domenica 30 dicembre 2012

458 - SOTTO IL SEGNO DELLA BENEDIZIONE - 01 Gennaio 2013 – Maria Madre di Dio

(Numeri 6,22-27 Galati 4,4-7  Luca 2,16-21 )
BUON ANNO  BUON ANNO  BUON ANNO  BUON ANNO  BUON   “Cosi benedirete gli Israeliti: direte loro: Ti benedica il Signore e ti custodisca. Il Signore faccia risplendere per te il suo volto e ti faccia grazia. Il Signore rivolga a te il suo volto e ti conceda pace”. Cosi porranno il mio nome sugli Israeliti e io li benedirò”.
Questa lettura dal libro dei Numeri ci ricorda che il mondo e la vita sono sempre sotto il segno della benedizione.
Che cosa significa, in effetti, ricevere una benedizione? Come ci ha ricordato il biblista, «ogni qualvolta riceve una benedizione, l’uomo viene ricondotto dentro una storia buona, fatta di fedeltà ad un rapporto di alleanza, che lo mantiene unito a Dio e custodito dal suo amore». Così il sacerdote che pronuncia il nome di Dio sul popolo e compie un solenne gesto di benedizione, non usa la sua potenza a fini magici, ma piuttosto «veicola e trasmette l’abbraccio del Padre verso i suoi figli e mima la bellezza del nome di Dio sul corpo benedetto».
Nessuno può dirci cosa dovremo affrontare nell’anno che ci sta davanti e noi non siamo in grado di prevedere neppure quanto si trova dietro l’angolo. Ciò che conta, però, è che il bene più grande nasce in Dio e che trova in lui il suo compimento.
Uniti a Dio, troveremo la luce per capire quanto ci sta accadendo, la saggezza che orienta le decisioni giuste, la forza di metterle in pratica. Uniti a Dio, avvertiremo di non essere in balia di forze occulte: è Dio che guida la storia ed i segni per sperare non mancano. Gesù ha annunciato ed inaugurato un mondo nuovo. Le fatiche, le sofferenze del tempo presente sono simili ai dolori del parto: preludono ad una nuova vita. In ogni caso siamo custoditi dall’amore di Dio. Egli ci porta nel suo cuore e quindi nulla ci potrà strappare da lui.
La benedizione di Dio assume un volto e un corpo in Gesù. In lui, nel suo nome («Dio salva»), il piano di salvezza non è più solamente un programma, ma un’esperienza concreta, una piena manifestazione. A coloro che credono nel Figlio di Dio fatto uomo viene donata la pienezza della pace, cioè una salvezza che raggiunge
ogni ambito della vita umana. Non è solo assenza di guerra, ma guarigione, forza, sostegno. Non si tratta, così, di un sogno, di un’illusione, ma di una realtà consolante. Il corso della storia ne è segnato una volta per tutte e ogni tornante – costituito da un nuovo anno – non deve farci perdere di vista il senso, la destinazione del nostro cammino.
A questo proposito è importante apprendere gli stessi atteggiamenti di Maria. Essa appare come la «custode della benedizione», colei che ‘conserva’ e ‘confronta’ ogni avvenimento e ogni parola, alla ricerca del vero senso di quanto è accaduto.

PREGHIERA
Anche noi, in questo primo giorno di un nuovo anno civile, siamo invitati a metterci in cammino, proprio come i pastori, e a rompere ogni indugio.
Vinciamo, dunque, ogni resistenza, ogni atteggiamento di pigrizia e la paura della fatica che ci incollano alla nostra poltrona, al cantuccio sicuro che ci siamo costruiti. E affrontiamo con fiducia l’itinerario che ci sta davanti: è il Signore a tracciare la strada, è lui a fornirci le indicazioni giuste per farsi trovare.
Quando lo avremo incontrato tutto diventerà diverso: acquisterà un significato nuovo questa nostra esistenza e ci confronteremo senza timori anche con i tempi bui, con le zone oscure, con le prove che ci attendono.
Ma facciamo nostro anche l’atteggiamento di Maria: custodiamo gelosamente nel nostro cuore ogni parola e ogni gesto, ogni frammento che Dio ci offre per rischiarare il sentiero e donarci forza e sicurezza. Non disperdiamo la grazia della sua presenza, i doni del suo amore.
BUON ANNO  BUON ANNO  BUON ANNO  BUON

457 - DA NAZARET ALLE NOSTRE FAMIGLIE - 30 Dicembre 2012 – Santa Famiglia di Nazaret

(1º Samuele 1,20-28 1ª Giovanni 3,1-24 Luca 2,41-52 )
Nella casa di Nazaret la promessa di salvezza diventa realtà: una realtà quotidiana che parla di relazioni, di dialogo e obbedienza: da questo modello ogni famiglia può apprendere che cosa sia la vera libertà e la Chiesa stessa può imparare a essere meno istituzione e più comunione. Fede e famiglia, un binomio che sembra quasi impossibile nel mondo di oggi. E tuttavia, quella che appare come una missione fallimentare agli occhi di molti, non è una chimera per tanti ge­nitori e figli. La festa odierna ci aiuta proprio a cogliere il ruolo della famiglia in ordine alla fede perché si possano imboccare vie antiche ed inventarne di nuove.
Il racconto del Vangelo ci presenta Giuseppe e Maria che ritrovano Gesù dopo tre giorni, nel tempio, mentre ‘ascolta’ e ‘interroga’ i maestri della legge. La loro angoscia si traduce in rimprovero, un rimprovero dettato, in fondo, dall’amore. La risposta non tarda ed è garbata, ma anche chiara, senza tentennamenti: «Non sa­pevate che io devo occuparmi delle cose (della casa) del Padre mio?».
Colui che prende la parola non è un bambino. Gesù ha dodici anni e, compiuto il suo «Bar mitzvah» è diventato per l’appun­to un «figlio della legge», cioè ‘maggiorenne’, responsabile delle sue azioni davanti a Dio e davanti agli uomini. Questo compor­ta la coscienza chiara di una missione da compiere, a cui biso­gna prepararsi. Essa non può essere ignorata perché costituisce l’orizzonte e poi il cuore della sua esistenza. Non saranno Maria e Giuseppe a decidere del suo futuro. Non saranno i legami di sangue (Maria) o legali (Giuseppe) a prevalere sul legame con il Padre, più profondo e più originario, perché esiste da sempre. E non saranno neppure le convenzioni sociali – regole non scrit­te, ma sovente più forti di quelle codificate – a imporsi sullo stile o sulle scelte della sua esistenza. Che Maria e Giuseppe non ‘comprendano’ ci risulta del tutto plausibile. Questa loro fatica, del resto, li avvicina alla condizio­ne di tanti genitori che, pur con tutta la buona volontà, non rie-scono a ‘capire’ i figli. Non per loro colpa, ma perché Dio non manca di suscitare percorsi inediti, che sorprendono.
Se ci siamo fatti un’immagine oleografica della Santa Famiglia, il racconto di oggi la smentisce senza mezzi termini. E ci rimanda alla famiglia a cui appartenia­mo con uno sguardo nuovo ed un cuore aperto. C’è chi dice, scherzando, che genitori e figli vivono una radi­cale ‘povertà’. Nessuno si sceglie i genitori e nessuno si sceglie i figli. C’è quindi un percorso da compiere per crescere e vivere bene in famiglia.
Percorso di amore e di autentica santità che ogni famiglia è chiamata a compiere… lo ha dovuto affrontare anche la fami­glia di Gesù! Sì, perché di quel figlio, nato in modo straordina­rio, Maria e Giuseppe non sanno granché. E devono accettare di conoscerlo un po’ alla volta, passando attraverso ansie ed inquietudini. E lui, Gesù, non lo ha certo fatto per cattiveria…ma nello stesso tempo non può rinunciare alla sua identità e alla sua missione. Passaggi difficili? Sicuramente! Ma anche passaggi che fanno approdare a ciò che conta: fare ognuno la sua parte, da genito­ri e da figli, accogliendo e realizzando il progetto di Dio. Che, inevitabilmente, è per ognuno fonte di sorpresa. Un progetto che non è scritto, da qualche parte, in un libro inaccessibile, ma che si deve scoprire, giorno dopo giorno. Accettando i tempi ed i modi che si presentano, gli eventi e gli indizi che ci vengono offerti. Con fiducia perché il Signore ci accompagna sempre e il suo Spirito ci suggerisce gli atteggiamenti e le decisioni miglio­ri. Con speranza perché questo, nonostante ogni difficoltà, è il cammino della vita e della gioia.

PREGHIERA 
Non sei più un bambino, Gesù, quando Maria e Giuseppe ti conducono con loro al tempio del Signore, a Gerusalemme. Per il tuo popolo, per la legge sacra tu sei ormai ‘maggiorenne’, responsabile delle tue azioni davanti a Dio e agli uomini.
Ed è per questo che non puoi ignorare la missione ricevuta dal Padre. Nella sua casa tu ti trovi perfettamente a tuo agio, per nulla imbarazzato dai maestri, esperti conoscitori della Bibbia, che ascolti ed interroghi, senza presunzione e senza timore, seduto in mezzo a loro, giovane per età, ma portatore di un’esperienza unica di Dio  perché sei il suo Figlio, l’amato.
E quando vieni rimproverato per l’ansia e per l’angoscia di cui sei stato causa, la tua risposta è meravigliata: il legame col Padre tuo, infatti, non è forse in cima ai tuoi pensieri, alle tue azioni, ai tuoi sentimenti?
In ogni caso tu accetti i tempi diversi della tua vita di uomo: torni a Nazaret e ti sottometti all’autorità di Giuseppe e di Maria, impegnato a crescere in sapienza, età e grazia, per prepararti alla tua missione.

sabato 29 dicembre 2012

456 - IL VERBO SI È FATTO CARNE - 25 Dicembre 2012 – Natale del Signore

(Isaia 52,7-10  Ebrei 1,1-6  Giovanni 1.1-18)

Il prologo di Giovanni ci obbliga a staccarci dal presepio e dalla sua poesia. E tuttavia, mentre ci narra l’Incarnazione par­tendo da un altro punto di vista, apre uno squarcio significativo sull’esperienza del credente, raccontata nei suoi aspetti fonda­mentali. Così, aiutati dalla seconda lettura, noi abbiamo la pos­sibilità di situare l’Incarnazione dentro un disegno d’amore che lega Dio all’umanità e di entrare personalmente nel Mistero di una comunione che dilata gli spazi della nostra esistenza, apren­doli alla bellezza e alla grandezza di Dio.

Uno sguardo diverso è quello che siamo invitati a getta­re sull’evento che celebriamo. Il presepio ci mette davanti alla culla improvvisata e ci invita a riconoscere in quel bambino il Salvatore, il Cristo, il Signore. Uomini dinanzi ad un piccolo d’uomo, ci troviamo al suo stesso livello, nella condizione della nostra dolorante umanità. La Parola però ci induce a ricono­scere in lui il Messia, l’Atteso, il Figlio stesso di Dio. Quello che balza subito agli occhi è la sua umanità: solo la fede ci permette di confessare la divinità.

Ora il prologo, però, ci prende per mano perché consideria­mo tutto con gli occhi di Dio. È dall’eternità che egli ha riserva­to agli uomini il suo amore e quanto celebriamo – l’Incarnazio­ne – è il culmine di una storia. La lettera agli Ebrei la riassume in modo sobrio e al contempo efficace. Dio si era già rivelato «molte volte» e in «diversi modi» attraverso i suoi inviati (i profeti), ma ora è il suo stesso Figlio che prende la carne di un uomo. Dio non agisce più “per interposta persona”, ma diret­tamente. Perché questo avvenisse è accaduto l’impensabile: «Il Verbo si è fatto carne». Colui che era fin dal principio, la Parola eterna che ha creato il mondo, ha assunto la carne di un uomo e tutto ciò che essa comporta, eccetto il peccato. Attraverso di es­sa Dio ha piantato la sua tenda per sempre nella nostra storia, si è legato indissolubilmente all’umanità.

PREGHIERA DELLA NOTTE
Nella nostra storia non mancano tempeste ed uragani, Gesù, che intervengono con violenza, colpiscono e devastano, ma la memoria del tuo Natale è come una luce che non si spegne mai.
Una luce fragile che tante volte ha rischiato di venir coperta da un cumulo di affanni, di pene e di sofferenze e tuttavia continua a diffondere un chiarore benevolo Che cosa mantiene viva questa luce minacciata da tanti venti ostili?
È la forza della nostalgia, una nostalgia acuta, pungente, di una vita che reca il sapore e il gusto del tuo Vangelo, e con essa la possibilità di stupirsi come fa un bambino di fronte alle cose belle che gli accade di vivere.
È la fiamma del desiderio, un desiderio intenso, profondo, di incontrare te. Non nella forza di un potente, non nell’inflessibilità di un giudice, non nella sapienza di un dotto, ma in una debolezza sconcertante, nella fragilità di un bambino!

PREGHIERA DELL’AURORA
Anche noi, questa mattina, vogliamo vedere il segno che Dio offre a tutta l’umanità: un bambino, nato da poco, adagiato nella mangiatoia. Anche noi siamo pronti il Figlio di Dio che ci visita nella fragilità della nostra carne.
È la parola dell’angelo che ci ha fornito le indicazioni indispensabili: come potremmo altrimenti identificare in te, Gesù, l’Inviato, l’Atteso e rallegrarci della tua presenza? È la parola che ci indica la strada che conduce a te che sei la luce del mondo e ci induce ad accogliere con meraviglia e stupore il mistero d’amore che ci viene svelato.
Anche noi, come Maria, siamo invitati a non lasciar passare invano questa grazia, a custodire ogni cosa, ogni messaggio ed ogni evento, nel profondo del cuore, per cogliere il senso nascosto di ciò che ci è stato rivelato.
E anche noi, tornando a casa, diventeremo i tuoi messaggeri, diffondendo attorno a noila speranza che ci è stata regalata.

PREGHIERA DEL GIORNO
Sei tu, Gesù, la Parola che dissipa ogni equivoco e strappa le maschere che gli uomini hanno applicato all’immagine di Dio. Tu ci riveli i tratti del suo volto di Padre e ci fai conoscere il suo disegno di salvezza.
Sei tu, Gesù, la Vita offerta ad ogni uomo: non una vita qualsiasi, ma contrassegnata da una pienezza e da una bellezza che superano ogni attesa.
Sei tu, Gesù, la Luce che rischiara le profondità del nostro cuore e illumina le strade che portano alla felicità, una Luce più forte di qualsiasi tenebra, di ogni dubbio e di ogni inganno che minacciano il nostro cammino.
Ecco perché oggi vogliamo dirti tutta la nostra gratitudine: tu ci hai sottratti al potere umiliante della legge e ci hai manifestato grazia e misericordia, tu ci hai generato ad un’esistenza nuova,facendo di noi i tuoi figli.

455 - ACCOGLIERE DIO - 23 Dicembre 2012 –IVª Domenica di Avvento

(Michea5,1-4 Ebrei 10,5-10 Luca 1,39-45)

Accogliere Dio significa mettersi in cammino verso il compimento, mossi dalla pro­messa: «la gravidanza di Elisabetta è un invito per Maria a rin­tracciare il senso dell’agire di Dio». Il credente non è un ‘se­dentario’, ma uno che si mette per strada. Abbandona i luoghi conosciuti per lasciarsi condurre dalla parola del Signore, alla ricerca dei segni che egli offre. È attraverso di essi, infatti, che è possibile decifrare la storia. Non è casuale che la storia della salvezza ci conduca per le strade del mondo. La strada di Abra­mo che abbandona il suo clan e si fida della promessa di Dio. La strada di Mosè che torna in Egitto dopo l’esperienza del roveto ardente per liberare il suo popolo dalla schiavitù. La strada di Israele verso la libertà e la terra che Dio gli donerà. La strada di Elia, il profeta stanco e scoraggiato, che cammina quaranta gior­ni e quaranta notti verso l’Oreb, il luogo dell’appuntamento. Il credente è un viandante, un pellegrino, mosso dalla sete di Dio. Mettersi in cammino in fretta, senza indugio: questa fretta non è dettata dalla cu­riosità, ma dal desiderio di entrare in quel progetto che è stato appena rivelato a Maria. Il credente è ‘determinato’, deciso nel vincolare la sua vita al disegno di Dio. L’orizzonte del suo per­corso è stato radicalmente cambiato dall’intervento di Dio, che ha fatto irruzione nella sua storia. In modo imprevisto e con un annuncio sorprendente. Domandando una disponibilità a tutta prova, ma anche offrendo un segno. Ed è proprio questo segno che Maria si precipita a riconoscere di persona, per essere con­fermata nella sua decisione di accettare senza riserve il piano di Dio.
Accogliere Dio significa aprirsi all’incontro tra creature toccate dalla grazia, trasfor­mate nella loro esistenza: è un incontro di gioia quello che av­viene tra Elisabetta e Maria, una gioia che irraggia da queste due donne, così diverse tra loro, eppure accomunate da un’e­sperienza di grazia, dall’intervento inaspettato di Dio nella lvita. E in effetti la sorgente della gioia, che traspare dalle parole e dai gesti, è proprio lui, Dio. Egli sta operando meraviglie: la donna sterile, già avanti negli anni, è ormai prossima al parto; la vergine ha appena concepito e porta in grembo il Messia, il Figlio stesso di Dio. Tutto questo è straordinariamente grande e queste due creature, illuminate dallo Spirito, ne sono coscienti. In questo incontro ognuno interviene a suo modo: c’è il grido di Elisabetta, mossa dallo Spirito; la danza del Battista nel grem­bo di sua madre; il cantico di Maria che condensa la gratitudine di tutti i poveri che lungo i secoli hanno beneficiato dell’amore sorprendente di Dio. Elisabetta dichiara, proprio perché «piena di Spirito Santo», ciò che sta accadendo in Maria ed identifica in che cosa consista la sua grandezza: «Beata colei che ha cre­duto nell’adempimento delle parole del Signore». Non si tratta solo di un riconoscimento che corrisponde ad una ‘conoscenza’, a qualcosa che coinvolge la mente ed il cuore. È con tutto il suo essere che questa donna ‘vibra’ perché il suo bimbo, dentro di lei, «esulta di gioia». Maria, quando apre la bocca, manifesta ciò di cui è ricolmo il suo cuore. E sgorgano le parole della gratitu­dine e della meraviglia. Parole sue, anche se appartengono ad una tradizione di ricerca e di attesa, di preghiera e di contem­plazione che viene da più lontano e in cui è totalmente immersa. Sono espressioni di fede che testimoniano la certezza che Dio prende a cuore la sorte dei suoi figli e rivela la sua preferenza per i poveri e per gli abbandonati. Non è un Dio ‘neutrale’, che sta ad osservare alla finestra: egli si schiera perché vuole cam­biare il corso della storia. Il suo amore ha generato, proprio per questo, un progetto di salvezza che riguarda tutti gli uomini.
Dio è entrato nella storia di queste due donne: basta assistere, con gli occhi di Luca, al loro incontro, per rallegrarsi di ciò che sta avvenendo. Dio opera e coloro che lo accolgono, con fede e disponibilità, partecipano ad un’avventura che trasforma dal profondo la loro esistenza. Sì, è veramente nuovo il loro rap­porto con lui. La loro vita non è più quella di prima. Ma sono nuove anche le relazioni che nascono con quelli che incontrano, relazioni che trasudano consolazione e speranza. Come sarebbe bello che anche i nostri incontri, nella vita quotidiana, diventas­sero simili a questo! Come sarebbe bello se, invece di cedere al bisogno irrefrenabile della chiacchiera, parola leggera che si perde nel vento, noi avessimo l’audacia di riconoscere ognuno quello che Dio sta facendo nella nostra vita e ce lo comunicassi­mo per raddoppiare la nostra gioia e la nostra speranza! Come sarebbe bello se, nel linguaggio semplice e piano di ogni giorno, noi dessimo voce alla gratitudine di un popolo che vede i segni di Dio nella sua storia!
Saremo capaci anche noi, a Natale, di dar vita ad incontri di questo genere? La festa che celebriamo, la consapevolezza che Dio è entrato nella nostra storia, metterà sulle nostre bocche espressioni di gioia e sapremo rallegrarci di ciò che egli opera in coloro che ci vivono accanto?

PREGHIERA­
Benedetta è Maria, la madre tua, Gesù. Benedetta per la sua fede: ha accolto la proposta di Dio che veniva a sconvolgere la sua esistenza, i suoi progetti, i suoi disegni sul futuro. Si è fidata totalmente di lui e si è detta pronta a fare la sua volontà.
Benedetta per la sua prontezza nel venire a vedere il segno che le è stato offerto: Elisabetta, la donna anziana e per giunta sterile, sta per dare alla luce un figlio, è già al sesto mese.
Benedetta per la sua generosità nell’accorrere in aiuto alla sua parente ormai prossima al parto: la “serva del Signore” non si nega alle umili incombenze e ai piccoli servizi che alleviano tanti disagi.
Ma benedetta soprattutto Maria perché porta in grembo te, Gesù, il dono più grande che Dio fa agli uomini. Benedetta perché è l’Arca della Nuova Alleanza, davanti alla quale il Battista danza di gioia, di esultanza nel grembo di sua madre, lui che ti annuncerà agli uomini.

lunedì 24 dicembre 2012

454 - RALLEGRATEVI, IL SIGNORE È VICINO -16 Dicembre 2012 –IIIª Domenica di Avvento

(Sofonia 3,14-17  Filippesi 4,4-7  Luca 3,10-18)

La vera gioia nella vita di un credente nasce dal conoscere la vicinanza di Dio. Questa qualità interiore della autentica gioia cristiana è legata per l’apostolo Paolo alla luce di Dio che penetra nella nostra vita. Questa è l’energia che ci può trasformare dal di dentro. Quando ci apriamo a questa energia facciamo l’esperienza della conversione, cioè di una ‘svolta’, di un cambiamento di rotta. Il Vangelo fa accadere in chi lo ascolta un cambiamento di men­talità e di orizzonti. Non ci viene chiesto di compiere azioni eroiche, di fare cose grandi, ma di convertirci, cioè di passare da una situazione in cui si è centrati sul proprio egoismo ad una si­tuazione nella quale ci si apre a Dio che ci raggiunge attraverso Gesù, alla vita fraterna, al servizio degli altri. Tutto questo non trova la sua origine nei nostri sforzi ma nell’accogliere la salvez­za offerta da Dio, quindi nel dare fiducia a Dio, nell’aprirgli vo­lentieri il cuore e lo spirito. La fede, allora, trova il suo marchio di garanzia in questa di­sponibilità al cambiamento, considerato non come un obbligo pesante e duro, ma come la gioiosa possibilità di compiere cose nuove, di uscire dai binari del ‘vecchio’ e dello ‘scontato’, per inoltrarsi in sentieri nuovi, sui quali il Cristo ci precede.
Da dove partire? Da una richiesta precisa: «Che cosa dob­biamo fare?». Una domanda semplice, concreta, che rivela la disponibilità a cambiare, la voglia di impegnarsi, il desiderio di prendere sul serio l’annuncio del profeta. Non è cosa da poco questa domanda.
È un punto di arrivo, un solido punto di arrivo. È il segno che il cuore, il centro dell’esistenza, è rimasto veramente colpito. Non in modo epidermico, superficiale. Non da una commozio­ne di breve durata. Non da un interesse generico per una nobile idea. È nel profondo che sta accadendo qualcosa. La parola che viene da Dio e che il profeta ha trasmesso, ha toccato veramen­te le persone che l’hanno udita. Ed ora esse vogliono fare qual­cosa per mostrare che è avvenuto in loro qualcosa di nuovo.
È un punto di partenza questa domanda: una finestra spalan­cata sul futuro, su uno stile nuovo di vita, su punti di riferimento che non sono più quelli di prima. È la volontà decisa di cambia­re, anche se cambiare non è facile. Sarebbe molto più comodo lasciarsi andare agli atteggiamenti e alle scelte di sempre, ma non è più possibile. Quella parola ha provocato troppo trambu­sto, ha riacceso le speranze, ha spazzato via timori e paure portandoci alla fede.
La fede non è una relazione attra­verso la quale ci si ripromette di ottenere qualcosa da Dio, in cambio delle nostre prestazioni cultuali e morali. Non è una sor­ta di velata transazione commerciale. E non è neppure la ricerca di ottenere un consenso, un’approvazione, una consolazione da parte di un Dio che ratifica, ad occhi chiusi, senza alcun diritto di critica, le scelte e le decisioni che abbiamo già prese. Non è nemmeno una richiesta di sostegno, di aiuto che parte da una situazione di bisogno, quando non si è in grado di far fronte alle proprie difficoltà.

La fede ci fa entrare in un movimento esattamente contrario. Come ci ha insegnato Gesù, affidandoci la preghiera del Padre nostro, si è pronti a fare la volontà di Dio e dunque a cambiare direzione, atteggiamenti e comportamenti. Così avviene che da­vanti ad ogni persona si aprano strade praticabili di giustizia e di amore.

 Il cammino della fede mette in luce due dinamismi:

• uno dal basso: «Non è vero che non ci sia niente da fare, l’uo­mo, pur in condizioni di difficoltà e di crisi, può sempre agire nel senso di un cambiamento in positivo e a portata di ma­no»;

• uno dall’alto: è il dono dello Spirito al Messia e a tutti gli uo­mini che entreranno a far parte del Regno, quel progetto che imprime alla storia una dinamica totalmente nuova.

PREGHIERA
 
È questa domanda, Gesù, il segno evidente che si è disposti a cambiare vita, a convertirsi, a deporre decisioni e comportamenti che ci erano abituali: «Che cosa dobbiamo fare?».
Ed è attraverso la voce del Battista che tu oggi ci conduci sulle strade che portano a celebrare il tuo Natale.
Sono i percorsi della solidarietà: scopriamo che quanto abbiamo più del necessario è di coloro che mancano di beni indispensabili, di cibo, di vestito, di casa …
Sono le vie della giustizia e della legalità: scegliamo di essere cittadini onesti, che pagano le tasse e fanno la loro parte senza sotterfugi, che onorano con impegno le mansioni del loro lavoro.
Sono i sentieri della non violenza, lungo i quali si cammina disarmati e senza difese, rinunciando ad approfittare del proprio sapere, del proprio ruolo, della propria ricchezza per assoggettare il debole di turno, per infierire sull’emigrato, per sfruttare l’ingenuo.

sabato 8 dicembre 2012

453 - UN DIO CHE ENTRA NELLA STORIA - 09 Dicembre 2012 –IIª Domenica di Avvento

(Baruc 5,1-9 Filippesi 1,4-6.8-11 Luca 3,1-6)
In questa seconda domeni­ca di Avvento Luca ci strappa alla regione dei sogni e delle illusioni e ci fa stare con i piedi ben piantati per terra. Ci disegna uno scenario che non è dei più accattivanti: il dominio imposto con la forza, la sete di potere che spinge a di­vidersi le regioni della terra con successioni non sempre facili, il potere religioso che vuole avere la sua parte.
Luca ci offre delle coordinate storiche e lo fa senz’altro per darci la possibilità di situare quanto accade, ma «se, nei primi tre versetti, ad occupare il palcoscenico sono otto personaggi della storia e un vasto impero della terra, negli ultimi tre l’even­to narrato coinvolge ogni uomo e si diffonde su tutte le strade del mondo per arrivare fino a noi». In questo modo i discepoli di Gesù vengono condotti a non lasciarsi impressionare dall’apparenza, dallo sfavillio che ac­compagna il potente di turno. È importante, infatti una vera ‘in­telligenza’ degli avvenimenti, che consiste nel cogliere l’essen­ziale. «Il vero remo che muove la barca della storia e che guida l’umanità, è la parola di Dio». «Il vero fatto degno di nota sta al centro del palcoscenico e vede all’opera l’agire divino. La storia degli uomini e dei potenti umani tace, la storia della salvezza ha, invece, delle cose da raccontare, apre la bocca dei suoi interpreti e fa sentire liete notizie». Così Luca ci allontana dalla confusione terribile che, proprio in questo tempo di preparazione al Natale, emerge con forza scon­certante e di cui, proprio i bambini, offrono un riscontro imme­diato. Confondere Gesù con Babbo Natale non è una cosa di poco conto. Se un personaggio storico viene amalgamato ad una creatura fantasiosa, frutto dell’invenzione degli uomini, prima o poi ne subisce la stessa sorte: quella di essere abbandonato tra i reperti dell’infanzia, ormai inutili quando si è cresciuti. Più sottile ancora la tentazione, a cui sono soggetti maggior­mente gli adulti, di far coincidere la festa del Natale con una vaga atmosfera di pace e di armonia, che viene a colmare un bi­sogno sempre più consistente ai nostri tempi. La ‘magia’ del Na­tale è dunque qualcosa da costruire con un buon pranzo e con i regali, con il panettone soffice e lo spumante doc. Per un giorno, almeno, uomini e donne, astraendo dalla storia, si sentono buoni perché mettono tra parentesi i conflitti e le divisioni, le ingiusti­zie e gli scandali. Ma è questo il Natale del Signore Gesù? Ed è questo l’obiet­tivo della fede? Farci evadere dalla storia per non avvertirne gli scandali e i contrasti, per non vederne le lacrime ed il sangue, il dolore e la violenza? Il grido che viene affidato a Giovanni Battista deve desta­re ogni uomo e chiamarlo ad accogliere risolutamente il ‘vange­lo’ che lo raggiunge. Se Dio offre salvezza, nessuno può lasciar­lo passare invano. Ecco perché raddrizzare e sgombrare ogni percorso che potrebbe bloccarlo. Ognuno è rinviato, a questo punto, alla sua storia personale, all’incontro con Cristo che ha cambiato la sua vita e le ha dato un senso, una direzione, un traguardo.

PREGHIERA 
L’antica parola del profeta non si è persa nelle nebbie della storia, non si è smarrita nei meandri delle complesse vicende umane. Venuta da Dio, essa mantiene intatta tutta la sua forza, la sua efficacia e sta per giungere a compimento. Tu, il Figlio di Dio, hai assunto la carne di un uomo e la tua missione sta per cominciare.
Ecco perché il Battista riceve una parola da gridare alta e forte, senza paura, per allertare gli animi, per ridestare le coscienze, per smuovere i cuori sulla via della conversione.
Attraverso di te, Gesù, Dio visita il suo popolo: una grazia inimmaginabile, un dono stupendo da non rifiutare, da non lasciar passare invano. In gioco è la salvezza, una salvezza offerta a tutti a patto che la accolgano e volgano la loro esistenza in modo deciso verso l’Inviato di Dio.
Ecco perché è il tempo della determinazione: ostacoli e impedimenti devono essere tolti di mezzo, dislivelli e burroni domandano di essere colmati: nulla deve impedirci di incontrarti.

452 - IL SÌ DI DIO … IL SÌ DI MARIA - 08 Dicembre 2012 – Immacolata Concezione di Maria

(Genesi 3,9-15.20  Efesini 1,3-6.11-12  Luca 1,26-38)
Ci siamo mai chiesti perché, ad ogni Avvento, noi siamo invi­tati a compiere questa sosta festiva, celebrando l’Immacolata Concezione di Maria? Io credo che non si tratti di una proposta casuale. Nel bel mezzo di quell’avventura che è l’Avvento, a di­stanza di due settimane dal Natale, la Chiesa vuole ridestare la nostra speranza proponendoci quest’icona di grazia. C’è una buona notizia, che trasforma l’ombra del peccato in una proiezione di luce e apre alla speranza. L’uomo, segnato dal peccato, non è abbandonato a se stesso: Dio si impegna, in prima persona, a sconfiggere il male. Le parole del credente costituiscono un inno di gioia che celebra il trion­fo dell’amore e della fedeltà di Dio, che non si lascia disarmare dall’ingratitudine dell’uomo.
La promessa antica si compie in Maria. L’ombra di Dio la ri­copre e la avvolge. Nulla è lasciato al caso. Dio l’ha preparata e custodita per annunciarle che sarà la Madre del Messia. Intro­dotta nei piani di Dio, la Vergine accetta che la sua vita sia tra­sformata dall’azione dello Spirito. Ogni credente sperimenta un’esistenza nuova: la grazia e la santità di Dio trasfigurano le sue scelte e i suoi comportamenti. Nulla è più come prima.
Il Signore ha compiuto meraviglie: la verità di fede proposta all’intera Chiesa è così ufficialmente proclamata e riconosciuta: «La beatissima Vergine Maria dal primo istante del suo concepimento fu preservata immune da qualsiasi macchia di peccato originale per grazia e privilegio singolare di Dio onnipotente e in considerazione dei meriti di Gesù Cristo salvatore del genere umano».
Nel percorso dell’Avvento la solennità dell’Immacolata Con­cezione non segna un’interruzione, una sorta di diversivo. Al contrario: Maria è un’icona vivente della fede, è la discepola che accoglie l’annuncio di gioia che cambia la sua vita, è colei che ascolta con disponibilità e offre una risposta che impegna tutta la sua esistenza.
A partire da quel momento essa non le appartiene più. Non è un capitale da investire per la propria riuscita, ma un dono messo nelle mani di Dio perché egli ne disponga secondo la sua volontà. Non è un bene destinato alla propria felicità, ma ad un progetto più grande che comporta la salvezza di tutti gli uomini. È questa l’obbedienza della fede. Nasce dall’ascolto, ma si compie nel «fare la volontà di Dio», nella semplicità e nell’u­miltà. Maria è icona del credente E del discepolo. L’espe­rienza della fede è quel ‘sì’ che Dio si attende da ognuno di noi. Ed è lo slancio del credente che si mette nelle mani del suo Dio.
PREGHIERA
Tu l’hai preparata, o Dio, a diventare la madre del tuo Figlio e l’hai sottratta al potere di quel peccato d’origine a cui siamo strappati per la morte e risurrezione del tuo Figlio.
In lei, Maria, tu ci manifesti la forza e la determinazione del tuo amore: perché tu non hai lasciato nulla al caso, pur di realizzare il tuo disegno di salvezza. In lei, Maria, tu ci riveli cosa accade quando la tua grazia non trova resistenza e viene pienamente assecondata dalla libera volontà di una creatura. In lei, Maria, tu ci sorprendi con la sua disponibilità e la sua fiducia a tutta prova, perché mette la sua vita nelle tue mani, senza chiedere di poter capire fino in fondo le conseguenze della sua scelta.
Attraverso di lei, Maria, tu ci doni Gesù, il tuo stesso Figlio, venuto a prendere la carne di un uomo per condividere in tutto la nostra esistenza, fuorché nel peccato. Attraverso di lei, Maria, tu realizzi le antiche promesse e dimostri di essere tenacemente attaccato alle tue creature, per le quali prepari un avvenire di gioia. Con lei, Maria, l’Immacolata, tu ridesti la nostra speranza e apri i nostri cuori alle meraviglie del tuo Spirito.

sabato 1 dicembre 2012

451 - FAMMI CONOSCERE, SIGNORE, LE TUE VIE - 02 Dicembre 2012 – Iª Domenica di Avvento

(Geremia 33,14-16 1ªTessalonicesi 3,12-4,2 Luca 21,25-28.34-36)

L’orizzonte della speranza caratterizza il tempo liturgico dell’Avvento. Essa è generata dall’attesa messianica di Colui che viene per salvarci. E non c’è dubbio che il nostro tempo abbia bisogno di questi atteggiamenti profondi, poiché tempo di incertezza e di disorientamento.
L’Avvento cristiano, però, ci parla anche di vigilanza, ossia di attenzione ai segni e di discernimento dei segni che possiamo cogliere all’interno della nostra storia: Dio infatti, anche oggi, ci parla attraverso le vicende della nostra storia. Ma l’interpretazione dei segni che ven­gono da Dio, il loro discernimento, richiede disponibilità all’ascolto e consapevolezza della propria insufficienza: restare chiusi nei nostri interessi particolari e negli intrecci egoistici di cui spesso sono fatte le nostre relazioni significa ritrovarci incapaci di cogliere la gratuità che ci viene donata.
Di domenica in domenica le celebrazioni liturgiche riattualizzano per i cristiani la memoria di quanto Dio ha fatto e continua a fare per l’umanità e invitano a unire preghiera e condotta di vita, perché Dio possa, attraverso la collaborazione umana, realizzare il suo progetto di pace, giustizia e riconciliazione.
Dio è «colui che viene» in continuazione nel nostro mondo, nella sua storia e nelle nostre esistenza: egli ci mostra il suo agire e chiede di lasciarci trasformare nel nostro agire. Le Scritture sacre ci offrono dei modelli: i profeti, Giovanni Battista, Maria. Essi possono aiutarci, con il loro modo di agire, ad affrontare le nostre difficoltà con la fede. Fammi conoscere, Signore, le tue vie: così la liturgia ci invita a invocare, in questa prima domenica di Avvento. E in questo modo ci spinge a vivere la tensione che contraddistingue la nostra fede, fatta al tempo stesso di memoria e speranza, di vissuti e di attesa della salvezza. Trasformare questa invocazione in una coerente condotta di vita è il compito che ci viene affidato. La fede diventa allora sincera e completa fiducia in Dio e collaborazione al suo progetto: seguire le sue vie è ciò che rende ‘giusta’ davanti a Dio la nostra esistenza quotidiana.

PREGHIERA - Se questo mondo crolla non ci piangeremo addosso, Gesù. Sappiamo che sulle sue macerie fioriranno i cieli nuovi e la terra nuova che tu ci hai annunciato e desideriamo entrare in quel giorno che non avrà tramonto. Del resto come possiamo ignorare tutto ciò che oggi procura dolori e disagi inauditi a tanti uomini e a tante donne? La sofferenza dei piccoli, la fame di intere popolazioni, lo sfruttamento sistematico dei deboli e dei poveri bussano quotidianamente alla porta della nostra coscienza e ci inducono a non dormire sonni troppo tranquilli, ci spronano a rimboccarci le maniche per diminuire gli scandali, provocati dalla durezza del nostro cuore. Se questo mondo finisce dobbiamo essere pronti per quel gran giorno, Gesù. Ecco perché tu ci inviti a vegliare senza addormentarci, a rimanere desti e pronti per non essere trovati impreparati. Ecco perché tu ci chiedi di esaminare attentamente gesti e parole, scelte e decisioni in attesa del tuo ritorno nella gloria.

sabato 24 novembre 2012

450 - LA REGALITÀ DI CRISTO È PER L’UOMO - 25 Novembre 2012 – Solennità di Cristo Re dell’Universo

(Daniele 7,13-14  Apocalisse 1,5-8  Giovanni 18,33b-37)
Il colloquio di Pilato con Gesù del Vangelo di oggi è incentrato sul significato della sua regalità, che non corrisponde all’accusa dei giudei, che glielo avevano condotto come un sobillatore politico. Alla domanda di Pilato: «Sei tu il re dei giudei?» (v. 33), Gesù, secondo i sinottici, risponde con un ambiguo: «Tu lo dici» (cfr. Mc 15,2 par.). Giovanni, invece, riporta un dialogo che ha uno scopo apologetico e cristologico insieme. Negli anni 70-90 d.C. era importante scagionare il procuratore per la condanna di Gesù e ribadire che il cristianesimo non costituiva un pericolo per l’impero romano.
Il confronto centrale, faccia a faccia tra il rappresentante dell’impero e Gesù, al di là della drammaticità delle parole e dei gesti, dei silenzi e degli sguardi, diventa una pagina di rivelazione. Gesù rivela, proprio in questo momento – non lo aveva mai fatto in altre circostanze nel vangelo di Giovanni – che egli è re. Gesù lo fa senza sotterfugi, con ricchezza di dettagli, rimandando a un altro regno. La sua regalità è legata alla «testimonianza della verità», all’affermazione della sua origine divina. È questo lo scopo della sua venuta nel mondo e della sua nascita.
Che cosa sia questa «testimonianza alla verità» si può capire in base all’insieme di tutto il quarto vangelo. Gesù è venuto a testimoniare ciò che ha visto e che continuamente vede. Egli è la Parola rivolta verso il Padre e quindi è Parola di verità, perché dice come è Dio e come l’uomo realizza veramente se stesso. La paternità di Dio e la nostra condizione di figli è la verità che egli ci consegna. Gesù è «re», ma non di questo mondo. La sua regalità non entra in competizione e non costituisce un pericolo per il potere romano, consiste invece nell’offrire la propria vita sulla croce per salvare l’uomo.
Siamo alla conclusione dell’anno liturgico, e non a caso la liturgia pone a coronamento del cammino annuale questa solennità che riassume e sintetizza l’intero cammino percorso. È dal legno della croce che Gesù regna, e il suo potere e la sua gloria stanno nella forza e nella grandezza dell’amore. Celebrare la festa di Cristo re significa porre Gesù Cristo in cima alla scala dei valori della vita, significa prendere coscienza che deve essere lui a guidare e orientare il nostro cammino.
Papa Paolo VI aprendo la seconda sessione del concilio Vaticano II descriveva con queste parole il primato di Cristo: «Cristo da cui veniamo, per cui viviamo e a cui andiamo. Nessun’altra luce […] che non sia Cristo, luce del mondo; nessun’altra verità interessi le nostre anime che non sia la parola del Signore, unico nostro Maestro; nessun’altra aspirazione ci guidi che non sia il desiderio di essere a Lui assolutamente fedeli; nessun’altra fiducia ci sostenga se non la certezza che egli è con noi» (EV 145). Nella nostra vita cristiana siamo chiamati a dare a Cristo questo primato: sull’intelligenza per mezzo della fede, sul cuore per mezzo dell’amore, sulla volontà e sulla vita con l’accettazione del suo volere, cosicché egli diventi «l’Alfa e l’Omèga» di quello che pensiamo, di quello che amiamo e di quello che siamo.
Oggi la domanda che ci si deve porre non è se Gesù Cristo regni o no nel mondo, ma se egli regni o no in me; non se la sua regalità è riconosciuta dagli stati e dai governi, ma se è riconosciuta e vissuta da me. Chi regna dentro di me, chi fissa gli scopi e stabilisce le priorità: Cristo o qualcun altro? Secondo l’apostolo Paolo esistono due possibili modi di vivere: per se stessi o per il Signore (cfr. Rm 14,7-9). Vivere «per se stessi» significa vivere come chi ha in se stesso il proprio principio e il proprio fine; indica un’esistenza chiusa in se stessa, tesa solo alla propria soddisfazione e alla propria gloria. Vivere «per il Signore», al contrario, significa vivere in vista di lui, per la sua gloria, per il suo regno. In una delle invocazioni del Padre nostro preghiamo: «Venga il tuo regno!». Ebbene la festa di oggi sia per noi un invito a costruirlo con la vita, la santità, la grazia, la giustizia, l’amore e la pace.
PREGHIERA
C’è una regalità che non ha bisogno di esibire insegne luccicanti, né di imporsi con la forza. C’è un potere che non ricorre all’uso della violenza e tuttavia trasforma in profondità il corso degli eventi solo attraverso l’amore.
Tu sei re, Gesù, e lo dichiari davanti al procuratore romano, a costo di apparire un illuso, perché non corrispondi per nulla all’immagine del potente di turno.
In quel momento, in effetti, sembra che sia Ponzio Pilato a poter disporre della tua vita solo perché può decidere di farti morire sulla croce. Ma a considerare gli avvenimenti con uno sguardo profondo l’apparenza non inganna più. Questa nostra storia ha visto sgretolarsi inesorabilmente il mondo costruito con le armi delle legioni e ha registrato la forza dirompente del tuo amore disarmato.
Non eri tu, dunque, il debole, né lo sconfitto, né il perdente, e la tua croce non ha costituito il segno inequivocabile del fallimento: proprio attraverso di essa tu hai tracciato un corso nuovo all’umanità.

sabato 17 novembre 2012

449 - EVENTI FINALI - 18 Novembre 2012 – XXXIIIª Domenica Tempo ordinario

(Daniele 12,1-3 Ebrei 10,11-14.18 Marco 13,24-32)

Gesù, nel parlare degli eventi finali, attinge ampiamente alla tradizione apocalittica che ama esprimersi attraverso immagini catastrofiche e frasi enigmatiche. Lo scopo di Gesù, però, non è quello di incutere paura, e neppure di soddisfare la curiosità su come e quando avverrà la fine del mondo. Il «quando» verrà la fine rimane misterioso e segreto, l’attenzione viene spostata sul «come» prepararsi e sul «che cosa» fare nell’attesa del grande evento (cfr. Mc 13,33-37). L’immagine suggestiva che egli utilizza è profondamente evocativa: una pianta che si risveglia dal letargo invernale e vive la sua primavera (v. 28: «Dalla pianta di fico imparate…»). Le prime gemme non hanno solo la bellezza di una nuova fioritura, sono il segno della stagione che cambia, della primavera che arriva con il suo carico di luce e calore. La storia che viviamo è una pianta che giunge a maturazione. Il destino dell’universo è quello di giungere alla sua fioritura. E la nostra primavera ha un nome solo: Gesù Cristo. «Così anche voi: quando vedrete accadere queste cose, sappiate che egli è vicino, è alle porte» (v. 29). Dio ci chiede di percepire la sua azione discreta e continua nella storia. Forse troppe volte la routine quotidiana ci fa dimenticare il passare lento, ma costante del tempo, e ci fa dimenticare che siamo pellegrini in cammino. La solidità apparente del mondo che ci circonda non ci deve far dimenticare che siamo su un treno in corsa… di qui la necessità nell’impegno.

Perché la comunità non si perda in calcoli sterili ecco il v. 32: «Quanto però a quel giorno o a quell’ora, nessuno lo sa, né gli angeli nel cielo, né il Figlio, eccetto il Padre». Marco intende comunicare la certezza di quell’incontro, intende ribadire che la storia non va verso la fine, ma verso l’incontro di Dio con l’umanità riunita attorno a Lui; questa è la certezza! Ma vuole anche affidare questo giorno, i tempi e i modi di questo avvenimento, al mistero di Dio e solo di Dio, al punto che «neppure il Figlio lo conosce», in quanto la decisione di questo avvenimento spetta solo al Padre. Il Figlio riconosce questa sua non-competenza presentandosi come pronto ad accogliere i tempi stabiliti dal Padre, così come li ha accettati nel corso della sua vita terrena. Gesù diventa così ancora una volta modello per la chiesa, per una comunità che non è ossessionata dal voler conoscere le scadenze, ma è preoccupata di vivere e discernere i tempi e i momenti di Dio, ed è impegnata nell’obbedire e nel vegliare. Nessuno conosce quando sarà la fine del mondo, ma essa potrebbe giungere oggi stesso. Per questo Gesù dice: «Fate attenzione, vegliate, perché non sapete quando è il momento» (v. 33).

In questo tempo, segnato dall’incertezza e dalla caducità, il cristiano ha un punto di riferimento sicuro e stabile: «Il cielo e la terra passeranno, ma le mie parole non passeranno» (v. 31). Solo la parola di colui verso il quale cammina l’intero universo non muterà, solo la parola di Dio rimane come «stella polare» che orienta il cammino della storia. Dobbiamo cambiare completamente lo stato d’animo con cui ascoltiamo le pagine che parlano della fine del mondo e del ritorno di Cristo. Infatti, si è finito per considerare un castigo e una oscura minaccia quella che invece la Scrittura chiama «la beata speranza» dei cristiani, e cioè la venuta del Signore Gesù Cristo (Tt 2,13). I discorsi ricorrenti sulla fine del mondo hanno su molti l’effetto devastante di rafforzare l’idea di un Dio perennemente arrabbiato, pronto a dare sfogo alla sua ira sul mondo. Ma questo non è il Dio della Bibbia, che un salmo descrive come «misericordioso e pietoso, lento all’ira e grande nell’amore, non è in lite per sempre, non rimane adirato in eterno […], perché egli sa bene di che siamo plasmati» (Sal 103,8-9.14).

PREGHIERA
Tu non vuoi che perdiamo tempo dietro profezie strane, né che ci lasciamo infatuare da complicati calcoli astrologici. Questo mondo è destinato a finire, ma chi crede in te, Gesù, sa di non andare incontro ad un baratro oscuro, ma verso un compimento destinato a portare una gioia eterna.
Sì, tu ci inviti ad essere pellegrini su questa terra perché cittadini di un altro mondo, impegnati a realizzare quaggiù la giustizia e la solidarietà e nello stesso tempo certi che solo per dono di Dio potremo vedere quella pace, quella fraternità, quella condivisione che nulla potrà mai infrangere.
Anzi, tu ci chiedi di affrontare i passaggi cruciali, i momenti dolorosi, i cambiamenti epocali, le situazioni difficili con la serena certezza di essere nelle mani di Dio perché è lui che guida la storia degli uomini.
Donaci, dunque, Gesù, di vivere con operosa speranza nell’attesa di quel giorno in cui tu ritornerai nella gloria.

448 - COME FIDARCI DI DIO?

Per una pausa spirituale durante la XXXIIª Settimana del Tempo ordinario


L’episodio della vedova di Zarepta (1º Re 17,10-16) e quello della vedova del vangelo (Marco 12,38-44) si richiamano. Entrambe sono coinvolte in una storia più grande di loro, ma soprattutto in una storia che mette in gioco la loro vita, il dono della loro vita. Obbedire alla parola del profeta Elia o accogliere la parola di Gesù porta a mettere nelle mani di Dio la vita, a confidare in Lui, a credere che Dio c’entra con la vita concreta di ogni giorno, di ogni ora, di ogni minuto. Una cosa grande e quasi impossibile. Ancora più grande e certamente impossibile alle forze di chiunque, è consegnare la propria vita a Dio, offrendola ad un altro che parla a nome di Dio o nel quale Lui è presente. Questo, ci sembra, resta il centro sia della prima che della seconda Parola: una vedova che dà tutto quello che aveva ad Elia ed una che nel tesoro del tempio mette quanto aveva per vivere. Se si vuole è un passo in più rispetto a come il vangelo di Matteo racconta il giudizio di Cristo: qui ci sono dei poveri verso i quali potrebbe spingere la compassione, là ci sono un profeta o i sacerdoti del tempio; quasi la necessità di una ‘doppia’ fede. Ma, comunque, al centro e nel cuore di entrambi gli episodi e senz’altro nei fatti c’è e resta a rischio la vita, il darla o il perderla. Sia il vangelo che il Libro dei Re lo sottolineano: «ora raccolgo due pezzi di legna, dopo andrò a cuocerla per me e per mio figlio, lo mangeremo e poi moriremo», e Gesù stesso nel vangelo dice che la vedova «ha messo tutto quanto aveva per vivere». Conclusione: ma la farina non venne meno… ma la vedova ha messo nel tesoro più di tutti gli altri. Una lode ed una provvidenza, ma soprattutto non fatti o parole in più, ma fatti che sono una parola di Dio e quindi creatrice di vita. Qualcosa di grande, di nuovo, perché da allora nella storia di questo mondo comincia una storia nuova, quella in cui non contano i soldi o la carriera, il potere o la salute, la forza o la bellezza, ma il dare la propria vita per amore, senza fare tanti calcoli, ma fidandosi: la gratuità.
Ma qui sorgono gli interrogativi. Nella nostra vita potrà continuare la storia di questa vedova? Una storia senza la quale lo stesso vangelo correrebbe il rischio di essere un libro in più e non parola di Dio e quindi creatrice di vita e di vita nuova per ogni persona in ogni situazione. Sì, perché abbiamo una famiglia con figli da accompagnare, lavori da proseguire, una casa da tenere in piedi e in ordine. Come fidarci di Dio, non a parole, ma con fatti concreti? Domande per un verso più che comprensibili e legittime, ma per un altro senza memoria, perché dimentiche di una serie di ricordi o meglio di fatti che hanno segnato la mia e la nostra vita.
Eccone alcuni, quasi dei memoriali che invitano alla speranza e a rimettere la nostra causa al Buon Dio. Il papà che dice alla mamma angosciata perché il sacco della farina era alla fine: «Tu non guardare e prendi ogni giorno la farina necessaria per fare il pane e vedrai che non verrà meno». Eravamo ai primi del gennaio 1945 e la farina non venne meno. Molti e molti anni dopo, con tutta la famiglia – cinque figli e con la mamma incinta – eravamo in viaggio verso Tromso come famiglia missionaria. Tromso è una città della Norvegia a 800 km sopra il circolo polare artico. A mezzanotte del 24 maggio 1988 arriviamo a Monaco. Come andare in via San Tommaso n.ro 1 per passare la notte? Gira e rigira, nulla da fare. Più che preoccupati ci fermiamo. Ci accosta una macchina. Dove andate? ci chiede in inglese il conducente, la sola lingua in cui qualcosa balbettavo. Diamo la via. Seguiteci. Ho ancora davanti agli occhi la segnaletica con il nome della via san Tommaso n.ro 1, le luci accese alla casa che faceva angolo con una donna alla finestra. Ma come avete fatto ad arrivare, domanda la signora. Raccontiamo: una macchina di sconosciuti ci ha portato qui, fermandosi davanti alla sua casa. No! davanti a voi non c’era nessuna macchina. C’era solo la vostra. Chi guidava quella macchina ? Qualcosa di simile l’anno scorso, il 2 novembre. Mezzo metro d’acqua in casa, al piano terra, per tre giorni. Devastazione. «Dov’è il tuo Dio» sembrava sussurrare dentro una voce. È questa la ricompensa per voi che a metà ottobre avete dato la vostra sala più grande ad un vicino il cui laboratorio si era incendiato; il suo era l’unico lavoro e aspettava il secondo figlio. Il fatto non ci tolse la pace e neppure la gioia di aver dato in comodato l’appartamento. Nella nostra vita di ogni giorno era presente Uno che sapeva il fatto suo, Uno che sempre ama.
Indubbiamente queste sono pietre miliari in cui si incrociano le prove o, con una parola impegnativa, le croci con le meraviglie della ‘grazia’; la morte e la vita. Piccoli altari in cui si incontrano la misericordiosa tenerezza del Buon Dio con la nostra vita nei suoi giorni e nelle sue ore; le più svariate e talora difficili. Un incontro in cui la fede assomiglia talora più ad un lucignolo fumigante che ad una lampada accesa sul candelabro, così come capitava al popolo d’Israele con un Dio sempre fedele e un popolo che abitualmente lasciava a desiderare, se non mormorava. Ma in concreto cosa fare, come camminare in quei momenti? Anche noi sappiamo tante cose. Che l’essere cristiani si ‘mostra’ e solo poi si ‘dimostra’; che la fede cristiana prima di essere un capitolo del catechismo o un libro di teologia è una Presenza: «Io sarò con voi», sarò con voi in quell’ora e in quell’ora saprete cosa dire e cosa fare. Sappiamo che nelle grandi parole che pronunciamo dopo la consacrazione: «mistero della fede», è in gioco la fedeltà di Dio prima della nostra fede; una certezza che apre alla speranza. Ma come in concreto essere pronti quando ci sarà chiesto di dare tutto quello che abbiamo per vivere? Perché quel momento ci sarà per tutti. Per tutti c’è un’ORA. Come prepararci a quell’Ora?
La parola di Dio ci indica almeno due strade. La prima: l’ascolto della parola del profeta. Della parola di Dio. L’invito ad ascoltare è una delle espressioni più ripetute nella storia di Israele. Con «Ascolta, Israele» iniziano i versetti del grande Comandamento. Non per niente abbiamo una bocca sola e due orecchie. Ma soprattutto dall’ascolto della Parola riceviamo luce e forza. Spirito Santo. Anche per questo non tutti possono proclamarla nell’assemblea domenicale. È un ministero. Non si tratta di far teatro, ma di ricordare e di ‘sentire’ che quella parola non solo era ‘ispirata’ quando fu scritta, ma è e resta ‘spirante’, comunicatrice di vita, ora. Ora per chiunque l’ascolta, la custodisce e combatte per metterla in pratica. Una sola Parola può trasformare la vita di chi la proclama e di chi l’ascolta. Miracoli di questo genere ne sono successi e quanti ne succedono o possono succedere.
La seconda: la vedova del vangelo compie un gesto enorme. Dà tutto. Una consegna cui prima o poi tutti saremo chiamati. Per prepararci a quel momento è necessario compiere qualche gesto – un segno – per liberarci dalla sempre possibile e incombente schiavitù del denaro. Le occasioni non mancano e non mancheranno. Pregando perché il ‘segno’ significhi. E tutto questo in semplicità e fiducia, consapevoli che nella nostra piccola storia ritorna sia la storia del popolo d’Israele alle cui infedeltà non venne meno la fedeltà di Dio, sia e soprattutto può continuare la stessa vita di Gesù Cristo, sempre pronto a ‘voltarsi’ verso ciascuno di noi come fece per Pietro e prima che Pietro piangesse.

sabato 10 novembre 2012

447 - DARE TUTTO - 11 Novembre 2012 – XXXIIª Domenica Tempo ordinario

(1º Re 17,10-16 Ebrei 9,24-28 Marco 12,38-44)

la seconda parte del Vangelo parla di una povera vedova (vv. 41-44). Gesù contrappone spesso ai gesti presuntuosi di chi si crede migliore degli altri, quelli umili della povera gente, gesti nascosti ma animati da una fede profonda. Gesù, dopo aver rovesciato dai troni i potenti (scribi e farisei), ora innalza gli umili prendendo come esempio la «vedova povera» che, nel tempio, compie un gesto significativo. Guarda caso essa è una di quelle a cui gli scribi «divorano la casa» e che non ha ormai che «due monetine» (v. 42). Questa donna – povera, vedova, umile – non si lamenta (chi si lamenta di ciò che ha perso, difficilmente offre in dono quanto gli resta!). È una delle poche persone che non sanno cosa sia l’invidia e l’ipocrisia. È semplicemente una persona che si reca al tempio, e lì, nella casa dove Dio abita, compie il gesto massimo della sua offerta: getta nel tesoro quanto le è essenziale per la vita. Quei soldi erano importanti per il suo sostentamento e superflui per quel tempio la cui costruzione era divenuta interminabile.
Nell’atrio del tempio dove potevano accedere le donne, erano collocati dei salvadanai che servivano a raccogliere le offerte. I frequentatori del tempio non gettavano personalmente l’offerta, ma la consegnavano al sacerdote incaricato, che la poneva in questo o quel salvadanaio secondo l’indicazione dei singoli offerenti. Questo spiega perché Gesù è in grado di osservare l’offerta della vedova e lo scopo dell’offerta comunicata al sacerdote.
Il gesto della vedova che versa due spiccioli nel tesoro del tempio è preghiera e amore. L’offerta è povera e insignificante, ma il dono è totale. Gesù ammira questo gesto e lo loda: «Questa vedova, così povera, ha gettato nel tesoro più di tutti gli altri» (v. 43). L’insegnamento impartito è chiaro: la vera religiosità consiste nel donarsi a Dio, nel mettersi totalmente nelle sue mani. Questa donna non dava del suo superfluo, ma dava tutto ciò che aveva, forse quanto quel giorno le occorreva per il suo sostentamento. Le monete erano due – le più piccole coniate in Giudea – quindi essa avrebbe avuto la possibilità di tenersene una, invece ha dato a Dio proprio tutto. Una persona che si comporta così, sa essere attenta anche a quelli che si trovano nel bisogno e, se necessario, dividerà con loro fino all’ultima risorsa. Dio non misura gli atti con il nostro metro. La nostra valutazione si ferma alle apparenze, la sua arriva al cuore. Dio non misura in cifre quello che doniamo, lo misura in amore. Non riposiamoci tranquillamente sul «quanto» diamo o facciamo, guardiamo invece allo spirito con cui diamo o facciamo, al sacrificio che ci impone, all’amore che lo anima. «Ci sono alcuni che danno poco del molto che hanno e per essere ricambiati, e questo desiderio segreto avvelena il loro dono. Ci sono altri che hanno poco e lo danno tutto. Essi credono nella vita e nella sua generosità, e le loro mani non sono mai vuote» (Khalil Gibran).
Perché un atto sia vero e autentico deve partire dal cuore. Purtroppo capita sempre più spesso che le apparenze prendano il sopravvento sulla realtà interiore. Si tende all’apparenza, a «ciò che dice la gente», agendo così portiamo in giro una maschera ipocrita, anziché il nostro vero volto. Il vangelo ci vuole «veri», tutto si deve radicare nel cuore per poi trovare all’esterno, negli atti e nei comportamenti, la sua vera espressione. Che cambiamento sorprendente ci sarebbe nel mondo se fossimo fedeli anche solo a questa indicazione di Gesù!

PREGHIERA
Tu hai buoni occhi, Gesù, e sai subito distinguere la generosità autentica dall’esibizione plateale, il gesto con cui si dona il superfluo e quello che impegna l’essenziale, tutto ciò che si ha per vivere. In effetti solo i poveri sono capaci di autentica solidarietà perché disposti a condividere privandosi del necessario. Solo loro vivono fino in fondo la follia consolante dell’amore che offre quanto ha a disposizione, senza tanti calcoli.
Insegnami, Signore, a fare come la vedova, a donarti non gli scampoli, ma il cuore della mia esistenza, a metterti al centro, non alla periferia dei miei pensieri.
Insegnami, Signore, a spartire con i miseri non gli avanzi, gli abiti smessi, le cose fuori moda, ma quello che sta nel mio piatto, gli indumenti nuovi, ciò a cui tengo veramente.
E apri la mia anima alla gioia che non viene meno, quella che si sperimenta più nel dare che nel ricevere.

445 - SHEMAH – LA PREGHIERA EBRAICA QUOTIDIANA

Per una pausa spirituale durante la XXXIª Settimana del Tempo ordinario

“Ascolta, Israele: il Signore è il nostro Dio, unico è il Signore. Tu amerai il Signore, tuo Dio, con tutto il cuore, con tutta l’anima e con tutte le forze”.(Deuteronomio 6,6)
Con queste parole il pio israelita si impegnava a corrispondere all’amore che Dio aveva manifestato nei confronti del suo popolo liberandolo dalla schiavitù d’Egitto e contraendo con esso un patto di alleanza. Questo comandamento/preghiera ricordava all’israelita l’esclusività di Dio: nel suo cuore non ci dovevano essere altre divinità.
Questo brano è una delle pagine più importanti di tutto l’Antico Testamento, si tratta del testo conosciuto come Shemáh Israel (= ascolta, Israele). Il credo ebraico si raccoglie in questa preghiera, recitata ancora oggi al mattino, a mezzogiorno e alla sera: «Ascolta, Israele: il Signore è il nostro Dio, unico è il Signore. Tu amerai il Signore, tuo Dio, con tutto il cuore, con tutta l’anima e con tutte le forze» (6,4-5). Questa preghiera, scritta su piccoli fogli di carta, veniva e viene tuttora posta sulla fronte, attorno al braccio, sulla mano e sugli stipiti delle porte delle case. Questa usanza può sembrare strana, forse persino stupida, ma in realtà nasconde profonde allusioni: la «mano» richiama l’agire; la «fronte» richiama il pensiero, la ragione, l’intelligenza; la «porta» richiama l’accesso, il passaggio, la vita sociale. È una preghiera antica che coinvolge tutto l’uomo: mente e cuore, mani e piedi, occhi e orecchi, labbra e lingua, volontà e sentimento, interiorità ed esteriorità.
Lo Shemáh costituisce la «confessione di fede» in Jhwh come unico Dio, e l’affermazione del comandamento più grande della legge, quello dell’amore di Dio. Nella recitazione quotidiana dello Shemáh, l’israelita si pone una mano davanti agli occhi, per evidenziare che il mistero annunciato da queste parole è un mistero accessibile solo all’ascolto e non alla visione. Dio non si è rivelato a Israele facendogli vedere il suo volto, ma facendogli udire la sua voce. Nessuna delle cosiddette «visioni» di Dio dell’AT ha mai la pretesa di descriverci realmente il volto di Dio. Al contrario, lo si vede di spalle (Es 33,23), dai piedi in giù (Es 24,10) o se ne intravvede appena il lembo del vestito (Is 6,1). Sono tutte espressioni figurate, e forse anche ironiche, per affermare l’impossibilità della visione. Proprio per questo qualunque raffigurazione del Dio che rifiuta di farsi vedere, è già di per sé l’adorazione di un altro Dio, di un Dio diverso da colui che è l’invisibile.
Jhwh è un Dio che non si fa vedere, ma solo ascoltare. Da questa prospettiva si possono trarre due deduzioni: 1) La visione ha un’evidenza oggettiva, si impone da sé, l’ascolto richiede invece che si abbia fiducia in colui che parla. L’israelita, quindi, è chiamato ad accettare responsabilmente il rischio della fede, deve credere senza vedere, sperare per fede la realizzazione non ancora osservabile delle promesse del Signore. 2) L’ascolto, al contrario della visione, è sempre un’«esperienza aperta» che non può esaurirsi in se stessa, ma richiede la realizzazione operativa della parola udita. In tutta la Scrittura, quando Dio parla lo fa quasi sempre per dire all’uomo che cosa deve fare.
Lo Shemáh stabilisce una unione molto profonda fra l’ascolto e l’amore di Dio: Ascolta, Israele… amerai… La condizione perché sia possibile un vero ascolto della Parola è l’amore fiducioso verso colui che attraverso di essa parla al cuore. Senza questa fede, senza l’amore radicale per Dio, il cuore resta chiuso all’ascolto della sua voce. Il centro di tutta la teologia biblica dell’ascolto, che sta alla base della nascita di Israele come popolo, è che il vero ascolto deve essere «con tutto il cuore, con tutta l’anima, con tutta la forza» (v. 5). L’esegesi giudaica si è chiesta: se si è già detto «con tutto il cuore», che ragione c’è di aggiungere «con tutta l’anima e con tutta la forza»? La risposta, codificata dai maestri della Mishna (ii sec. d.C.), è che la precisazione «con tutta l’anima» significa: perfino se Jhwh ti strappa l’anima, cioè fino al martirio; mentre l’aggiunta «con tutta la forza» significa: con tutti i tuoi beni. Cioè: si deve amare Dio non solo con tutto il proprio essere (cuore), ma anche con i propri beni materiali (forza), fino al dono totale della vita (anima). Nella parabola evangelica del seminatore coloro che sono incapaci di accogliere la parola di Dio, cioè i terreni che non fanno fruttificare il seme, si distinguono in tre diverse categorie, che nella spiegazione della parabola vengono così individuati: a) coloro che non hanno un cuore che sa capire la parola (Mc 4,15); b) coloro che non sanno restare fedeli di fronte alla persecuzione e alle sofferenze (Mc 4,16-17); c) coloro che sono sviati dall’inganno della ricchezza (Mc 4,18-19). Quindi coloro che non sanno ascoltare la parola di Dio sono esattamente quelli che secondo l’esegesi giudaica dello Shemáh, non sanno amare Dio: a) con tutto il cuore; b) con tutta l’anima, cioè anche di fronte alla sofferenza e al martirio; c) con tutta la forza, cioè essendo disposti anche a perdere tutte le proprie ricchezze.

sabato 3 novembre 2012

444 - “AMERAI IL SIGNORE TUO DIO CON TUTTO IL CUORE …” - 04 Novembre 2012 – XXXIª Domenica Tempo ordinario

(Deuteronomio 6,2-6 Ebrei 7,23-28 Marco 12,28b-34)

Gesù indica come «primo» il comandamento dell’amore verso Dio, ma subito dopo lo collega a quello dell’amore del prossimo citando Lv 19,18: «Amerai il prossimo tuo come te stesso» (v. 31). Le interpretazioni rabbiniche di questo comandamento non erano concordi. L’insegnamento di Gesù rappresenta la saldatura definitiva tra l’amore di Dio e quello del prossimo. Egli indica nell’amore verso il prossimo il banco di prova e la verifica dell’amore verso Dio. Lo scriba, accogliendo la parola di Gesù, ne riconosce la profonda verità, e trae come conseguenza la superiorità di questo amore a Dio e al prossimo su tutti i riti sacrificali che si compivano nel tempio: amare Dio e il prossimo vale più di tutti gli olocausti e i sacrifici (cfr. v. 33). Per questo Gesù dichiara che il suo interlocutore non è lontano dal regno di Dio.
L’evangelista Marco, in questo episodio, mostra un atteggiamento più «ecumenico» rispetto alla versione matteana (cfr. Mt 22,34-40). Nonostante le polemiche contro gli scribi (2,6; 3,22;…), nonostante l’esortazione a guardarsi da essi (12,38s.), nel suo vangelo presenta alcuni scribi che si aprono alla predicazione di Gesù. La comunità, quindi, non deve chiudere le porte in faccia a nessuno. È importante riconoscere il bene dovunque esso si trovi. L’osservazione conclusiva, che nessuno osava più porre domande a Gesù (v. 34), non si riferisce in modo particolare a questa scena, è invece la conclusione delle dispute avvenute fino a questo momento e serve, al tempo stesso, a collegare questa pericope con la seguente, dove Gesù pone una questione che lo riguarda e mette in imbarazzo gli scribi (vv. 35-37).
L’annuncio di questa pagina evangelica è semplice e chiaro: l’amore per l’uomo è legato all’amore di Dio, è da lui che si impara «come» amare e «quanto» amare. Non si può dire di amare Dio se non si ama il fratello con il quale si è gomito a gomito, anzi l’amore verso il fratello è il termometro che misura e verifica l’autenticità del nostro amore per Dio. Non si tratta di due comandamenti paralleli e/o semplicemente accostati, ma di due comandamenti strettamente legati l’uno all’altro: non si può dire con verità di amare Dio senza amare il prossimo, né presumere di amare il prossimo dispensandosi dai doveri e dagli atteggiamenti che esprimono l’amore per Dio. L’amore per il Dio invisibile si deve rendere visibile e deve tradursi in gesti concreti. Nella prima lettera di Giovanni si legge: «Noi amiamo perché egli ci ha amati per primo. Se uno dice: “Io amo Dio” e odia suo fratello, è un bugiardo. Chi infatti non ama il proprio fratello che vede, non può amare Dio che non vede. E questo è il comandamento che abbiamo da lui: chi ama Dio, ami anche suo fratello» (1 Gv 4,19-21). L’intervento di Gesù si chiude con le parole: «Non c’è altro comandamento più grande di questi» (v. 31), cioè questi due comandamenti sono i cardini su cui poggia tutta la Scrittura e che riassumono tutto l’insegnamento di Gesù.

PREGHIERA
Le regole possono essere tante, molteplici i codici che regolano questo o quel settore della vita, ma i punti di riferimento non possono che essere pochi e solidi, autentici muri portanti della nostra esistenza.
Tu, Gesù, estrai dall’Antico Testamento i due comandamenti dell’amore e li offri, uniti insieme, a coloro che desiderano percorrere la tua via, muniti di una bussola sicura. Così l’amore per Dio, considerato come l’Unico e adorato con tutto il cuore, l’intelligenza e la forza, e l’amore per il prossimo, riconosciuto uguale a noi per dignità e diritti, diventano le lampade che rischiarano il cammino, il faro sicuro che ci guida anche in mezzo alle tempeste nelle tante situazioni complicate di questa nostra vita.
Aiutaci, allora, Gesù, a non perdere di vista quello che è essenziale per correre dietro a disquisizioni che giustificano i nostri istinti, i nostri interessi, i nostri egoismi. Aiutaci a vagliare ogni cosa con il criterio dell’amore.

sabato 27 ottobre 2012

443 - “CHE IO ABBIA LA VISTA!” - 28 OTTOBRE 2012 – XXXª Domenica Tempo ordinario

(Genesi 31,7-9 Ebrei 5,1-6 Marco 10,46-52)

Quella di Bartimeo, il cieco di Gerico, di avere la vista, non è una richiesta qualsiasi, una domanda a mezza voce: Bartimeo grida. C’è chi vorrebbe farlo tacere perché forse ritiene un po’ eccessive le sue parole: chiama Gesù ‘Messia’ e chiede il miracolo…
Ma quest’uomo, che siede lungo la strada a mendicare, non si dà per vinto, anzi continua a gridare ancora più forte. Non è un grido qualsiasi. Contiene in sé l’espressione di una speranza forte, tenace, riposta in Colui che viene riconosciuto come il «Figlio di Davide», il Messia atteso. Grida perché ha sentito che passava Gesù: è questa presenza che motiva il suo grido. E si capisce bene perché egli lanci verso di lui la sua invocazione, colma di speranza, di attesa, di desiderio. Non è un grido unico, dettato da una breve emozione, ma un grido continuo, che non accetta di essere tacitato, fermato, ma che si fa sempre più forte, perché sempre più intenso è il desiderio che lo muove.
Gesù lo fa chiamare e lui non se lo fa ripetere due volte: non c’è impaccio che possa trattenerlo, quest’uomo che non ci vede balza letteralmente in piedi e si fa condurre da Gesù. L’incontro, però, non manca di stupire. Sì, perché Gesù gli chiede una cosa che sembra ovvia: «Che cosa vuoi che ti faccia?». E che cosa potrebbe desiderare un cieco che brancola nel buio di una notte che non finisce mai? «Che io riabbia la vista». È solo allora che Gesù fa il miracolo. L’incontro, tuttavia, non ha dato solo la vista ad un cieco, ma ha cambiato la vita ad uno che è diventato discepolo: «prese a seguirlo per la strada».
Un grido, un grido che si fa sempre più forte; un balzo verso Gesù quando lui chiama; una richiesta, un gesto di amore che è gesto di guarigione: ecco la storia di un cieco a cui viene donata la vista, ma non solo quella degli occhi.
Viene da domandarsi: qual è la molla che mette in movimento tutta la scena? Cos’è che provoca quest’incontro che lascia un segno per sempre? La risposta ce la dà Gesù stesso: «La tua fede ti ha salvato!».
Oggi, come duemila anni fa, Gesù passa. Tutto può restare come prima. La folla che lo accompagna rimane la folla di sempre, curiosa e chiacchierona, facile ad entusiasmarsi e a dimenticare. E i ciechi possono restare lì, al loro posto, come se nulla fosse avvenuto. Ma chi grida, prima o poi Gesù lo incontra.

PREGHIERA - Ha gridato, Bartimeo, con tutta la sua voce. Ha continuato a farlo anche quando volevano ridurlo al silenzio. Ti ha gridato la sua fede, ha invocato la tua misericordia, ti ha chiesto di fermarti, di strapparlo alla sua condizione di cieco, di mendicante. Perché, Gesù, non ho anch’io il coraggio di gridarti il mio desiderio di essere guarito, sanato, di poter finalmente vedere la luce?
Donami, dunque, lo stesso coraggio di Bartimeo, donami la sua ostinazione nel chiederti di intervenire, ma anche la determinazione con cui abbandona ogni cosa per balzare e venire da te. Donami la sua fiducia, che non si arrende al primo ostacolo, donami la sua franchezza nel domandarti di essere tolto al dominio delle tenebre e consegnato di nuovo alla luce.
E donami anche la gioia di poter seguirti, senza incertezze, sulla strada che porta a Gerusalemme.

sabato 13 ottobre 2012

442 - COSA DEVO FARE PER AVERE LA VITA ETERNA? -14 OTTOBRE 2012 – XXVIIIª Domenica Tempo ordinario

(Sapienza 7,7-11 Ebrei 4,12-13 Marco 10,17-30)

Un tale si presenta a Gesù per rivolgergli una domanda al tempo stesso semplice e intrigante. Un ‘tale’, senza ulteriori specificazioni, che rappresenta tutti: giovani (secondo la versione di Matteo) o maturi (secondo Marco), ricchi (secondo Matteo e Marco) o persone con una certa visibilità pubblica (un notabile, secondo Luca). Quel tale rappresenta un po’ ciascuno di noi, alla ricerca di un bene che possa stare al di sopra di tutto, di un bene che non viene consumato dal tempo, che duri appunto per l’eternità, un bene quindi diverso da tutti quelli che possediamo. La richiesta esprime dunque un desiderio limpido, che lascia trasparire un cuore puro e sincero. La domanda è semplice, ma al tempo stesso intrigante, perché la purezza del desiderio deve fare i conti con la capacità di scegliere con sapienza. Una sapienza che viene dall’alto, da invocare da Dio, da stimare più grande del potere, delle ricchezze terrene, della salute, della bellezza, della stessa luce. È quella capacità di discernimento che purtroppo manca a quel tale, troppo legato a criteri umani, troppo asservito alle proprie ricchezze. Questo deve far pensare ciascuno di noi: non sempre un proposito di bene, un sentimento autentico sfociano automaticamente in scelte giuste.

Nel cuore di quel ‘tale’ dell’episodio evangelico il desiderio grande di un bene che promana uno splendore che non tramonta è così radicato che neppure la fedele osservanza dei comandamenti gli dona pace. Intuisce che bisogna compiere un passo ulteriore. Qui Gesù gli porge allora la parola decisiva, che penetra come una spada a doppio taglio: «Una cosa sola ti manca: va’, vendi quello che hai e dallo ai poveri, e avrai un tesoro in cielo; e vieni! Seguimi!». Come reagire a questa affermazione? Il tale si fece scuro in volto e divenne triste, non vuole rinunciare ai suoi molti beni.

Altre risposte però ha avuto l’invito di Gesù. Pensiamo alla vicenda di sant’Antonio abate. Un giorno, partecipando all’Eucaristia, ascolta questa pagina del vangelo, che diventa per lui la molla che fa scattare una scelta radicale: letteralmente vende tutto quanto possiede, lo dona ai poveri e si ritira nel deserto per una vita di solitudine e di preghiera. Pensiamo alla scelta di radicale povertà di san Francesco d’Assisi. È questa però la sola risposta possibile? Tutti noi quindi siamo con il volto scuro e triste? Nella storia della Chiesa abbiamo avuto anche risposte diverse: Piergiorgio Frassati, appartenente a una ricca famiglia della borghesia torinese, studente universitario, sceglie sì la via dell’attenzione ai poveri, ma non rinuncia a tutti i suoi averi nella modalità di Antonio o di Francesco. Non a tutti quindi è richiesta la stessa modalità di incarnare l’invito di Gesù. A tutti però è richiesto di abbandonare quella ricchezza che è di ostacolo al considerare la persona di Gesù come l’unico bene per la vita eterna.

L’ostacolo non è tanto la quantità delle ricchezze, ma uno stile di vita che va nella direzione del compiacersi dei propri beni, del sentirsi al sicuro in essi, nel sentirsi ‘qualcuno’ solo o nella misura in cui si possiede ‘qualcosa’. Ricco è colui che pensa di piegare tutti alla sua volontà, è chi si ritiene sempre al di sopra degli altri: questo è il vero grande ostacolo al vangelo, per cui diventa impossibile l’ingresso nel Regno come è impossibile a un cammello passare attraverso la cruna di un ago. Il ‘vendere’ quello che si ha si concretizza quindi nel sapersi fare da parte e mettere Dio al centro, si concretizza nel piegare le proprie ginocchia nella preghiera, nella capacità di perdono e di misericordia, nella sensibilità di ascolto delle necessità degli altri. Si concretizza anche nel riconoscersi a propria volta poveri, bisognosi di essere guidati dall’alto, bisognosi di una guida che ci conduca per mano sui sentieri della vita, liberandoci dal fardello delle nostre ricchezze e della nostra presunzione.

Commenta sant’Agostino: «Quel tale se ne andò triste e non lo seguì. Era andato a cercare il maestro buono. Lo aveva interrogato come dottore e non lo ascoltò come maestro. Si allontanò triste, legato ancora alle sue cupidigie, carico del pesante fardello della sua avarizia. Era affaticato, non ce la faceva più; ma anziché seguire colui che voleva liberarlo dal suo pesante fardello, preferì allontanarsi e abbandonarlo».

PREGHIERA - L’intenzione era buona: «ricevere in eredità la vita eterna», e il suo comportamento risultava del tutto ineccepibile. Ma tu gli hai chiesto, Gesù, qualcosa che ha bloccato sul nascere ogni entusiasmo, ogni velleità: «Vendi quello che hai e dallo ai poveri. Poi vieni e seguimi!». Così la sua disponibilità si è mutata in tristezza, il suo volto aperto e limpido si è improvvisamente oscurato. La ragione ci viene subito svelata: possedeva molti beni.

Ecco perché le tue parole, Gesù, rivolte a tutti i discepoli, diventano franche e senza equivoci: la ricchezza costituisce un serio pericolo per chi vuole entrare nel Regno. Da strumento, infatti, finisce spesso col diventare un padrone. Assoggetta il cuore e lo rende incapace di vivere un’autentica libertà, costruisce una prigione dorata dalla quale non si riesce ad uscire se non a prezzo di gesti colmi di determinazione e soprattutto impedisce di vedere coloro che attendono una condivisione generosa.

lunedì 8 ottobre 2012

441 - LA FEDELTÀ CONIUGALE: UN OBBLIGO O UN VALORE?(seconda parte)

Una settimana di riflessione sul Matrimonio

Settimo giorno

LA INDISSOLUBILITÀ È RIEMPITA DALLA FELICITÀ -

Quale indissolubilità dunque andiamo cercando? Quella riempita dalla fedeltà e non dalla “occupazione di territorio”, come si diceva. La fedeltà, lungi dall’essere un peso irrevocabile, è ciò che riempie il legame che non può essere sciolto: fedeltà che non è anzitutto esigere dall’altro, ma un offrire se stessi senza condizioni. E percepiamo immediatamente che qui c’entra Dio, poiché tale fedeltà è un munus, cioè un dono e un compito; come ogni dono che viene dall’alto non può essere meritato, bensì inteso come una chiamata. Dio infatti ha unito ciò che l’uomo non può dividere, non nel senso banale che Dio ha allegato due scegliendoli l’uno per l’altra come se fossero le sue marionette, ma nel senso infinitamente più profondo di congiungere autoritativamente ciò che la libertà dei due ha voluto: Dio si rivela qui garante dell’amore dei due, disposto – come ci insegna la Scrittura – a pagare per loro, a metterli con infinito rispetto sulla via della Sua fedeltà.

Abbiamo fatto un primo guadagno: la fedeltà che viene dall’alto è ciò che riempie la indissolubilità. E siamo davvero grati e stupefatti: i due che si sono liberamente scelti sono chiamati a incarnare almeno un briciolo di quella indefettibile fedeltà di Dio che li regge e regge il mondo.

L’INDISSOLUBILITÀ È ISCRITTA NEL CUORE DI CARNE -

La pagina di oggi si apre anche a un secondo guadagno: tale fedeltà è l’opposto della sklerokardía, della durezza di cuore: l’una non può stare dove abita l’altra. Detto in termini positivi: se il cuore non è ‘tenero’ (in termini biblici: cuore di carne) non può essere fedele. Anzitutto perché ad essere fedeli quando tutto va bene, sono capaci tutti, ma perché proprio la durezza di cuore rende impossibile la «carne sola» pensata all’origine. E durezza di cuore nel matrimonio è avanzare la domanda autoreferenziale in cui ci immerge la nostra cultura: «e io?», «e che cosa ci guadagno?», «se l’altro/a non mi riempie, se non mi realizza, non risponde ai miei bisogni, perché la sera deve mettere la chiave proprio nella serratura di casa nostra?». Posso scegliere un’altra serratura, ma posso anche entrare negando il saluto vero (quello formale non lo si nega a nessuno), posso fiondarmi al PC o riempire lo spazio dei suoni inutili della tv, posso autorizzarmi a sfogare le mie frustrazioni, i miei nervosismi su chi abita la casa. Eccola la sklērokardía, è quella che mina la fedeltà e quindi l’indissolubilità, sicché ciò che «divide ciò che Dio ha congiunto» può non essere tanto una legge esterna più o meno divorzista, ma lo stesso coniuge – lui o lei – che ha dimenticato il sapore inebriante della fedeltà.

L’INDISSOLUBILITÀ È SVELAMENTO DELLE QUALITÀ DELL’ALTRO -

Ed eccoci al terzo guadagno: la fedeltà di cui parliamo è il dedicare il cuore all’altro, ma non nel senso romantico che, in ultima analisi, è semplicistico, ma nel senso biblico, cuore come volontà di amare e intelligenza di riconoscimento dell’altro, che si esprime nel desiderare di svelare e realizzare tutte le potenzialità dell’altro/a. E tutto questo nella buona e nella cattiva sorte, come sappiamo: quando l’altro è funzionale al mio bisogno e quando non lo è. La fedeltà è una sorta di sentinella che aspetta la luce dell’alba, anche quando sa che è ancora notte.

440 - LA FEDELTÀ CONIUGALE: UN OBBLIGO O UN VALORE?(prima parte)

Una settimana di riflessione sul Matrimonio

Sesto giorno

Stiamo per dire – forse in modo un po’ provocatorio – che di certe indissolubilità matrimoniali la comunità di fede potrebbe fare a meno, come ad esempio, i matrimoni che non si sciolgono, ma che sono di una pesantezza indicibile, non solo per i due coniugi, ma per i figli e talora per i figli dei figli. «Io e mia sorella, a partire dai miei 15 anni, non scendevamo più a tavola con i nostri genitori, mangiavamo fuori pasto, perché stare a tavola con loro era come assistere impotenti ad una guerra – calda o fredda poco importava – che ci feriva nel profondo, ci rendeva tossico il cibo. Sì, abbiamo detto in tutti i modi: “Perché almeno durante il pasto non restate in silenzio?”. Loro promettevano, ma poi bastava un cenno qualsiasi di uno che l’altro ribatteva, inesorabilmente: “Ecco, dici così perché…”. È così che noi abbiamo cercato di salvarci la pelle con lo “sciopero della tavola”, ma io, con il mio attuale compagno, sono diventata allergica ad ogni discussione, ad ogni potenziale contrasto e mi rendo conto che questo è troppo».

Certe indissolubilità piatte, certe “occupazioni del territorio” così che nessuno lascia nessuno (anni fa è uscito un libretto significativo da parte di terapeuti sistemici: «Né con te, né senza di te»1, per dire che talora la posta in gioco è farsi del male e non abbandonare il campo) non fanno bene né alla famiglia né alla comunità di fede.

DUE SCORCIATOIE - Sgombriamo subito il campo dalla tentazione di prendere allora due scorciatoie facili: la separazione facile del «non posso più vivere con te» (vale la pena affermare che la Chiesa ammette la separazione quando convivere è veramente impossibile, purché non si stabilisca una nuova relazione affettiva e sessuale) perché l’altro non è fatto come io desidero e intanto è spuntato/a all’orizzonte qualcuno/a di più soddisfacente. Tra l’altro, la nostra esperienza di lavoro con le coppie ci dice che spesso il secondo passo («ho trovato un altro/a») precede e anzi fonda il primo («tu non mi dici più niente, non ti amo più»). Qui siamo a livello di quel ‘ripudio’ incollato alla legge di Mosé, come dice il Vangelo di questa domenica, che – ai tempi di Gesù – privilegia il maschio: è lui che può trovare in lei motivi di insoddisfazione; e anche in questo tranello Gesù non cade: questo è adulterio, sia che provenga dall’iniziativa di lui che dall’iniziativa di lei. Gesù conosceva bene la parità dei sessi, nel bene e nel male!

La seconda scorciatoia sarebbe la convivenza, del tipo: «Facciamo così, mettiamoci insieme, e quando qualcosa non va, ci lasciamo, onestamente, altro che la maglia forzata dell’indissolubilità!». A parte che non avviene magicamente mai che quando un convivente «non ce la fa più» anche l’altro sia dello stesso parere: abbiamo visto conviventi abbandonati piangere disperati come il più legato dei mariti o la più legata delle mogli! È ora che diciamo forte alle nuove generazioni che una convivenza non è un matrimonio, cioè un vero «vivere in due in una carne sola», poiché la convivenza a tempo per sua natura non istituisce un legame definitivo, bensì un legame condizionato al «finché mi vai bene», dunque la convivenza non può in alcun modo essere un matrimonio o una ‘prova’ di esso.