sabato 10 novembre 2012

445 - SHEMAH – LA PREGHIERA EBRAICA QUOTIDIANA

Per una pausa spirituale durante la XXXIª Settimana del Tempo ordinario

“Ascolta, Israele: il Signore è il nostro Dio, unico è il Signore. Tu amerai il Signore, tuo Dio, con tutto il cuore, con tutta l’anima e con tutte le forze”.(Deuteronomio 6,6)
Con queste parole il pio israelita si impegnava a corrispondere all’amore che Dio aveva manifestato nei confronti del suo popolo liberandolo dalla schiavitù d’Egitto e contraendo con esso un patto di alleanza. Questo comandamento/preghiera ricordava all’israelita l’esclusività di Dio: nel suo cuore non ci dovevano essere altre divinità.
Questo brano è una delle pagine più importanti di tutto l’Antico Testamento, si tratta del testo conosciuto come Shemáh Israel (= ascolta, Israele). Il credo ebraico si raccoglie in questa preghiera, recitata ancora oggi al mattino, a mezzogiorno e alla sera: «Ascolta, Israele: il Signore è il nostro Dio, unico è il Signore. Tu amerai il Signore, tuo Dio, con tutto il cuore, con tutta l’anima e con tutte le forze» (6,4-5). Questa preghiera, scritta su piccoli fogli di carta, veniva e viene tuttora posta sulla fronte, attorno al braccio, sulla mano e sugli stipiti delle porte delle case. Questa usanza può sembrare strana, forse persino stupida, ma in realtà nasconde profonde allusioni: la «mano» richiama l’agire; la «fronte» richiama il pensiero, la ragione, l’intelligenza; la «porta» richiama l’accesso, il passaggio, la vita sociale. È una preghiera antica che coinvolge tutto l’uomo: mente e cuore, mani e piedi, occhi e orecchi, labbra e lingua, volontà e sentimento, interiorità ed esteriorità.
Lo Shemáh costituisce la «confessione di fede» in Jhwh come unico Dio, e l’affermazione del comandamento più grande della legge, quello dell’amore di Dio. Nella recitazione quotidiana dello Shemáh, l’israelita si pone una mano davanti agli occhi, per evidenziare che il mistero annunciato da queste parole è un mistero accessibile solo all’ascolto e non alla visione. Dio non si è rivelato a Israele facendogli vedere il suo volto, ma facendogli udire la sua voce. Nessuna delle cosiddette «visioni» di Dio dell’AT ha mai la pretesa di descriverci realmente il volto di Dio. Al contrario, lo si vede di spalle (Es 33,23), dai piedi in giù (Es 24,10) o se ne intravvede appena il lembo del vestito (Is 6,1). Sono tutte espressioni figurate, e forse anche ironiche, per affermare l’impossibilità della visione. Proprio per questo qualunque raffigurazione del Dio che rifiuta di farsi vedere, è già di per sé l’adorazione di un altro Dio, di un Dio diverso da colui che è l’invisibile.
Jhwh è un Dio che non si fa vedere, ma solo ascoltare. Da questa prospettiva si possono trarre due deduzioni: 1) La visione ha un’evidenza oggettiva, si impone da sé, l’ascolto richiede invece che si abbia fiducia in colui che parla. L’israelita, quindi, è chiamato ad accettare responsabilmente il rischio della fede, deve credere senza vedere, sperare per fede la realizzazione non ancora osservabile delle promesse del Signore. 2) L’ascolto, al contrario della visione, è sempre un’«esperienza aperta» che non può esaurirsi in se stessa, ma richiede la realizzazione operativa della parola udita. In tutta la Scrittura, quando Dio parla lo fa quasi sempre per dire all’uomo che cosa deve fare.
Lo Shemáh stabilisce una unione molto profonda fra l’ascolto e l’amore di Dio: Ascolta, Israele… amerai… La condizione perché sia possibile un vero ascolto della Parola è l’amore fiducioso verso colui che attraverso di essa parla al cuore. Senza questa fede, senza l’amore radicale per Dio, il cuore resta chiuso all’ascolto della sua voce. Il centro di tutta la teologia biblica dell’ascolto, che sta alla base della nascita di Israele come popolo, è che il vero ascolto deve essere «con tutto il cuore, con tutta l’anima, con tutta la forza» (v. 5). L’esegesi giudaica si è chiesta: se si è già detto «con tutto il cuore», che ragione c’è di aggiungere «con tutta l’anima e con tutta la forza»? La risposta, codificata dai maestri della Mishna (ii sec. d.C.), è che la precisazione «con tutta l’anima» significa: perfino se Jhwh ti strappa l’anima, cioè fino al martirio; mentre l’aggiunta «con tutta la forza» significa: con tutti i tuoi beni. Cioè: si deve amare Dio non solo con tutto il proprio essere (cuore), ma anche con i propri beni materiali (forza), fino al dono totale della vita (anima). Nella parabola evangelica del seminatore coloro che sono incapaci di accogliere la parola di Dio, cioè i terreni che non fanno fruttificare il seme, si distinguono in tre diverse categorie, che nella spiegazione della parabola vengono così individuati: a) coloro che non hanno un cuore che sa capire la parola (Mc 4,15); b) coloro che non sanno restare fedeli di fronte alla persecuzione e alle sofferenze (Mc 4,16-17); c) coloro che sono sviati dall’inganno della ricchezza (Mc 4,18-19). Quindi coloro che non sanno ascoltare la parola di Dio sono esattamente quelli che secondo l’esegesi giudaica dello Shemáh, non sanno amare Dio: a) con tutto il cuore; b) con tutta l’anima, cioè anche di fronte alla sofferenza e al martirio; c) con tutta la forza, cioè essendo disposti anche a perdere tutte le proprie ricchezze.

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