso simboleggia il binario sui cui corre la comunicazione tra chirurgo e paziente, mediata da un linguaggio universale che, riaccendendosi, unisce due culture diverse. Secondo Umberto Veronesi, riferimento internazionale per la lotta contro il cancro e direttore scientifico dell’Istituto europeo di oncologia di Milano, il sorriso rappresenta una delle componenti magiche della medicina moderna, attraverso cui poter influenzare psicologicamente il paziente. “Il malato chiede sempre di essere amato, in tutto il suo percorso di cura – racconta Veronesi nella prefazione del libro “La metà del viso” -. Per questo ha bisogno di un medico capace di trasmettere, anche con un gesto, uno sguardo, un sorriso, la certezza che non solo sta curando il malato, ma che si sta prendendo cura di lui. Un medico capace non di entrare non solo nel corpo ma anche nella mente del suo paziente, di condividere con lui il peso psicologico della malattia, di partecipare al suo desiderio di volersi mettere in gioco. Con un sorriso, il medico può lenire la sofferenza, dissipare l’ansia, dare una mano alla sua voglia di lottare contro la malattia e di vincere la sfida”. Il sorriso è la medicina naturale che ci fa stare meglio, dunque, ma anche la cartina di tornasole, la fotografia deputata a riflettere il nostro stato di benessere. È proprio una fotografia come se ne scattano tante, sulla quale alcuni visi sorridono e altri no, è stata oggetto di uno studio da parte di un gruppo di ricercatori dell’università di Berkeley, decisi a scoprire se esistesse un nesso tra l’espressione al momento dello scatto e la promessa di una vita futura felice. Nel complesso è emerso che i soggetti più sorridenti non solo presentavano i livelli più bassi di emozioni negative, ma, a distanza di anni, manifestavano una sensazione di vita felice. Il sorriso, dunque, è qualcosa di più dell’espressione di uno stato d’animo momentaneo: riflette, infatti, un’inclinazione durevole.
(Articolo di Elisa Fontana, pubblicato dal Messaggero di Sant’Antonio – Dicembre 2012)
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364 - COL SORRISO SULLE LABBRA

IL SORRISO
Salvifico e terapeutico, cura le piaghe del corpo e medica le ferite dell’anima. Un’espressione del viso semplice e contagiosa, simbolo di un profondo
bisogno di dialogo, di amore e di solidarietà.

Alla scoperta del perché è così importante imparare a sorridere.

09 Aprile Lunedì dell’Angelo: COL SORRISO SULLE LABBRA

Può una catena di sorrisi, da sola, portare la felicità a un gran numero di persone, passando di volto in volto? Parrebbe di sì, o almeno questa è la convinzione dell’undicenne Trevor, che ha elaborato una singolare teoria basata su un modello che non è né economico, né sociologico, ma esperienziale. Una teoria che ha anche un nome: “Movimento passa il favore”. A spiegare il principio fondante è lo stesso Trevor, al quale un insegnante ha affidato come compito quello di immaginare un gesto che potrebbe cambiare il mondo: “Questo sono io e queste sono tre persone a cui darò il mio aiuto. Ma deve essere qualcosa di importante, una cosa che non possono fare da sole. Perciò io la farò per loro e loro la faranno per altre tre persone”. La ricetta è di un’ovvietà disarmante. Stando a quest’insegnamento, anche un sorriso può rappresentare qualcosa di veramente importante: da solo, ne genera subito altri tre, poi altri nove e così via. Troppo semplice per essere vero. Semplice come guardare un film e sognare di tornare bambini. Il film in questione è Un sogno per domani e Trevor ne è protagonista. Non quindi un acclamato ricercatore o un illustre psicologo, ma semplicemente un bambino come tanti, in un film come tanti.
A volte però, la realtà supera la fantasia e si resta meravigliati nello scoprire che di catene del sorriso, al mondo, ne esistono davvero, e tante. Uno studio, pubblicato sul “British Journal of Medicine”, condotto per la prima volta su larga scala – un campione di 5 mila persone controllate periodicamente per vent’anni – lo ha di recente dimostrato. Il contagi emozionale prodotto dai sorrisi si trasmette attraverso la rete sociale fino alla terza cerchia di conoscenze, purché quest’ultime siano incontrate e frequentate con costanza. Smile train conferma la regola: centosessanta volontari, più di mille espressioni felici donate in soli tre anni. Sorrisi regalati ai volti dei bambini del Sud del mondo – sfigurati da una malformazione congenita della bocca o da traumi da guerra – spesso privati del pane, dell’acqua, ma anche di un’emozione felice. In questo caso il motivo del mancato sorriso è una menomazione e non un dolore dell’anima come accade, magari, nell’Occidente, dove la scienza per la cura del sorriso ha a che fare con la psicologia e poco con la chirurgia.
Spiega Fabio Massimo Albenavoli, specialista in chirurgia plastica ricostruttiva e maxilo-facciale, presidente di Smile train Italia onlus: “ A essere preclusa non è solo la possibilità di sorridere. Il problema comprende anche la difficoltà o l’impossibilità di parlare, mangiare, respirare, senza contare il grave disagio e l’isolamento sociale che ne deriva”. Dietro ai sorrisi del Sud del mondo si cela quindi un grande valore ovvero “il diritto che ogni individuo ha alla vita, alla libertà e alla sicurezza della propria persona”, così come sancisce la Dichiarazione dei diritti del’uomo. “Con l’intervento chirurgico – prosegue Albenavoli – non solo rimettiamo in asse tutte le strutture necessarie a elaborare un sorriso, ma restituiamo al nostro piccolo paziente il diritto a una vita normale”.
(Articolo di Elisa Fontana, pubblicato dal Messaggero di Sant’Antonio – Dicembre 2012)
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sabato 7 aprile 2012

363 - CRISTO, MIA SPERANZA, È RISORTO - 08 Aprile 2012 – Domenica di PASQUA

(Atti 10,34,37-43 Colossesi 3,1-4 Giovanni 20,1-9)

Con la resurrezione di Gesù, Dio ha avallato l’operato del Figlio: Cristo è l’uomo riuscito, la pietra angolare della casa, il Signore della vita, l’asse portante della storia. Ha scritto il poeta francese A. de Lamartine: «Il sepolcro di Cristo è il punto di partenza di un’idea che ha rinnovato l’universo; di una civiltà che ha trasformato tutto… Quella tomba è il sepolcro del vecchio mondo e la culla del nuovo». Gesù non è passato dalla tomba alla terra, bensì dal soggiorno dei morti al Padre, alla vita eterna. La risurrezione di Gesù è una vita trasfigurata: «Una vita che ha inaugurato una nuova dimensione dell’essere uomini… una sorta di “mutazione decisiva”, un salto di qualità» (Benedetto XVI).
Per noi, è l’avvenire che viene solo da Dio, con una totale gratuità. La nostra esistenza o è inconsistenza/inganno o è una promessa fondata. In società assai fluide come quelle europee, l’uomo ha bisogno di taluni punti fermi su cui poggiare. La fede nel Risorto è il dono più potente e straordinario che l’uomo possa ricevere, perché gli consente di porre con estremo realismo la questione della vita. Questa è la speranza cristiana: siamo destinati a durare per sempre!
La risurrezione è un seme fecondo che entra nel mondo, silenziosamente attecchisce per poi fiorire attraverso la catena dei testimoni. Anche nell’evento di Pasqua emerge il metodo con cui Dio si rivela al mondo, lo stile divino: non sopraffare con la potenza esteriore, ma dare libertà, donare e suscitare amore. È il grande valore del nostro essere in relazione. Chi entra in contatto con Gesù, non può dire ‘io’ senza dire ‘tu’, non può ritrovare la propria unità personale senza edificarsi con gli altri.
Il Risorto mostra che la vera, più profonda conoscenza passa attraverso l’amore dell’altro. Solo l’amore è credibile e dà ragione di ogni cosa. Dal dono amoroso dei testimoni passa l’evidenza della fede. La loro esperienza è contagiosa, proprio come quella che ognuno sperimenta nei rapporti di autentico amore. L’amore è fonte privilegiata di evidenza.
La Pasqua non è un’utopia, è un fatto e non si esaurisce nell’esperienza personale di Gesù. Con la risurrezione Gesù Cristo irrompe nella storia umana come nuovo principio di umanità, carico della forza irresistibile dello Spirito e si fa presenza, proposta e azione dinamica e coinvolgente. Si tratta di fare esperienza di questo Evento perché sprigioni tutta la carica di vita che contiene.
La Pasqua è rimuovere il macigno della solitudine e della miseria, dell’odio e della disperazione, del peccato. È lasciarsi aiutare ad uscire dalla propria tomba e adoperarsi per spostare il macigno del sepolcro accanto. La Pasqua è la primavera del cuore umano! È fondamentale guardarsi dentro e attorno, cogliere ciò che non fa cronaca e non è spettacolare, ma che tuttavia accade e immette nel vivo della storia tanta ricchezza di verità, di speranza e di bene. Così si impara ad accorgersi dei tanti segni credibili della risurrezione, dell’irradiazione della Pasqua di Cristo. È «l’economia sommersa della grazia» (T. Bello).
«Mangiare la Pasqua» è il fulcro della vita cristiana, la sintesi del passato e la prospettiva del futuro. Fare Pasqua con Gesù significa togliere il vecchio lievito, cioè sottrarsi all’influsso del male e diventare «pani azzimi di sincerità e di verità». Scriveva G. Bernanos: «Il Signore non ci ha detto di essere miele della terra, ma sale. Il problema è che oggi molti cristiani hanno la smania di essere miele, e lasciano il mondo andare in rovina». È il richiamo al ‘lievito’. Pasqua è una consegna: non si tratta di imbalsamare Cristo, ma di organizzare la risurrezione nel quotidiano, anche per vie inedite! Riportare alla luce ‘la sorgente’ permette di disseppellire quanto oggi pare ‘sepolto’: Dio, ideali, valori, la propria umanità. Allora sarà veramente Pasqua.
PREGHIERA - È ancora notte quando Maria viene al tuo sepolcro, Gesù, e lo trova spalancato e vuoto. E non le resta che pensare al furto del tuo corpo senza vita.
È ancora buio fuori e dentro di lei: sono le tenebre che avvolgono il suo cuore da quando ha visto il succedersi di avvenimenti drammatici, culminati nella tua morte sulla croce.
L’oscurità avvolge anche gli animi dei due discepoli che corrono alla tua tomba per constatare di persona. I teli e il sudario sono lì a testimoniare che tu non ne hai più bisogno perché la morte è stata sconfitta e tu ora vivi, risorto, nella gloria. Ed è proprio lì dentro il luogo in cui avrebbero voluto seppellire ogni tua parola e ogni tuo gesto, il tuo Vangelo e la speranza che il discepolo si apre alla luce della fede.
È grazie a quella luce che tutto acquista senso e la croce appare nel fulgore della tua risurrezione. È grazie a quella luce che il dolore e la tristezza si mutano in gioia e un’audacia nuova percorre il cuore.
BUONA PASQUA BUONA PASQUA BUONA PASQUA BUONA PASQUA

giovedì 5 aprile 2012

362 - TRIDUO PASQUALE – VEGLIA PASQUALE

Per una pausa spirituale durante il Sabato Santo - 07 Aprile 2012

La notte di Pasqua è al centro della fede cristiana. Fiamma fragile nella notte, diventa fuoco inestinguibile quando l’annuncio della risurrezione si spande fino ad irradiare ogni cosa, vincendo le tenebre della notte e del male. I simboli, i testi, i gesti, i canti hanno l’unico scopo di proclamare, al cuore degli inquieti, dei disperati e dei sofferenti: «La vita è salva! È Cristo risorto il Salvatore del mondo!».
Sono quattro le notti descritte nella Bibbia. La prima notte si ebbe quando Yahvé si affaccia nel caos dell’abisso per la creazione. La seconda notte è messa a fuoco quando Dio apparve ad Abramo. La terza notte ebbe il suo fulgore quando il Signore si manifestò nell’esperienza dell’Egitto, traendo in salvo con la sua mano potente i primogeniti di Israele. La quarta notte ebbe il compimento quando si impegnò a liberare il popolo dalla terra della schiavitù, chiamando quella notte notte di veglia. Sono queste quattro notti che offrono la trama alle letture della Veglia pasquale. La notte della parusia, per i cristiani, è anticipata in questa notte della risurrezione di Gesù.
Anche in quest’anno, nel Vangelo proclamato durante la Veglia pasquale, sono tre le donne a mettersi per prime in cammino per l’annuncio dell’evento pasquale. Sono, del resto, le donne che donano la vita ed è in questo mattino di Pasqua che si attua una nuova rinascita. Il Signore rinasce dalla morte.
Il momento del giorno è indicato come al levar del sole. È il momento nel quale la terra passa dalla notte al giorno. È il passaggio dalla morte alla vita. L’evangelista lo indica come il primo giorno dopo il sabato. Quando la Bibbia racconta la creazione, afferma che, dopo essere stata creata la luce, fu sera e fu mattino … e fu il primo giorno. In questo Vangelo di Pasqua si tratta di un nuovo primo giorno. È come se Dio ricreasse il mondo. La risurrezione di Cristo è nuova vita.
Le donne trovano la tomba aperta. È come dire che è stato creato un passaggio (Pasqua): c’è un cammino aperto fra la morte e la vita.
Le donne entrano nella tomba: la casa della morte è divenuta la casa della vita. E l’angelo dice loro: «Non abbiate paura». Noi, ora, non siamo più prigionieri né della paura né della morte: la grande porta è ormai aperta e sta per spuntare il sole. Siamo entrati nel giorno senza tramonto.
PREGHIERA - In questa veglia, Signore crocifisso e risorto, tu apri i nostri cuori alla speranza e infondi in noi una gioia e una forza inaudite.
No, non ci fanno più paura le notti che dovremo attraversare, le zone buie nelle quali ci troveremo, confrontati come tutti gli uomini con la fatica e la sofferenza. Tu hai acceso per noi un fuoco, che scioglie le nostre membra indurite dal freddo dell’egoismo e della cattiveria. Tu ci offri una luce che rischiara il nostro cammino.
No, non ci fanno più paura i lunghi silenzi che dovremo affrontare quando non abbiamo facili risposte di fronte al dolore degli uomini, di fronte alla miseria del mondo. Tu pronunci una parola d’amore, culmine di una lunga storia in cui Dio si fa compagno di strada, nostro alleato e nostro liberatore.
No, non abbiamo paura neppure dei deserti che pur dovremo percorrere: la tua acqua estingue ogni sete, ogni arsura.
E quando ci fermeremo, sfiniti dalla fame e dalla stanchezza, tu preparerai per noi la mensa e spezzerai per noi il Pane, il tuo Corpo spezzato per la nostra salvezza.

361 - TRIDUO PASQUALE – L’AGNELLO CHE TOGLIE TUTTI I PECCATI

Per una pausa spirituale durante il Venerdì Santo - 06 Aprile 2012

È il giorno drammatico della passione e morte del Signore. Gesù vive l’abbandono. Ma, anche se si abbandona fiduciosamente al Padre, offre se stesso a coronamento di una vita spesa per gli uomini. È il giorno in cui si fa esperienza del silenzio di Dio. La Chiesa non celebra l’Eucaristia, il momento liturgico è segnato dalla centralità della Croce, da venerare nel mistero che richiama. Ma è, anche, un giorno di riconciliazione, in cui nelle chiese cristiane non dovrebbero regnare paura e lamento, ma alzarsi forte il grido: «Lasciatevi riconciliare con Dio».
L’azione liturgica di questo giorno santo ci offre, in forma mirabile, la sintesi di un percorso di sacrificio oblativo: il profeta Isaia (52,13-53,12) offre un’intuizione meravigliosa del servo sofferente che viene indicato, nel Vangelo, come il Figlio di Dio che offre la vita per il mondo e che ci viene presentato nella lettera agli Ebrei (4,14-16;5,7-9) come colui presso il quale possiamo trovare misericordia. La Passione descritta da San Giovanni (18,1-19,42) è il culmine di questo disvelamento. L’innalzamento di Cristo in croce coincide con la sua ascensione nella gloria. Questo mistero del binomio croce-gloria ci offre la possibilità di incontrarci con Cristo, il grande sacerdote che, mediante il mistero della salvezza eterna, dà compimento ad ogni attesa di redenzione e di grazia.
Il Signore, agnello immolato, non ha improvvisato questo suo gesto. Aveva imboccato, con risolutezza, la strada per Gerusalemme, aveva rimesso la sua esistenza nelle mani del Padre, aveva conosciuto un momento di titubanza nel Getsemani, ma, poi, la tortura e la croce non l’avrebbero più fermato. Quest’agnello immolato è il Salvatore promesso che, con la sua vita offerta, supera, infinitamente, tutti i sacrifici antichi. È Giovanni che ci conduce a riconoscere Gesù crocifisso, il vero agnello pasquale, la sorgente del Battesimo e dell’Eucaristia, il Figlio eterno del Padre, disceso da lui per condurci fino a lui. Nel profondo silenzio di questo giorno, lo Spirito ci spinge a continuare la meditazione su questo mistero e a vedere fin dove la passione e la risurrezione di Gesù ci hanno coinvolto. E tutto questo avviene mentre attendiamo che le tombe delle miserie umane si aprano alla luce della Pasqua.
PREGHIERA - Dal tuo fianco squarciato, Gesù, escono sangue ed acqua, immagine dello Spirito e dei santi Sacramenti, ultimi doni che tu fai all’umanità, lavacro che rigenera a nuova vita. Ecco perché, oggi, giorno consacrato al ricordo della tua passione e morte, io mi metto ai piedi della croce.
Contemplo il tuo corpo, denudato e inchiodato al patibolo, riconosco i segni delle battiture, le lacerazioni aperte dai flagelli Ne, sul tuo capo, la corona di spine,
macabra invenzione dei soldati per dire il loro dileggio e provocarti ulteriori sofferenze.
Non posso fare a meno di pensare quanta consolazione, quanta speranza ha trasmesso questo corpo che ora è percorso dallo spasimo dell’agonia. Non posso dimenticare
la forza liberante che ha emanato, la compassione che l’ha abitato, il contatto che ha cercato con tutti i sofferenti.
Ma sono qui soprattutto perché voglio essere bagnato da quel sangue e da quell’acqua che lavano la mia esistenza e le offrono la possibilità di attingere alla vita stessa di Dio.

360 - TRIDUO PASQUALE - FATE QUESTO IN MEMORIA DI ME

Per una pausa spirituale durante il Giovedì Santo - 05 Aprile 2012

È il giorno della Cena del Signore con i suoi. Nel memoriale eucaristico la comunità cristiana accoglie il testamento del Signore: «Fate questo in memoria di me». I segni del pane e del vino rimandano al dono di se stesso, da ripetere nella storia come contrassegno essenziale della sequela. Per questo la tradizione ha associato alla Cena il rito della lavanda dei piedi, a testimonianza dell’impegno di servizio che, nella fedeltà a Gesù, la Chiesa si assume.
L’evangelista Giovanni, per presentare la Cena, si è affidato al Testamento di Gesù: il servizio della lavanda dei piedi, il comandamento dell’amore vicendevole. Il tutto può essere inquadrato nell’affermazione: «Il Figlio dell’uomo non è venuto per essere servito, ma per servire e dare la sua vita in riscatto per molti» (Mc 10, 45). La comunità cristiana deve sentirsi, nel cuore dell’umanità, una comunità di servizio.
Alla sua Chiesa, chiamata ad essere serva come lui, Gesù consegna il segno della sua presenza: il nutrimento che la incorpora a lui, la ricolma del suo Spirito di amore e le dona la forza di offrire la vita per il bene di tutti. Come Dio è passato in Egitto per servire il suo popolo liberandolo dalla schiavitù e rendendolo un popolo di servi, così Gesù, questa sera, passa in mezzo alla comunità, ci lava, ci nutre e ci manda nel mondo per servire: questa è la Pasqua del Signore!
PREGHIERA - Amare fino in fondo, con un’offerta totale, senza nulla trattenere per te, come un pane spezzato per diventare cibo che nutre, come sangue versato per bagnare e trasformare questa nostra terra: ecco cosa tu ci offri, Signore. E per rivelare il tuo dono, smisurato e inestimabile, compi un gesto che stupisce, sconcerta e scandalizza.
Deponi le tue vesti per assumere la tenuta dei servi, versi l’acqua nel catino e ti pieghi fino a terra per compiere un’operazione umiliante e sgradevole. Se vogliamo portarci dentro un’immagine nitida e forte della tua missione, della tua identità, ecco cosa viene consegnato alla nostra memoria: tu che lavi i piedi agli apostoli, incurante delle loro proteste, tu che ti abbassi senza vergogna per poter raggiungere la loro sporcizia e le loro ferite. Tu affidi ad ogni discepolo una consegna precisa: Fate quello che io ho fatto a voi!

359 - SALMO 21(22)

Per una pausa spirituale durante il Mercoledì Santo - 04 Aprile 2012

[2] "Dio mio, Dio mio, perché mi hai abbandonato? Tu sei lontano dalla mia salvezza": sono le parole del mio lamento.[3] Dio mio, invoco di giorno e non rispondi, grido di notte e non trovo riposo. [4] Eppure tu abiti la santa dimora, tu, lode di Israele.[5] In te hanno sperato i nostri padri, hanno sperato e tu li hai liberati;[6] a te gridarono e furono salvati, sperando in te non rimasero delusi.[7] Ma io sono verme, non uomo, infamia degli uomini, rifiuto del mio popolo.[8] Mi scherniscono quelli che mi vedono, storcono le labbra, scuotono il capo:[9] "Si è affidato al Signore, lui lo scampi; lo liberi, se è suo amico".[10] Sei tu che mi hai tratto dal grembo, mi hai fatto riposare sul petto di mia madre.[11] Al mio nascere tu mi hai raccolto, dal grembo di mia madre sei tu il mio Dio.[12] Da me non stare lontano, poiché l'angoscia è vicina e nessuno mi aiuta.[13] Mi circondano tori numerosi, mi assediano tori di Basan.[14] Spalancano contro di me la loro bocca come leone che sbrana e ruggisce.[15] Come acqua sono versato, sono slogate tutte le mie ossa. Il mio cuore è come cera, si fonde in mezzo alle mie viscere.[16] È arido come un coccio il mio palato, la mia lingua si è incollata alla gola, su polvere di morte mi hai deposto.[17] Un branco di cani mi circonda, mi assedia una banda di malvagi; hanno forato le mie mani e i miei piedi,[18] posso contare tutte le mie ossa. Essi mi guardano, mi osservano:[19] si dividono le mie vesti, sul mio vestito gettano la sorte.[20] Ma tu, Signore, non stare lontano, mia forza, accorri in mio aiuto.[21] Scampami dalla spada, dalle unghie del cane la mia vita.[22] Salvami dalla bocca del leone e dalle corna dei bufali.[23] Annunzierò il tuo nome ai miei fratelli, ti loderò in mezzo all'assemblea.[24] Lodate il Signore, voi che lo temete, gli dia gloria la stirpe di Giacobbe, lo tema tutta la stirpe di Israele;[25] perché egli non ha disprezzato né sdegnato l'afflizione del misero, non gli ha nascosto il suo volto, ma, al suo grido d'aiuto, lo ha esaudito.[26] Sei tu la mia lode nella grande assemblea, scioglierò i miei voti davanti ai suoi fedeli.[27] I poveri mangeranno e saranno saziati, loderanno il Signore quanti lo cercano: "Viva il loro cuore per sempre".[28] Ricorderanno e torneranno al Signore tutti i confini della terra, si prostreranno davanti a lui tutte le famiglie dei popoli.[29] Poiché il regno è del Signore, egli domina su tutte le nazioni.[30] A lui solo si prostreranno quanti dormono sotto terra, davanti a lui si curveranno quanti discendono nella polvere. E io vivrò per lui,[31] lo servirà la mia discendenza. Si parlerà del Signore alla generazione che viene;[32] annunzieranno la sua giustizia; al popolo che nascerà diranno: "Ecco l'opera del Signore!".

Nel racconto della passione Marco (come pure Matteo) mette sulle labbra di Gesù morente il versetto iniziale del Salmo21, riportando la forma aramaica del testo: «Eloì, Eloì, lemà sabactàni?» (Mc 15,34). Le ultime parole di Gesù in croce non sono però un urlo di disperazione, né le espressioni di un uomo che soffre con angoscia il silenzio di Dio: riportando questo versetto, gli evangelisti volevano dire che Gesù pregava con le parole del salmo e, per coglierne il senso profondo, bisogna considerare tutta la composizione, che non considera solo l’aspetto della persecuzione e del dolore, ma comprende anche la fiducia nell’intervento di Dio e si conclude con la certezza della vita. In forza di questa autorevole interpretazione cristologica il Salmo 21 è stato scelto per la Domenica di Passione.
Questo salmo appartiene al genere letterario delle suppliche individuali ed è stato composto da un abile poeta che ha vissuto una tragica esperienza di sofferenza, ma ha pure sperimentato la liberazione e la salvezza. Come spesso avveniva nell’antica liturgia di Israele, quando una persona era riconoscente al Signore per un beneficio ricevuto, compiva un rito liturgico chiamato «todah», cioè «ringraziamento»: in questa circostanza veniva innalzata una preghiera in cui si faceva memoria del pericolo corso e si esprimeva la riconoscenza al Dio salvatore. Per lo più si trattava di formulari liturgici preconfezionati; ma in alcuni casi l’offerente stesso poteva comporre una propria personale preghiera di supplica e di ringraziamento. Con probabilità il Salmo 21 è nato in questo modo.
Partendo proprio dal ricordo della preghiera di Gesù in croce, la primitiva comunità cristiana ha riletto il Salmo 21 come supplica di Cristo e, attraverso una attenta meditazione di queste parole, insieme ai poemi del Servo, ha potuto comprendere meglio il senso e il valore della Passione. I discepoli di Gesù infatti ripensando ai drammatici eventi capitati al loro Maestro nei giorni della Pasqua, li trovarono in modo sorprendente simili a quelli evocati dal salmista e, lentamente, compresero il misterioso progetto divino della salvezza che passa attraverso la morte.