sabato 29 ottobre 2011

296 - CHI TRA VOI È PIÙ GRANDE, SARÀ VOSTRO SERVO

30 Ottobre 2011 – Domenica XXXIª Tempo Ordinario
(Malachia 1,14-2,1-2.8-10 1ª Tessalonicesi2,7-9.13 Matteo 23,1-12)

Poiché Dio è unico e padre di tutti, nella comunità cristiana e nel rapporto con tutti gli uomini il vangelo cristiano indica l’ideale della fraternità: un ideale a cui tendere e mai raggiungibile in forma piena su questa terra. Ma da tradurre in gesti concreti, il cui spirito è decisamente individuato nel ‘servizio’, nella disponibilità.
Attraverso l’interpretazione attualizzante di Matteo, Gesù parla anche alla Chiesa d’oggi. Matteo scrive infatti non tanto da cronista e storico del passato, in vista di ricostruire l’identità precisa di coloro ai quali Gesù si riferiva, quanto per istruire i suoi uditori e lettori, noi che ascoltiamo il Signore attraverso il suo vangelo, segnalando un rischio sempre attuale e possibile: quello di far da guide agli altri, senza poi vivere in coerenza con quanto insegnato. Nelle parole di Gesù risuona la denuncia di una triplice ipocrisia, quale insidia per chi esercita ruoli responsabili nei confronti di altri: *mostrarsi rigidi nel chiedere a tutti l’osservanza di norme morali, salvo poi essere indulgenti e permissivi con se stessi; *ambire riconoscimenti e stima immeritata da parte della gente, senza preoccuparsi di risultare effettivamente ciò che i fedeli si attendono o cercano; *passare per rabbì, maestri qualificati e considerati tali da tutti, mentre non si è di fatto tali! Dicono e non fanno! Le varianti alla triplice forma di ipocrisia possono essere molteplici. Una verifica e un esame di coscienza quindi da non eludere, quando si viva la responsabilità nei confronti di altri: in famiglia, negli ambienti di formazione religiosa e civile; e anche quando si occupi qualche ‘cattedra’ di direzione della comunità politica.
In alternativa a ciò che veniva denunciato come negativo nei responsabili dell’ebraismo di quel tempo, già si intravede l’identità del gruppo dei discepoli, che nasceva alla scuola di Gesù. Ma il secondo brano indica anche più esplicitamente come si articolano le relazioni fra i seguaci di Gesù. Vi si può nuovamente trovare una triplice direttiva (vv. 8-12): maestro e guida è (e resta unico per tutti) Gesù Cristo Signore: rispetto a lui si è sempre discepoli! Padre, a cui far costante riferimento filiale e fiducioso, è Dio, il Padre che sta nei cieli. Nella comunità cristiana, e verso tutti gli uomini, si è dunque chiamati a rapporti di fraternità! Anzi, il più grande tra voi sia vostro servo! È evidente quanto speculare ed alternativa sia questa semplice carta d’identità di chi presiede servendo una comunità cristiana, rispetto a quella di coloro che erano allora assisi «sulla cattedra di Mosè».
Sulla cattedra dunque di Gesù Maestro e Signore non sono previsti successori! Si può essere chiamati talvolta a ripetere qualche sua lezione, ma episodicamente, dopo averla ascoltata attentamente; e per dirla agli altri ‘condiscepoli’ e fratelli con l’accento discreto di una testimonianza vissuta e convinta. Sta qui l’identità di chiunque presta servizio al Vangelo nella comunità cristiana: genitori, catechisti, teologi, predicatori della Parola da ogni pulpito, anche da quello semplice e ‘dialogico’ che a volte ha per interlocutore uno non ancora (o non più) credente in Dio e nel Vangelo.
La sentenza sapienziale con cui si chiude il testo evangelico odierno – chi s’innalza sarà abbassato e chi si abbassa sarà innalzato – ci fa raggiungere idealmente il luogo di nascita del cristianesimo, Nazaret! A commento di quanto era cominciato nella sua vita spirituale, Maria di Nazaret aveva cantato che (Dio) rovescia i potenti dai troni e innalza gli umili; ricolma di beni gli affamati e rimanda i ricchi a mani vuote. Effettivamente il Vangelo era cominciato così a Nazaret! E la comunità cristiana rinasce ogni volta che parte nuovamente di là.
Preghiera - Sono parole dure, Gesù, quelle che rivolgi agli scribi e ai farisei, parole che lasciano il segno perché portano alla luce comportamenti in contrasto con un rapporto autentico verso Dio.
Il campionario da te descritto va dalla voglia di esibirsi per ricevere il plauso e la stima degli uomini all’illusione di poter sottrarsi agli obblighi dell’alleanza, dalle piccole manie rituali, indizi evidenti di nevrosi, al rigorismo di certi giudizi che non combaciano poi con l’impegno e le scelte personali.
C’è un po’ di tutto, Gesù: un insieme di debolezze, di piccinerie, di ingenuità, che rivelano però un rischio notevole. Sì, perché dietro la voglia di apparire si cela la pretesa di sottrarsi alla legge di Dio, dietro la smania di titoli altisonanti il bisogno segreto di prendere il posto dell’unico Padre e dell’unico Maestro.
A questo punto il gioco si fa veramente pericoloso, tanto da pregiudicare ogni relazione con Dio.

295 - PERCHÉ L’AMORE DEL PROSSIMO È IL SECONDO COMANDAMENTO

Per una pausa spirituale durante la XXXª settimana

La domanda che costituisce il titolo di questa riflessione si riferisce al fatto che Marco e Matteo parlano del comando di amare Dio come ‘primo’ comandamento (Mc 12,29; Mt 22,38) e di quello di amare il prossimo come del ‘secondo’ (Mc 12,31; Mt 22,38). In Luca non si trova più alcuna menzione di primo e secondo: questo ordine dei comandi scompare e i due sono pienamente unificati (Lc 10,27). Ma, più radicalmente, il carattere ‘secondo’ del comando di amare il prossimo è anzitutto connesso al suo stesso essere un comandamento. E in questo esso è in compagnia del comandamento di amare Dio. Il comandamento dice la priorità di Colui che lo formula e lo dona. E chi mai può comandare l’amore se non colui che ama? Se non l’amante? Così l’esperienza di essere amati da Dio è alla base del comando di amare sia Dio che il prossimo. Ed è fondamento della possibilità da parte dell’uomo di adempierlo. «Solo l’anima amata da Dio può accogliere il comandamento dell’amore del prossimo fino a dargli compimento. Dio deve essersi rivolto all’uomo prima che l’uomo possa convertirsi alla volontà di Dio».
Il comandamento poi non è solo ‘ordine’, ma anche rivelazione di una possibilità. Il comandamento dice ‘tu devi’, ma dice anche e prioritariamente ‘tu puoi’. Anzi, si basa sul ‘tu puoi’. Il comandamento diviene così luce sulla via dell’uomo, diviene offerta di senso e di vita fatta da chi crede alla capacità dell’uomo di metterlo in pratica e di trovarvi la propria gioia. Il comandamento è attestazione di fiducia di Dio nei confronti dell’uomo. Dio crede nell’uomo e nella sua capacità di amare, tanto che il comando suona anche come promessa: ‘Tu amerai’ (agapḗseis). Il comando può svegliare l’uomo a capacità, possibilità e risorse di cui egli non era cosciente.
L’amore quindi, sia per Dio che per il prossimo, è ‘secondo’ perché suppone l’attivazione della capacità di ascolto e, attraverso l’ascolto, la fede. Per Marco il primo comandamento è costituito dalle parole iniziali della quotidiana confessione di fede che è lo shemah: «Ascolta, Israele: il Signore nostro Dio è l’unico Signore; tu amerai il Signore…» (Mc 12,29). E l’ascolto dello shemah è ascolto di una parola con cui Dio convoca tutte le facoltà dell’uomo a impegnarsi nell’amore per Dio: cuore, anima, mente (Matteo); cuore, anima, mente, forza (Marco). In questa totalità della persona umana invitata ad amare Dio vi è già implicato l’invito ad amare l’uomo. L’uomo, infatti, è relazione con l’altro, è essere sociale: egli non è senza l’altro. E amare con tutte le fibre del proprio essere non può che implicare anche l’amore per ogni essere creato a immagine e somiglianza di Dio.
La priorità del comando di amare Dio rispetto all’amare il prossimo sottrae l’amore del prossimo all’essere semplicemente atto morale frutto della buona volontà dell’uomo, lo sottrae alla fragilità dell’essere spontaneismo del sentimento e, soprattutto, gli evita di chiudersi nella polarità ‘io-tu’, sempre a rischio di fusionalità e di violenza, di assorbimento in me dell’altro e di mia dissoluzione in lui, e lo pone nell’ampio e liberante spazio del Terzo (Dio, appunto). La priorità del comando di amare Dio inserisce l’amore del prossimo in un orizzonte, da un lato, senza confini (ogni altro che incontro è ‘prossimo’, quali che siano le sue condizioni culturali, etniche, di genere, sociali, economiche…), dall’altro, libera questo stesso amore dai rischi dell’amore grazie al terzo, il Signore mio e del prossimo, il Signore dell’altro e di me che, a mia volta, sono prossimo del mio prossimo.
Al tempo stesso, il comandamento di amare il prossimo è secondo rispetto al comando dell’amore per Dio per non lasciare solo il primo, per evitare la solitudine del primo comandamento, una solitudine che potrebbe essere nefasta. È secondo per agganciare il primo e dargli la concretezza e la corposità che altrimenti lo lascerebbero in balìa del soggettivismo spirituale della persona. È secondo per dare verità e concretezza al primo: amare il Dio invisibile trova un suo inveramento nell’amare il fratello che è ben visibile, che è l’immagine di Dio nel mondo. Un’immagine non partorita dalla mia mente e dunque che non mi scomoda, ma già data, concreta, limitata, obbligante, scomodante.
Il rapporto tra primo e secondo comandamento trova pertanto una bella definizione sintetica in Matteo: «Il secondo è simile al primo» (cfr. Mt 22,39). Fra i due comandamenti vi è una reciprocità come in uno specchio. L’amore per il prossimo è specchio dell’amore per Dio. Vi è consustanzialità tra i due. Dirà molto bene Giovanni: «Chi non ama il proprio fratello che vede, non può amare Dio che non vede» (1 Gv 4,20). L’amore per il prossimo, in dipendenza dall’amore per Dio con tutto se stesso, implica un lavoro di decentramento da sé che conduce ad amare anche colui che agli occhi umani è un nemico, ma agli occhi di Dio resta una creatura a sua immagine e somiglianza, un suo figlio, un mio fratello. Così, l’amore del prossimo diviene narrazione sacramentale dell’amore di Dio per l’uomo e testimonianza dell’amore umano per Dio.
Ma qui cogliamo l’ultimo e decisivo punto della nostra riflessione. Ovvero, la sua dimensione cristologica. L’ordine dei comandi, il loro essere primo e secondo, e l’essere il secondo specchio del primo, simile ad esso, è in bocca a Gesù che i comandamenti non si limita a formularli ma li vive in prima persona. L’umanità di Gesù narra l’ordine dell’amore: sapendosi amato dal Padre («Il Padre ama il Figlio»: Gv 3,35; «Il Padre mi ama»: Gv 10,17), Gesù ama il Padre, l’Abbà («Io amo il Padre»: Gv 14,31) e ama i suoi, il suo prossimo fino a dare la vita per loro («Gesù, avendo amato i suoi, li amò fino alla fine»: Gv 13,1). E l’amore per i suoi, illuminato dall’amore per Dio, diviene anche amore per il nemico. Amore effettivo e concreto anche per Giuda, davanti a cui Gesù si inchina per lavargli i piedi facendo il gesto dell’amore e del servizio per colui che sta per alzare il calcagno contro di lui con il tradimento (Sal 41,10; Gv 13,18). L’amore del prossimo illuminato dall’amore di Dio e per Dio diviene per il credente scelta di amare incondizionatamente, di amare anche chi non è amabile, di amare anche chi lo odia. Diviene, in Cristo, un atto di indicibile libertà in cui, amando l’altro, il credente può amare Dio con tutta l’anima, ovvero, fino al punto in cui gli viene strappata l’anima, tolta la vita.

sabato 22 ottobre 2011

294 - AMERAI IL SIGNORE TUO DIO … AMERAI IL TUO PROSSIMO - 23 Ottobre 2011 – Domenica XXXª Tempo Ordinario

(Esodo 22,20-26 1ª Tessalonicesi1,5-10 Matteo 22,34-40)

Non si può dire di amare Dio se non amiamo il fratello che ci troviamo vicino. E anche: non è necessario allontanarsi dagli uomini per amare Dio. L’amore di Dio e l’amore degli uomini costituiscono un unico comandamento.
Diversamente dal vangelo secondo Marco, quello secondo Matteo (e anche Luca) interpreta il nostro episodio come una ‘tentazione’ di Gesù messa in atto dai farisei. La risposta tuttavia non assume il tono polemico di altre dispute e non ha neppure l’effetto dei «ma io vi dico» (cfr. Mt 5,20-48). Gesù riconduce qui la questione ad una affermazione fondamentale del suo Vangelo, ossia della sua novità nel rapporto da cercare e da vivere con Dio e con il prossimo … e lascia ai due ‘comandamenti’ la densità della rispettiva espressione originaria. Quella, anzitutto, da Dt 6,5: “Amerai il Signore tuo Dio, con tutto il tuo cuore, con tutta la tua anima, e con tutta la tua mente”, (la tradizione rabbinica interpretava la triplice espressione dell’amore verso Dio in questo modo: il cuore, ossia la dedizione religiosa a Dio; l’anima, ossia la vita, la fedeltà a lui fino al martirio; la mente, ossia la priorità riconosciuta pienamente a Dio), e, in modo analogo, anche l’affermazione da Lv 19,18: “Amerai il tuo prossimo come te stesso!” con la risonanza che la designazione di ‘prossimo’ può assumere in Lv 19, in cui si indicano più efficacemente i volti differenti da considerare e amare «come se stessi!».
■ In definitiva, verso tale sintesi del Decalogo (e di tutta la Legge di Mosè), sintesi compiuta da Gesù, già si orientava la stessa ricerca spirituale dell’ebraismo del tempo di Gesù. Così, infatti, si era pronunciato anche il grande rabbì Hillel. Ma diversamente da quanto rievoca Marco, Matteo non ci dice che gli interlocutori di Gesù abbiano riconosciuto la bontà e validità della soluzione data da lui circa i comandamenti della Legge. Anzi, siamo avvertiti dall’evangelista che obiettivo dei farisei e del dottore della Legge era soltanto di mettere alla prova il Profeta venuto da Nazaret. Senza quindi ricredersi a suo riguardo, dopo la sua risposta chiara e illuminante. Quando non si riconosce e non si accetta Gesù quale maestro e guida – così sembra suggerire Matteo – non si arriverà mai a capire che tutta la Legge e tutta la Bibbia sono un grandioso appello ad amare! Senza adesione a Cristo e al suo Vangelo, si continuerà a chiedere norme precise da osservare – cose da fare! – per essere a posto con i ‘doveri’ verso Dio e verso gli altri, mentre il Vangelo di Gesù Cristo chiama ad essere, cioè ad amare!
Amare Dio e amare il prossimo: in misure sempre nuove e interiorizzate, da non ridurre ad alcuni riti o gesti formali. I gesti, per essere veri, vanno riempiti di amore genuino, ossia compiuti con tutto il cuore, l’anima e la mente. Amare non esonera dall’obbedire, ma conferisce a quest’ultimo l’atteggiamento filiale; non annulla il timor di Dio, ma ne toglie il carattere servile; non rende meno esigente la relazione con il prossimo, ma non sopporta che l’amore verso di esso sia un ordine da eseguire. L’amore non lo si esegue, bensì lo si vive, in una festa di libertà!
Preghiera - Per un ebreo del tuo tempo, Gesù, che cosa v’era di più sacro della Legge che Dio aveva donato al suo popolo? Che cosa poteva pretendere di valere più di essa? E quale riferimento più sicuro del messaggio dei Profeti? Ebbene: tu non esiti ad affermare che i due comandamenti (l’amore per Dio e l’amore per il prossimo) contano più della Legge e dei Profeti! Non c’è dunque altro riferimento che risulti così decisivo per un rapporto autentico con Dio.
Così tu ci chiedi non un amore qualsiasi, una qualche religiosità, una certa devozione o la pratica di alcuni riti: tu esigi un amore per Dio che impegni il cuore, le grandi decisioni, le scelte che lasciano il segno, ma anche l’anima e la mente, l’intelligenza e la volontà, il corpo e lo spirito.
E non ti accontenti neppure di un qualche gesto di pietà nei confronti del nostro prossimo. Tu ci domandi di trattarlo come uno dei nostri perché è come noi: ha i nostri stessi diritti, i nostri bisogni e desideri, la nostra stessa dignità.

293 - CESARE E DIO: LA LEALTÀ DEL CRISTIANO VERSO LE ISTITUZIONI

Per una pausa spirituale durante la XXIXª settimana

Come è noto, la politica non è tema centrale nella Rivelazione. Essa non proclama una dottrina politica. E tuttavia l’appello a dare a Cesare quel che è di Cesare e a Dio quel che è di Dio è principio denso di implicazioni etico-politiche. Le accenno soltanto.
Innanzitutto, l’imperativo di portare rispetto all’autorità civile, di obbedire al potere legittimo. Una lealtà verso le istituzioni che impegna anche i cristiani. Come suggerisce il celebre scritto del secondo secolo, Lettera a Diogneto, ove si rappresentano la vita e il comportamento dei primi cristiani, la loro condizione di cittadini con una doppia patria, terrena e celeste, non li esonera dall’osservanza delle leggi che presiedono alla vita nella città dell’uomo. I cristiani, vi si dice, con il loro modo di vivere, con il loro stile e la loro tensione interiore, trascendono la logica propria di quelle leggi, ma intanto cominciano con il rispettarle. Potremmo dire che parte integrante della loro testimonianza è la partecipazione cordiale alla condizione comune dei propri concittadini, la lealtà verso le istituzioni. Sporgono verso la misura senza misura della cristiana carità, che si spinge sino al dono di sé, che si nutre di gratuità, ma intanto praticano la giustizia. Cioè la cura di dare a ciascuno ciò che è suo e alla comunità ciò che corrisponde al bene comune. In un tempo tanto segnato dal degrado del senso della legalità, del civismo, dell’etica pubblica, ai cristiani spetta il compito di mostrarsi cittadini esemplari, rispettosi delle leggi, dotati del senso dello Stato, inteso, secondo la bella espressione dei costituenti di parte cattolica, come «casa comune nella quale siamo chiamati ad abitare insieme» (Aldo Moro). Alla luce di questo richiamo, merita osservare che, nella sensibilità e nella formazione cristiana, è largamente coltivato il valore dell’obiezione di coscienza, cioè del dissenso motivato eticamente contro la legge ingiusta. Ed è buona cosa. Solo si dovrebbe rimarcare il suo carattere eccezionale e di ultima istanza. Non abusare nell’appello ad essa. Invocarla e ricorrervi solo a fronte di incoercibili ragioni etiche e coscienziali. Nella consapevolezza, non sempre viva, che trasgredire un obbligo di legge è comunque un vulnus inferto al bene di una convivenza ordinata e pacifica in quanto essa fa affidamento appunto sulla comune ottemperanza alle regole che ci si dà. Insomma, a fondamento di ogni comunità, vi è un’etica della convivenza, un vincolo di solidarietà che è responsabilità di tutti custodire e promuovere. I cristiani non devono proporsi come cittadini speciali incuranti del bene rappresentato da quel vincolo. Solo nel quadro di tale coscienza delle buone ragioni per le quali merita stare insieme rispettando regole e autorità civili, anche il gesto estremo della obiezione di coscienza può rappresentare un prezioso contributo a ripensare e correggere le leggi ingiuste e a richiamare le autorità civili stesse al loro compito e ai loro limiti: quello di detentori di un potere a servizio della persona e non autoreferenziale, dispotico, oppressivo.
In secondo luogo, rispettivamente, il nostro versetto evangelico prescrive il dovere di dare a Dio ciò che gli è dovuto. Cioè timore (nel senso del «timor di Dio»), obbedienza, amore. Adesione intima della coscienza. È implicito il richiamo al primato di Dio. Un primato utile e prezioso anche ai fini di una buona politica. Mi spiego: esso implica la relatività delle appartenenze politiche. Nessuna autorità politica, per quanto legittima, può pretendere di assurgere ad assoluto, a surrogato della divinità. È un antidoto contro l’idolatria dei totalitarismi di ogni colore e, conseguentemente, uno stimolo a disegnare e costruire regimi politici liberali e democratici. Nei quali l’autorità (lo Stato) sia a servizio della persona e della società e non viceversa. Non è un caso che la democrazia abbia avuto uno sviluppo così ricco nell’occidente di matrice cristiana (un occidente, sia chiaro, che invece, sotto altri profili, è decisamente lontano dal Vangelo). Quel primato di Dio, quella opposizione agli assolutismi politici, nel tempo hanno forgiato istituzioni politiche che sanno porre un limite a se stesse e al proprio potere. Si pensi alle costituzioni democratiche contemporanee e alle Carte internazionali dei diritti la cui molla originaria, la cui ratio sta appunto nel proposito di porre limiti al potere di chi comanda. Anche quando lo fa in rappresentanza delle maggioranze e investito della sovranità popolare.
Va poi messo in luce il rapporto tra Cesare e Dio. La distinzione e, insieme, la connessione. In primis la distinzione. Sia la distinzione di ambiti e di responsabilità tra istituzioni civili e istituzioni religiose, tra evangelizzazione e civilizzazione. Contro le opposte derive del confessionalismo e del laicismo. Sia la distinzione maritainiano-conciliare tra le azioni che i cristiani compiono in quanto cristiani e quelle che essi compiono in quanto cittadini sul terreno dei valori umani e universali, intrecciando un confidente dialogo e una fattiva cooperazione con tutti gli uomini di buona volontà. Ma la cura per la distinzione non contraddice la consapevolezza delle connessioni. Lo si evince, per esempio, dal preambolo dell’accordo di revisione del
Concordato siglato nel 1984 tra la Santa Sede e lo Stato italiano: indipendenti e sovrani nei rispettivi ordini, tuttavia entrambi si impegnano a cooperare per la promozione della persona e il bene del paese. È un corollario della cosiddetta laicità positiva o dell’incontro, che si discosta dal vecchio laicismo militante (o laicità da combattimento) di marca francese che misconosce il positivo contributo che può venire dalle religioni (al plurale) alla qualità etica e sociale della convivenza. A loro volta le religioni sono chiamate a un’opera di vigilanza e, se necessario, di auto-correzione e bonifica quando taluni cattivi interpreti di esse confondono religione e politica o, addirittura, fanno arbitrariamente appello alla religione (fraintesa, deformata) per giustificare intolleranza, violenza, guerra. È la degenerazione estrema di un Dio contraffatto dagli uomini che veste i panni di un Cesare
accecato dalla volontà di potenza e di dominio.
Tra breve, nel 2013, si celebrerà il centenario dell’editto di Costantino. Quale migliore occasione per una riflessione critica senza sconti sull’irrisolto rapporto tra Vangelo e potere. I cristiani non sono assimilabili a una setta che se ne sta ai margini delle civiltà, essi aspirano a fermentarle, risanarle e potenziarle, nella loro valenza umanizzatrice. Ma, lungo la storia remota e recente, troppe volte le lusinghe del potere hanno fatto premio sulla loro «differenza evangelica», sull’affidamento alla forza salvifica della Croce ossia della radicale spoliazione da ogni umano potere.

sabato 15 ottobre 2011

292 - CREDENTI IN CRISTO E CITTADINI DI QUESTO MONDO - 16 Ottobre 2011 – Domenica XXIXª Tempo Ordinario

(Isaia 454,1-4.6 1ª Tessalonicesi1,1-5 Matteo 22,15-21)

Gesù ha annunciato la presenza del regno di Dio nel nostro mondo. Questo annuncio non ci chiude in un ghetto spirituale, isolandoci dalla realtà, ma ci chiede piuttosto di lavorare perché Dio trasformi il nostro mondo secondo il suo progetto. In questa prospettiva va compreso il detto di Gesù: Date a Cesare quello che è di Cesare e a Dio quello che è di Dio.
I credenti in Cristo sono anche cittadini di questo mondo, pur se in situazione di minoranza e di diaspora. E cittadini attivi: soprattutto per quel tipo di servizio che è la lettura profetica della storia umana, una lettura che va oltre le narrazioni ‘tecniche’ della cronaca. Tuttavia, perché il detto di Gesù resti provocatorio e centrale nella sua novità e forza, occorre recepire ciò che Gesù aggiunse, non richiesto: rendere a Dio quello che è di Dio! Non sarebbe altrimenti neppure possibile una autentica lettura profetica di servizio alla città degli uomini. Che cosa rendere a Dio più di quanto già i dirigenti del santuario centrale israelitico organizzavano e celebravano in solenni cerimonie, con grandiosità di riti sacrificali e di feste? Ecco, si può fare tutto questo, avendo il cuore lontano da Dio, onorandolo quindi soltanto con le labbra: così già aveva denunciato il profeta Isaia (29,13), ripreso poi da Gesù medesimo (cfr. Mt 15,7-9 ). Il cuore lontano da Dio! È tale anche quando esso rimane insensibile e freddo, passando accanto ad un uomo aggredito e derubato dai briganti: come nel caso di quel sacerdote e di quel levita, che – dopo il ‘servizio’ al tempio – scendevano da Gerusalemme a Gerico (cfr. Lc 10,31-32)!
Rendere a Dio quello che è di Dio! Quante considerazioni circa l’autenticità della fede vengono sollecitate da questo appello sorprendente di Gesù: inatteso e non richiesto dai suoi interlocutori erodiani! Ma inatteso pure da noi, sempre tentati di fermarci al dibattito fra Stato e Chiesa, e alle rispettive loro autonomie e competenze.
C’è da restituire a Dio... spazi abusivamente occupati, sostituendoci a lui nel dominare arbitrariamente sull’universo e sulla vita umana stessa, andando cioè oltre le leggi dell’ordine e delle finalità loro proprie e imprescindibili.
C’è da restituire a Dio... la parola! La relazione, infatti, da lui avviata con l’uomo non era nel senso di ottenere riti, candeline e canti dagli uomini (cfr. Sal 49–50), bensì disponibilità ad essere ascoltato, ad incontrarsi nel dialogo. Ne è stata prova inequivocabile il dialogo aperto dal Figlio suo fatto uomo tra noi.
C’è da restituire a Dio... l’uomo, ogni persona umana, ciascuno di noi, senza esclusioni o eccezioni. Quell’uomo, anche se deforme nel corpo o nello spirito, che Gesù di Nazaret cercò, stimò, rispettò, perché il Padre suo – e lui stesso, Dio fatto uomo – ama: tutti e sempre, e in qualunque situazione.
Allora a questa visione possiamo comprendere quanto sia importante rendere a Dio quello che è di Dio nei tre tempi: passato, presente e futuro.
* Veniamo da Dio e quello che noi siamo è frutto dell’accoglienza del suo dono: da qui scaturisce il ringraziamento.
* Siamo cristiani se preghiamo e viviamo il Vangelo: l’invocazione e la richiesta di aiuto e sostegno nelle difficoltà dell’esistenza sono le dimensioni che ci accompagnano ogni giorno e, quando ci accorgiamo di percorrere vie diverse da quelle del Signore, sappiamo di poter contare sulla sua misericordia e sul suo perdono.
* Il desiderio e la speranza della comunione eterna con Cristo nella beatitudine del cielo compongono il nostro futuro che va oltre la morte.
PREGHIERA - La tentazione è quella di sempre: cedere, Gesù, al Cesare di turno, assicurarsi il suo appoggio, approfittare della sua amicizia e in cambio dimostrarsi conniventi con il suo potere, fino al punto di dichiarare l’esibizione della forza o il consenso ottenuto come qualcosa di divino.
Ma c’è anche un’altra faccia della medaglia che non deve essere dimenticata: è l’illusione di poter sottrarsi alle proprie responsabilità, al rispetto delle leggi, alla pratica della legalità, con la scusa che Cesare non è Dio e che a Dio solo si deve obbedienza.
Ecco perché la tua risposta, Gesù, si rivela preziosa: essa ci obbliga a fare i conti con i nostri doveri di cittadini e a non accampare scuse per sentircene esonerati. Ma nel contempo essa toglie qualsiasi patina di divino all’esercizio del potere, lo sottrae ad una zona franca in cui vorrebbe collocarsi e lo sottomette a regole etiche precise a cui non può sottrarsi, altrimenti corre il rischio di perdere la sua legittimità.

291 - COME IL VANGELO PUÒ ESSERE UNA BUONA NOTIZIA?

Per una pausa spirituale durante la XXVIIIª settimana (seconda parte)

Un impegno etico
Il fatto che la Chiesa si senta chiamata dalla città ad un’operazione di riscrittura e di ricostruzione delle proprie grammatiche e dei propri linguaggi non va confuso con l’idea che la Chiesa debba assumere nei confronti dell’universo urbano odierno una posizione di difesa e un’attitudine di chiusura. Al contrario, l’istituzione ecclesiale interpreta la nuova situazione urbana come un kairós, un’occasione che le viene fornita dentro la storia per vivere una volta di più il proprio atteggiamento costitutivo nei confronti del mondo: quello della testimonianza e del servizio, della comunicazione di speranza, dell’annuncio e della trasmissione efficace di una salvezza che già nel momento stesso in cui viene comunicata comincia a fare nuove tutte le cose.
Lascio ancora alle parole di Paolo VI il compito di illustrarci la via: «Costruire oggi la città, luogo di esistenza degli uomini e delle loro dilatate comunità, creare nuovi modi di contatto e di relazione, intravedere un’applicazione originale della giustizia sociale, prendere la responsabilità di questo avvenire collettivo che si annuncia difficile, è un compito al quale i cristiani devono partecipare. Agli uomini ammassati in una promiscuità urbana che diviene intollerabile, occorre portare un messaggio di speranza, attraverso una fraternità vissuta ed una giustizia concreta. Che i cristiani, coscienti di questa nuova responsabilità, non perdano coraggio davanti alla immensità della città senza volto, ma si ricordino del profeta Giona, il quale percorse in lungo e in largo Ninive, la grande città, per annunciarvi la buona novella della misericordia divina, sostenuto nella sua debolezza dalla sola forza della parola di Dio onnipotente. Nella Bibbia, invero, la città è sovente il luogo del peccato e dell’orgoglio: orgoglio di un uomo che si sente abbastanza sicuro per costruire la sua vita senza Dio e persino per affermarsi potente contro di lui. Ma essa è anche Gerusalemme, la città santa, il luogo dell’incontro con Dio, la promessa della città che scende dall’alto» (Octogesima Adveniens, n. 12).
Le parole di Paolo VI sono di facile comprensione: non necessitano di grandi esercizi interpretativi e, seppure scritte antecedentemente, si prestano bene ad indicare quali siano i contenuti e le forme che l’annuncio e la testimonianza cristiana devono assumere dentro il mondo urbano. I cristiani sono invitati a vivere dentro la città, ma non per nascondersi o per disperdersi in un anonimato poco utile e fruttuoso; sono chiamati a questa solidarietà per aiutare gli uomini a scoprire le potenzialità, gli elementi positivi del mondo urbano e della cultura che esprime. Se attraversata e trasfigurata dalle tante forme dell’esperienza cristiana, anche la città può diventare strumento di umanizzazione, luogo di maturazione dell’identità antropologica originaria. Ai cristiani è quindi chiesto di operare in questa direzione; senza questo genere di operazioni risulterà davvero difficile che il Vangelo possa essere ascoltato come una buona notizia per gli uomini e le donne di oggi.

Un modo di annunciare e celebrare
È in questo contesto di assunzione di un impegno etico esplicito e determinato nei confronti della città che occorre porre la questione dell’annuncio del Vangelo come buona notizia. L’azione di annuncio (e quella decisamente concatenata della celebrazione) è uno degli strumenti di cui il cristianesimo dispone per operare dentro la città nel ruolo di comunicatore di speranza, capace di far maturare e trasfigurare i tratti alienanti comunque presenti in ogni esperienza umana. L’annuncio e la celebrazione sono due luoghi in cui si realizza l’incontro tra memoria cristiana e figura urbana dell’uomo odierno, tra Vangelo e cultura; il celebrare cristiano è uno dei luoghi primari dell’evangelizzazione, come già indicava Paolo VI nella Evangelii Nuntiandi. Come è possibile un simile incontro tra Vangelo e cultura
urbana?
Approfittando di riflessioni già svolte su questa problematica, cercheremo di assumere le dimensioni antropologiche fondamentali dell’esperienza urbana odierna, per scoprire in che modo possiamo annunciare proprio al suo interno il Vangelo come buona notizia ‘reale’. Per raggiungere questo obiettivo occorre imparare ad intersecare l’annuncio cristiano con le dimensioni del tempo (della produzione), del senso, delle relazioni e del consumo, che sono i pilastri dell’esperienza urbana odierna.
La dimensione del tempo, anzitutto, trasformandone il carattere unidimensionale e solamente produttivo attraverso lo strumento della festa, il senso della domenica, che le nostre liturgie divengano spazi di scoperta del nostro essere più profondo.
La dimensione del senso, poi: di fronte ad una cultura della gratificazione istantanea, il nostro annuncio è tenuto a risvegliare dimensioni profonde e trascendenti dell’identità umana, aiutandoci a non dimenticare l’impronta di Dio presente in ognuno di noi, e la finalizzazione del tempo che viviamo (la differenza
cristiana: l’appello al Regno che viene).
La dimensione delle relazioni: in una società che ci frammenta e ci isola, chiudendoci in solitudini mortali, le nostre liturgie sono il luogo in cui sperimentare una comunione più forte dei nostri limiti, perché fondata sull’amore di Dio per noi in Gesù.
Infine, la dimensione del consumo e del possesso dei beni: in una società che fa del possesso e del consumo gli strumenti per vincere la paura della morte, il nostro annuncio sarà veramente buona notizia se ci guiderà a vivere la solidarietà con gli altri (la carità) e con il mondo (un’ecologia dell’uomo) come le conseguenze prime del nostro rapporto con Dio e tra noi.

290 - COME IL VANGELO PUÒ ESSERE UNA BUONA NOTIZIA?

Per una pausa spirituale durante la XXVIIIª settimana (prima parte)

Con schiettezza e lucidità il Vangelo di questa domenica ci pone di fronte ad un problema di grande attualità. Come è possibile che degli individui riescano a declinare in un modo così superficiale un invito di comunione e di stabilità, come il banchetto delle nozze del figlio del re? La risposta indicata dal brano di Vangelo è chiara: per un errore di discernimento. Una cattiva valutazione del senso del tempo porta queste persone a ipervalutare il loro presente rispetto al bene futuro prospettato dal gesto di comunione del re. E il contesto tragico in cui sono inserite rende la loro scelta il punto di avvio di una catena di eventi di manifestazione dell’odio e della violenza del mondo inauditi.
Ci sono dunque situazioni nelle quali il Vangelo non suona come una buona notizia. Meglio ancora, ci sono situazioni in cui il contesto non genera le energie e gli strumenti atti a permettere l’ascolto del contenuto di buona notizia che il vangelo porta con sé. In questi casi il Vangelo viene visto piuttosto come un ingombrante messaggio di disturbo, una parola astratta e poco utile alla costruzione del senso della mia vita oggi.
Come reagire in simili contesti? Ad un problema comunicativo si risponde revisionando le nostre strategie di annuncio del messaggio cristiano: la loro capacità di leggere il contesto dentro cui porre il nostro annuncio, gli strumenti per questo annuncio, i suoi obiettivi.

Un contesto antropologico in forte mutazione
« La nascita di una civiltà urbana non è una vera sfida alla saggezza dell’uomo, alla sua capacità organizzativa, alla sua immaginazione rispetto al futuro? […] L’uomo sperimenta una nuova solitudine, non di fronte ad una natura ostile, per dominare la quale ci sono voluti dei secoli, ma nella folla anonima che lo circonda e in mezzo alla quale egli si sente come straniero. […] Invece di favorire l’incontro fraterno e l’aiuto vicendevole, la città sviluppa le discriminazioni e anche l’indifferenza; fomenta nuove forme di sfruttamento e di dominio, dove certuni, speculando sulle necessità degli altri, traggono profitti inammissibili. Dietro le facciate si celano molte miserie, ignote anche ai più vicini; altre si ostentano dove intristisce la dignità dell’uomo: delinquenza, criminalità, droga, erotismo» (Octogesima Adveniens, n. 10).
Sintetico e illuminante al pari di molte pagine elaborate dalle scienze sociali, papa Paolo VI già nel 1971 poneva la Chiesa di fronte alla sfida antropologica e culturale con cui si sarebbe dovuta misurare: la nascita di un nuovo modello di civilizzazione,
quello urbano. Prima ancora che una sfida per il cristianesimo, la città si presenta oggi all’uomo come una sfida a se stesso, alla sua umanità: non a caso Paolo VI fa un elenco dettagliato dei possibili effetti disumanizzanti degli odierni agglomerati urbani. La capacità di lettura di simili parole è tale da renderle valide ancora più di trent’anni dopo, in sintonia con indagini del fenomeno urbano, delle povertà e delle nuove forme di emarginazione che sono nate dentro le nostre città. Simili contesti rendono molto attuali le parole del vangelo: di fronte all’urgenza del presente, in simili contesti l’annuncio del Vangelo davvero non può essere recepito come una buona notizia, ma come un messaggio ulteriore che sta sullo sfondo rispetto ad un primo piano di questioni più urgenti e primarie.

Una questione di linguaggio e di identità
Il cristianesimo non può non misurarsi con una simile problematica, non può non essere toccato da una simile sfida. La Chiesa infatti scopre che in un simile contesto molti dei suoi strumenti più abituali di presenza nella società e di annuncio della fede sono improvvisamente diventati obsoleti, di fronte ad una cultura che ha mutato radicalmente i suoi linguaggi e le sue grammatiche. Gli uomini si trovano a vivere ormai in una città secolare; e le strutture di comunicazione della tradizione liturgica e catechetica non riescono più a trasmettere a questa nuova umanità il loro messaggio, il tesoro della memoria cristiana. La riforma della liturgia e della catechesi, iniziata per obbedire ai dettami del Vaticano II, si trova a dover essere attuata per motivi molto diversi: se non si lavora per la costruzione di un nuovo linguaggio, di nuove grammatiche celebrative e catechetiche, è l’identità cristiana stessa che non sarà più disponibile per questa nuova umanità urbana.

sabato 8 ottobre 2011

289 - INVITATI AL BANCHETTO DAL SIGNORE - 09 Ottobre 2011 – Domenica XXVIIIª Tempo Ordinario

(Isaia 25,6-10 Filippesi 4,12-14.19-20 Matteo 22,1-14)

Credere in Dio comporta assai più che coltivare certe espressioni religiose, per quanto solenni, senza però mai chiedersi se Dio non ci chieda altro. Il banchetto della parabola è immagine del Regno di Dio annunciato da Gesù e al quale si è tutti invitati. A noi è chiesto, in ogni momento, di scegliere.
La parabola del banchetto nuziale del figlio del re rivela un tratto stupendo del Figlio di Dio fatto uomo: quando egli era fra noi, visse e configurò le sue relazioni e i suoi incontri con gli uomini come una festa! In questa pagina di Matteo, in cui ai tratti originari della parabola proposta da Gesù sono aggiunte anche precisazioni dell’evangelista, si coglie un tono di bilancio e di senso dato da Gesù appunto alla sua opera: per lui venire fra noi e raggiungere gli uomini fu un andare a nozze, un fare nozze con loro, un considerarsi sposo dell’umanità. Si ricordino dai vangeli:
– la sua presenza a tante occasioni offertegli di convivialità;
– l’offrire lui stesso un banchetto (la moltiplicazione dei pani), quale cena di addio alle genti di Galilea;
– il concludere la sua esistenza terrena con il segno del convito pasquale, nel cenacolo.
Viene spontaneo richiamare che l’appuntamento centrale della comunità cristiana con il suo Signore esige di essere vissuto attorno alla mensa della Parola e dell’Eucaristia, da lui offerta e presieduta. E si avverte conseguentemente la necessità di alimentare alla sorgente evangelica la celebrazione e la partecipazione alla Messa. Specialmente da parte di chi vive nelle relazioni umane la ‘secolarizzazione’ dei momenti conviviali (come le ‘cene di lavoro’!), o la loro consumazione silenziosa e affrettata, da parte di un non commensale esterno, senza la gioia dell’amicizia, del tempo gratuitamente dato e accolto in reciprocità, del dialogo che nutre e dà solidità alle relazioni fra persone.
Preghiera - Nessuno, Gesù, è tagliato fuori dai disegni di salvezza del Padre. Per ognuno c’è un posto alla tavola del suo banchetto e quello che conta non è figurare tra i primi destinatari, tra quelli che sono stati chiamati a vivere la prima Alleanza. Ciò che risulta decisivo è accogliere l’invito, è lasciarsi trasformare nel profondo del cuore, è adeguare la propria esistenza alla proposta che ci viene rivolta.
Nessuno, Gesù, è escluso dalla gioia che il tuo Padre prepara per tutta l’umanità, ma ad ognuno di noi tocca rispondere personalmente alla sua offerta di grazia, mostrare di averla presa sul serio, indossando l’abito nuziale, seguendo i tuoi passi per diventare uomini nuovi e donne nuove, trasfigurati dall’amore.
La misericordia del Padre è smisurata: cattivi e buoni ricevono la tua Buona Notizia. Ad ognuno, tuttavia, scegliere se vale la pena investire ogni energia ed ogni risorsa pur di partecipare al mondo nuovo, alla sua gioia senza fine.

288 - PERCHÉ DA NOI IL CRISTIANESIMO È IN DIFFICOLTÀ, MENTRE ALTROVE FIUORISCE?

Sesto giorno: La questione di Dio morta in Occidente … vive altrove!

Per molti aspetti, vi è da restare stupiti se la questione di Dio, dopo il tragico percorso compiuto dall’Occidente, sia questione ancora viva. La martellante proposta di un umanesimo chiuso ed esclusivo avrebbe dovuto portare al declino di tutti i fini che trascendono la prosperità terrena dell’umanità, fino ad eliminare la stessa possibilità di un riferimento religioso. Così non sembra essere avvenuto, anche se effettivamente siamo in presenza di un nuovo sfondo che ha cambiato il peso, il posto, il significato
della religione nella nostra società.
Ma sarà opportuno osservare che la questione di Dio è certamente ben viva in altri contesti lontani dall’Occidente, ma su cui l’Occidente da secoli ha cercato di imporre la propria storia e la propria visione del mondo. Ed è certamente viva anche la questione del cristianesimo: di fronte alle frequenti diagnosi di regresso della fede cristiana e in generale di perdita di peso culturale e sociale delle religioni, Philip Jenkins (La terza Chiesa. Il cristianesimo nel XXI secolo, Fazi, Roma 2004; I nuovo volti del cristianesimo, Vita e Pensiero, Milano 2008) rileva con anglosassone freddezza documentaria che ciò che riguarda l’Occidente (con più precisione, l’Europa, anzi una parte dell’Europa) non riguarda il resto del pianeta. In Asia, in Africa e in parte nell’America del Sud, il cristianesimo sta vivendo una fase di espansione che lo rende la religione che presenta il maggior tasso di crescita nel mondo.
Possono essere sollevati parecchi interrogativi a simile valutazione, ma certamente gli studi proposti invitano a formulare con maggior cautela le ipotesi sul destino del cristianesimo nel suo senso universale e cattolico. In ogni caso questi studi pongono
la questione seria circa il problema della trasmissione del cristianesimo: soprattutto oggi l’assunzione del linguaggio evangelico nella sua essenzialità manifesta tutto il suo fascino, mentre appare faticosa e spesso inconcludente la ricerca, forse ossessiva, circa il modo di tradurlo nella complessità attuale. Non si tratta ovviamente di tornare al passato, quanto piuttosto di accogliere la domanda circa l’identità più autentica di quel Dio a cui l’uomo non può rinunciare, anche quell’uomo che vive in Occidente. Perché anche in Occidente la visione semplicemente secolare – la nuova religione dell’umanità – non appare così pervasiva e soprattutto così soddisfacente: in quella vigna eredita con l’uccisione del figlio, vi è ancora – e forse cresce – la nostalgia di Colui che è stato cacciato. Allora si dovrà venire incontro al desiderio di sentir narrare di Lui come Lógos-Amore, venuto comunque in questa vigna da cui fu scacciato, per offrirsi alla libertà degli uomini come un Dio che ama.
(Articolo di Gianni Ambrosio in Servizio della Parola n.429 pp.138-143 – Editrice Queriniana)

287 - PERCHÉ DA NOI IL CRISTIANESIMO È IN DIFFICOLTÀ, MENTRE ALTROVE FIUORISCE?

Quinto giorno: L’Umanità prende il posto di Dio

Può ancora essere illuminante un richiamo al filosofo Comte. Per il filosofo positivista l’‘Umanità’ prende il posto dell’‘antico Dio’. Così Comte può fare il verso alla frase di san Paolo di Atti 17, 28: «in essa – e cioè nell’Umanità che prende il posto di Dio – noi viviamo, ci muoviamo e siamo», essa è «il centro delle nostre affezioni» (Appello ai conservatori, 1855).
Se oggi appare superata – e certamente ridicola – una simile concezione, ciò non significa che lo scientismo o il pragmatismo o un certo laicismo non vadano sostanzialmente nella stessa direzione: al posto di Dio vi è l’uomo o ciò che l’uomo realizza con le sue mani, con la sua ragione, con le sue decisioni, con la sua autonomia. Così pure se oggi appare superata – ed anche raccapricciante – la fase delle grandi e terribili ‘narrazioni’ – dal socialismo comunista al nazi-fascismo, con i vari nazionalismi e razzismi –, ciò non significa che sia finita l’ideologia – sotto forme più banali, ma striscianti e ugualmente pervasive – che vuole l’autonomia totale e radicale dell’uomo. La stessa affermazione della cosiddetta laicità è spesso così fanatica nel voler cancellare i segni della memoria religiosa di un popolo da lasciar intendere che essa stessa pretende di ergersi come l’unica forma religiosa, adatta ai nostri tempi come per Comte l’umanità stessa doveva prendere il posto dell’antico Dio. Il primato della persona umana non è stato paurosamente negato solo dai totalitarismi, ma può essere negato anche da tutte quelle concezioni che rinchiudono l’uomo nella «gabbia d’acciaio», per usare l’espressione cara a M. Weber, che favoriscono la manipolazione dell’uomo o che disprezzano la vita nelle sue diverse espressioni. Persino lo sconvolgente gesto del suicidio di una persona viene presentato come «estremo scatto di volontà» e strumentalizzato per perorare inquietanti legislazioni che aprono all’eutanasia: così è avvenuto per il regista Mario Monicelli.
(Articolo di Gianni Ambrosio in Servizio della Parola n.429 pp.138-143 – Editrice Queriniana)

286 - PERCHÉ DA NOI IL CRISTIANESIMO È IN DIFFICOLTÀ, MENTRE ALTROVE FIUORISCE?

Quarto giorno: La negazione di Dio

La negazione di Dio – «uccidiamo il figlio e avremo noi l’eredità» – è avvenuta nel Novecento con una forza così dirompente quasi ovvia: la negazione di Dio è diventata, per così dire, la nuova religione, propagandata da una straordinaria persuasione ideologica. Non solo vivere come se Dio non ci fosse, non solo organizzare il mondo senza Dio e contro Dio, ma costruire già qui, nella vigna che è diventata nostra, il nostro paradiso. Pensiamo alle varie forme dell’ateismo comunista e del nazismo e a tutte le ideologie atee nate a partire dall’affermazione della ragione adulta e autonoma.
Emblematica è, ad esempio, la posizione del filosofo francese A. Comte (1798-1857) che proclama il superamento della questione di Dio in modo ben più radicale rispetto all’ateismo tradizionale. Infatti, al pari di Marx, egli vuole eliminare il senso religioso sradicandolo dal cuore dell’uomo, dichiarando superata l’attenzione alle domande che riguardano il destino e le origini dell’uomo e del mondo. Comte stesso confessa di voler superare l’ateismo, considerandolo una «emanazione insufficiente, poiché tende a prolungare indefinitamente lo stato metafisico, ricercando senza posa nuove soluzioni dei problemi teorici invece di eliminare, come radicalmente vane, tutte le ricerche accessibili» (Sistema di politica positiva). Dunque la forma tradizionale dell’ateismo non è capace, secondo Comte, di estirpare alla radice il senso religioso, in quanto conserva «i termini del problema di Dio, le abitudini di pensare e i modi di ragionare del credente» e quindi si inoltra in una via da cui è possibile ricadere di nuovo nell’ansia religiosa. Così l’uomo, con le sue domande ultime, con la sua ricerca di senso, scompare e lascia il posto al trionfo dell’oggetto, delle cose, verso cui si sente sempre più asservito (cfr. H. De Lubac, Il dramma dell’umanesimo ateo, Morcelliana, Brescia 1978, 113-130). L’ateismo assume allora connotati tali da diventare una vera e propria religione, con i suoi dogmi, con la sua ortodossia e con i suoi idoli, con i suoi sacerdoti: una religione di ‘salvezza’ terrena, semplicemente umana, a portata dell’uomo e opera dell’uomo. Questa religione immanente genera uno a uno tutti gli ingredienti delle dittature totalitarie: dalla religione della razza alla religione della patria, alla religione della classe sociale. Così la politica, la razza, lo stato, la scienza, l’economia sono al di sopra di tutto, sono al posto di Dio.
(Articolo di Gianni Ambrosio in Servizio della Parola n.429 pp.138-143 – Editrice Queriniana)

285 - PERCHÉ DA NOI IL CRISTIANESIMO È IN DIFFICOLTÀ, MENTRE ALTROVE FIUORISCE?

Terzo giorno: Dietro l’idea di autonomia

Il drammatico racconto della parabola dei vignaioli omicidi (Matteo 21,33-43) ci aiuta a comprendere la nostra vicenda storica e culturale. Possiamo prendere spunto da una illuminante pagina di R. Guardini riguardante la ‘ragione adulta’ dell’epoca moderna e la cosiddetta ‘autonomia’ dell’uomo moderno che, per molti versi, corrisponde alla volontà di «avere l’eredità», eliminando ogni rapporto con il padrone della vigna uccidendone il figlio. Scrive Guardini che «dietro l’idea di autonomia (vi è) una pretesa che non solo vuole fondare l’uomo in se stesso, ma attacca Dio. Ciò che essa afferma è che l’uomo, nel suo carattere etico, sia assoluto. Ma tale egli non è. Se ciò nonostante l’uomo mantiene la pretesa, ne deriva una solitudine interiore, là dove sensatamente si dovrebbe trovare una comunione, e appunto perciò uno sforzo eccessivo e spasmodico, che necessariamente nello sviluppo storico deve rovesciarsi nello scetticismo e nel nichilismo o nell’abbandono di sé in balia della violenza» (Etica, Morcelliana, Brescia 2001, p. 486).
È impossibile, data questa situazione, che la vigna produca uva buona: «attendevo che producesse uva, essa ha prodotto acini acerbi» (Isaia 5,4). Questi ‘acini acerbi’ prodotti dalla pretesa della ragione autonoma possono essere espressi in molti modi, tutti comunque incentrati sulla solitudine dell’uomo, sulla sua incapacità di relazione, sul venir meno della sua dignità. La perdita della relazione con il padrone della vigna – eliminato attraverso l’uccisione del figlio – apre la strada a ogni possibile manipolazione dell’uomo sull’uomo. Perso il punto di riferimento originario, vitale ed esistenziale, l’uomo ricade su se medesimo e decide di essere lui il padrone della vigna, coltivandola a suo piacimento e magari pensando di trasformarla in un paradiso a proprio uso e consumo. In balìa di se stesso, l’uomo afferma la sua volontà di potenza: nella tragica crisi della modernità – esplosa in piena evidenza nella potenza dell’ideologia –, scompare il senso della verità, si oscura il valore della persona, si estenua la stessa humanitas.
(Articolo di Gianni Ambrosio in Servizio della Parola n.429 pp.138-143 – Editrice Queriniana)

284 - PERCHÉ DA NOI IL CRISTIANESIMO È IN DIFFICOLTÀ,MENTRE ALTROVE FIUORISCE?

Secondo giorno: “Avremo noi l’eredità”

La risposta alla nostra domanda è certamente difficile. Possiamo lasciarci istruire da quell’affermazione dei servi che intendono uccidere il figlio del padrone della vigna: «Su, uccidiamolo, e avremo noi l’eredità» (Matteo 21,38). Mediante l’immagine della vigna, l’insegnamento di Gesù, in continuità con quello del profeta Isaia, ci dice la connessione intima di due verità: Dio si prende cura del suo popolo e il popolo deve corrispondere a questo amore di Dio con una vita buona e giusta.
La cura che Dio ha per noi esige che ciascuno di noi produca frutti di giustizia e di bene. Questo nesso è ben esplicitato nel vangelo di Giovanni: «Io sono la vite vera e il Padre mio è l’agricoltore. Ogni tralcio che in me non porta frutto, lo taglia, e ogni tralcio che porta frutto, lo pota perché porti più frutto (…). Come il tralcio non può portare frutto da se stesso se non rimane nella vite, così neanche voi se non rimanete in me (…) senza di me non potete far nulla» (Giovanni 15,1-5). Dunque, secondo la metafora così efficacemente illustrata da Gesù, la condizione indispensabile per produrre frutti è riconoscere il Padre ed essere uniti a Gesù, innestati in Lui e rimanere sempre in Lui. Solo in questo modo la linfa vitale che è in Gesù scorrerà anche in noi, e noi diventiamo fecondi di buone opere.
I servi della vigna hanno deciso di uccidere il figlio del padrone della vigna per prendere l’eredità: «avremo noi l’eredità». E quindi vogliono diventare padroni della vigna: l’uccisione del figlio comporta dunque l’eliminazione del padre. Solo così possono avere veramente l’eredità e diventare quindi padroni della vigna. Ma in questo modo la vigna produrrà ancora frutti buoni?
(Articolo di Gianni Ambrosio in Servizio della Parola n.429 pp.138-143 – Editrice Queriniana)

283 - PERCHÉ DA NOI IL CRISTIANESIMO È IN DIFFICOLTÀ, MENTRE ALTROVE FIUORISCE?

Primo giorno: Gli interrogativi

«Egli si aspettava giustizia ed ecco spargimento di sangue, attendeva rettitudine ed ecco grida di oppressi» (Isaia 5,7): perché la casa di Israele non corrisponde alla cura che Dio ha per la sua vigna? «Lo presero, lo cacciarono fuori della vigna e l’uccisero» (Mt 21,39): perché i servi della parabola, cui è stata affidata la bella vigna protetta da una siepe, con un suo frantoio e una sua torre, arrivano al punto di uccidere il figlio mandato dal padrone della vigna?
Gli interrogativi devono tenere presente il grande misterium iniquitatis. Ma vogliono soprattutto porre una questione più vicina a noi e alla nostra esperienza: perché oggi in Italia e in Europa la ‘vigna’ – in questo caso il cristianesimo, la vita cristiana – non sembra più produrre frutti? Con questa questione entriamo in scena noi, ciascuno di noi, la nostra comunità ecclesiale, la società in cui viviamo ed operiamo. Anche noi, certo, facciamo parte di quella lunga storia che è storia di salvezza, ma al cui interno troviamo tutta l’oscurità di quel misterium iniquitatis. Ma, pur tenendolo presente, possiamo e dobbiamo chiederci perché oggi il riferimento a Dio sembra essere così debole nelle società occidentali, come pure perché altrove il cristianesimo sembra vivere una stagione di primavera.
(Articolo di Gianni Ambrosio in Servizio della Parola n.429 pp.138-143 – Editrice Queriniana)

sabato 1 ottobre 2011

282 - IL SIGNORE DARÀ LA VIGNA AD ALTRI CONTADINI - 02 Ottobre 2011 – Domenica XXVIIª Tempo Ordinario

(Isaia 5,1-7 Filippesi 4,6-9 Matteo 21,33-43)

L’immagine della ‘vigna’ richiama la comunità alla sua responsabilità. Anche la Chiesa cristiana può vivere in se stessa il rischio del rifiuto, della non accoglienza e della ingratitudine. La ribellione, l’autonomia da Dio non sono atteggiamenti che alcuni hanno da sempre, rispetto ad altri che non li assumerebbero mai. La distanza da Dio è una fuga che si decide quando si sogna di far a meno di lui, quando si crede di vivere autonomamente!
La simbologia della vigna fa da riferimento anche per il testo evangelico di questa domenica. Proveniente dalla tradizione profetica dell’Antico Testamento – soprattutto dalla sua più celebre e stupenda pagina allegorica di Isaia 5,1-7 che si legge nella prima lettura di questa domenica – l’argomento della vita nella vigna è stato proposto proprio dal vangelo secondo Matteo attraverso altre due parabole: quella degli operai assunti per lavorare nella vigna a tutte le ore del giorno (cfr. Matteo 20,1-16 Vangelo della 25ª domenica del 18 Settembre) e quella dei due figli-fratelli, a cui il padre chiede di andare a lavorare nella vigna di famiglia (cfr. Matteo 21,28-32 pagina proclamata quale Vangelo nella 26ª domenica il 25 Settembre).
Per la terza domenica consecutiva, dunque, il primo evangelista ci guida nella «vigna del Signore», non tanto per vedere o gustare i frutti che vi si producono, quanto per venire a contatto con forme differenti di rapporto fra il proprietario, datore di lavoro, e coloro che vengono assunti per lavorare a farla fruttificare. Ben più che nelle altre due parabole, in quella di questa domenica la vicenda dei vignaioli è segnata in negativo da rivolta con omicidio e conseguente finale tragico. Il padrone della vigna si vede costretto ad allontanare i suoi operai e a sostituirli con altri più fedeli. Evidentemente, dentro la vicenda delineata dalla pagina evangelica si adombra una storia non solamente evocativa del tempo di Israele – cui si riferiva Gesù – bensì di esperienze sempre possibili, anche nella relazione attuale con Dio.
Forse è proprio perché si cercano oggi altri nomi e altri salvatori che non troviamo salvezza; sperimentando la delusione di chi ha confidato in persone e in ideologie impotenti. Anche oggi può essere difficile costruire la Chiesa perché noi, volutamente, diventiamo pietre di scarto perché parliamo di giustizia e badiamo solo ai nostri affari; parliamo di amore ai poveri, ma curiamo solo i nostri interessi. Il moloch del consumo tutto corrompe, tutto snatura, tutto deforma.
Se vogliamo lavorare nella vigna dobbiamo cercare le pietre di scarto … Quanti non sono in prima linea, quanti non possono mai decidere, quanti devono solo sottostare, quanti mancano di tutto, quanti non hanno mai sperimentato l’amore, quanti sognano e non vedono mai nulla; occorre soffrire per la furbizia, gioire per la trasparenza.
Preghiera - Mi è stata affidata questa vita ed io, Gesù, ho ritenuto di esserne non l’amministratore, ma il padrone. Così ho pensato che non avrei dovuto mai renderne conto davanti a Dio. L’ho considerata una proprietà di cui disporre secondo i miei gusti, così ne ho fatto un trampolino per il mio successo, per il mio potere, per il mio vantaggio, per il mio piacere … come se fosse solo mia!
Sono stato colmato di doni immeritati, Gesù, e ho creduto di esserne l’unico destinatario: risorse e qualità date solo a me, una ricchezza a mio esclusivo beneficio e non da condividere con tanti fratelli e sorelle.
Sempre pronto a ricevere qualcosa dalla tua bontà e dalla tua misericordia, non sono altrettanto disposto ad aprire le mie mani e ritardo il più possibile una verifica seria sul mio operato. Anzi, mi arrogo il diritto di respingere chi me lo ricorda, di giudicare le tue parole, di scegliere quelle che più mi aggradano.
Signore Gesù, apri una breccia nella mia coscienza!

281 - PERCHÉ PUÒ CAPITARE CHE I GIUSTI NON SIANO APERTI ALLA CONVERSIONE?

Per una pausa spirituale durante la XXVIª settimana

Se si osservano attentamente le dinamiche che contrassegnano il processo della conversione cristiana, ci si accorge che sovente le maggiori resistenze alla stessa conversione vengono da persone – preti, frati, suore e laici – che si ritengono giusti.
Attenzione! Raramente un uomo o una donna di Chiesa affermerà nei riguardi di se stesso di essere giusto. Quasi sempre, invece, professerà con estremo candore e anche pubblicamente di essere peccatore. Ma non bisogna credere troppo a queste affermazioni. Ad una semplice domanda che intende verificarle, ci si accorge che la persona intervistata – prima assolutamente convinta dei propri peccati – prova difficoltà ad identificarli o si rifugia in considerazioni assolutamente generiche e poco personali. Ci si trova davanti ad uno di quei classici casi di retorica ecclesiastica, che non solo non rende ragione della verità delle cose, ma risulta assolutamente nocivo per un sano cambiamento interiore e comportamentale.
Qual è, allora, la struttura mentale dei giusti? Che cosa è loro di ostacolo nel perseguire un serio cammino di conversione?
Si può ragionevolmente pensare che la genesi del sentirsi giusto sia addebitabile ad una sorta di affidamento che l’uomo fa alla sfera ideale del proprio io. Avviene un movimento strano. È come se l’uomo, per potersi dire compiutamente, per poter
essere soddisfatto del proprio io, affidasse alla sfera dell’idealità umana la propria esistenza personale. Detto in altri termini: io ci sono, io sono ok, solo se sono buono. Questo movimento – è ben noto – avviene già quando si è piccoli. Molte volte, infatti, sono gli stessi genitori che, anche inconsapevolmente, ricattano affettivamente i propri piccoli, dicendo loro che se vogliono veramente bene devono comportarsi secondo le regole dell’educazione e negano, quindi, il loro consenso-affetto ai figli quando questi si comportano male. Il bambino fin dall’inizio è sottoposto a questi messaggi e s’insinua in lui la convinzione che la sua esistenza è meritevole solo se è buona, che egli esiste solo se è utile. Solo, infatti, al soddisfacimento di queste condizioni potrà beneficiare dell’amore dei suoi. Altro che amore incondizionato!
Altro che amore gratuito! Sappiamo poi che il delicato tempo della pre-adolescenza e dell’adolescenza mette a fuoco tutte le contraddizioni di bene e di male che sono presenti all’interno di ogni ragazzo e ragazza. L’esito di questo tempo non è affatto
scontato. Si possono verificare risultati molto diversi tra loro. Si va, infatti, dai giovani che sono riusciti a fare unità dentro di loro, integrando l’accettazione dinamica delle proprie zone interiori di male con quelle del bene, ai giovani che invece hanno tenuto ben separate le due sfere e vivono una realtà esistenziale ‘schizzata’, ai giovani che hanno scelto di essere cinici ed arrivisti, ai giovani infine confusi e inconsapevoli.
I cosiddetti ‘giusti’ sono coloro che hanno tenuto separate le due sfere. Gli ‘schizzati’. Essi, infatti, hanno una percezione falsa di sé, perché nel momento in cui vanno alla propria sfera positiva, profondamente connotata dall’idealità dei valori, non si rendono conto che questa sfera appartiene sì a loro, ma non coincide con tutto se stessi. In quel momento essi sono realmente convinti di essere giusti o, in ogni caso, di essere persone per bene, migliori rispetto ai ladri, agli omicidi, ai pedofili. Questa falsa autoconsapevolezza li blocca nella loro crescita umana e nella capacità di fare unità in se stessi, non li pone in una ferma volontà di conversione permanente. Essi sono, secondo una bella e significativa espressione del compianto dom André Louf, «giusti incalliti». Non ci sono, infatti, soltanto i ben noti peccatori incalliti. Ci sono anche, e sono più pericolosi, i giusti incalliti. Sono quelli che in fin dei conti non si lasciano scalfire né tanto meno mettere in crisi da alcunché. Sono quelli che non prendono sul serio la loro debolezza, non la considerano come costitutiva della propria esistenza, rivelativa del fatto che essa – la debolezza appunto – può e deve diventare il luogo dell’invocazione di Dio, dell’incontro con la grazia perdonante di Dio. Anzi, quando si rendono conto della loro debolezza, vogliono con tutte le loro forze nasconderla e schiacciarla, molte volte con senso di vergogna, perché quella stessa debolezza li ha fatti scendere dal loro piedistallo interiore in cui si erano posti. Il loro presunto essere giusti fa così da filtro pesante sia nei confronti del rapporto con gli altri uomini, considerati sempre dall’alto in basso, sia nei confronti di Dio, reso muto ed impotente nel suo ruolo di Salvatore misericordioso. È una situazione davvero penosa. È come se si restasse soli con se stessi. Condannati all’adorazione di questo nuovo ed antico idolo: gli ideali.
Quando questo incantesimo viene rotto, quando gli ideali crollano sotto il peso delle situazioni della vita e delle crisi dell’età della vita umana, l’effetto è disastroso. Ma guai a voler subito ricostruire. Guai a voler rifare tutto alla stessa maniera. C’è da fermarsi, invece, sedendosi su quelle stesse macerie del fallimento degli ideali, attendendo con fiduciosa speranza l’intervento della grazia di Dio («ti basta la mia grazia»), l’unica che può esprimere una reale signoria dentro le nostre debolezze. E così la vita rifiorisce e la parola del Signore, che ha rivelato l’inseparabile rapporto – almeno in questo mondo – tra il grano buono e la zizzania, trova una sua effettuale verità. E il Dio della vita e di ogni vivente diventa il partner – oltre ogni moralismo
– di un uomo finalmente liberato dalla sua presunzione di autosalvezza.