(Daniele 7,13-14 Apocalisse 1,5-8 Giovanni 18,33b-37)
Il colloquio di Pilato con Gesù del
Vangelo di oggi è incentrato sul significato della sua regalità, che non
corrisponde all’accusa dei giudei, che glielo avevano condotto come un
sobillatore politico. Alla domanda di Pilato: «Sei tu il re dei giudei?» (v.
33), Gesù, secondo i sinottici, risponde con un ambiguo: «Tu lo dici» (cfr. Mc 15,2 par.). Giovanni, invece,
riporta un dialogo che ha uno scopo apologetico e cristologico insieme. Negli
anni 70-90 d.C. era importante scagionare il procuratore per la condanna di
Gesù e ribadire che il cristianesimo non costituiva un pericolo per l’impero
romano.
Il confronto centrale, faccia a faccia
tra il rappresentante dell’impero e Gesù, al di là della drammaticità delle
parole e dei gesti, dei silenzi e degli sguardi, diventa una pagina di
rivelazione. Gesù rivela, proprio in questo momento – non lo aveva mai fatto in
altre circostanze nel vangelo di Giovanni – che egli è re. Gesù lo fa senza
sotterfugi, con ricchezza di dettagli, rimandando a un altro regno. La sua regalità
è legata alla «testimonianza della verità», all’affermazione della sua origine
divina. È questo lo scopo della sua venuta nel mondo e della sua nascita.
Che cosa sia questa «testimonianza alla
verità» si può capire in base all’insieme di tutto il quarto vangelo. Gesù è
venuto a testimoniare ciò che ha visto e che continuamente vede. Egli è la
Parola rivolta verso il Padre e quindi è Parola di verità, perché dice come è
Dio e come l’uomo realizza veramente se stesso. La paternità di Dio e la nostra
condizione di figli è la verità che egli ci consegna. Gesù è «re», ma non di
questo mondo. La sua regalità non entra in competizione e non costituisce un
pericolo per il potere romano, consiste invece nell’offrire la propria vita
sulla croce per salvare l’uomo.
Siamo alla conclusione dell’anno
liturgico, e non a caso la liturgia pone a coronamento del cammino annuale
questa solennità che riassume e sintetizza l’intero cammino percorso. È dal
legno della croce che Gesù regna, e il suo potere e la sua gloria stanno nella
forza e nella grandezza dell’amore. Celebrare la festa di Cristo re significa
porre Gesù Cristo in cima alla scala dei valori della vita, significa prendere
coscienza che deve essere lui a guidare e orientare il nostro cammino.
Papa Paolo VI aprendo la seconda sessione del concilio Vaticano II
descriveva con queste parole il primato di Cristo: «Cristo da cui veniamo, per
cui viviamo e a cui andiamo. Nessun’altra luce […] che non sia Cristo, luce del
mondo; nessun’altra verità interessi le nostre anime che non sia la parola del
Signore, unico nostro Maestro; nessun’altra aspirazione ci guidi che non sia il
desiderio di essere a Lui assolutamente fedeli; nessun’altra fiducia ci
sostenga se non la certezza che egli è con noi» (EV 145). Nella nostra vita cristiana siamo chiamati a dare a
Cristo questo primato: sull’intelligenza per mezzo della fede, sul cuore per
mezzo dell’amore, sulla volontà e sulla vita con l’accettazione del suo volere,
cosicché egli diventi «l’Alfa e l’Omèga» di quello che pensiamo, di quello che
amiamo e di quello che siamo.
Oggi la domanda che ci si deve porre non
è se Gesù Cristo regni o no nel mondo, ma se egli regni o no in me; non se la
sua regalità è riconosciuta dagli stati e dai governi, ma se è riconosciuta e
vissuta da me. Chi regna dentro di me, chi fissa gli scopi e stabilisce le
priorità: Cristo o qualcun altro? Secondo l’apostolo Paolo esistono due
possibili modi di vivere: per se stessi o per il Signore (cfr. Rm 14,7-9). Vivere «per se stessi»
significa vivere come chi ha in se stesso il proprio principio e il proprio fine;
indica un’esistenza chiusa in se stessa, tesa solo alla propria soddisfazione e
alla propria gloria. Vivere «per il Signore», al contrario, significa vivere in
vista di lui, per la sua gloria, per il suo regno. In una delle invocazioni del
Padre nostro preghiamo: «Venga
il tuo regno!». Ebbene la festa di oggi sia per noi un invito a costruirlo con
la vita, la santità, la grazia, la giustizia, l’amore e la pace.
PREGHIERA
C’è una regalità che non ha bisogno di esibire insegne luccicanti, né di
imporsi con la forza. C’è un potere che non ricorre all’uso della violenza e
tuttavia trasforma in profondità il corso degli eventi solo attraverso l’amore.
Tu sei re,
Gesù, e lo dichiari davanti al procuratore romano, a costo di apparire un
illuso, perché non corrispondi per nulla all’immagine del potente di turno.
In quel
momento, in effetti, sembra che sia Ponzio Pilato a poter disporre della tua
vita solo perché può decidere di farti morire sulla croce. Ma a considerare gli
avvenimenti con uno sguardo profondo l’apparenza non inganna più. Questa nostra
storia ha visto sgretolarsi inesorabilmente il mondo costruito con le armi
delle legioni e ha registrato la forza dirompente del tuo amore disarmato.
Non eri tu,
dunque, il debole, né lo sconfitto, né il perdente, e la tua croce non ha
costituito il segno inequivocabile del fallimento: proprio attraverso di essa
tu hai tracciato un corso nuovo all’umanità.
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