Alla scuola della sapienza … impariamo a crescere in famiglia
Nel tempo in cui viviamo si assiste ad un inconfondibile fenomeno, che trova diverse modalità espressive a secondo del piano su cui si declina: lavorativo, scolastico, familiare, sociale o religioso. Sembra essere iniziata da tempo la paradossale stagione della “eclissi dei doveri” e della “luna piena dei diritti”. Il termine stesso ‘dovere’ è scomparso dal nostro vocabolario, resta come fossile di un’epoca da cui fortunatamente ci siamo liberati. Eppure il dovere esiste. L’eclissi nasconde, ma non ha il potere di annullare. Il dovere esiste anche là dove “rapina, violenza, liti e contese” sembrano averne indebolito il senso. Esiste alla maniera delle cose “forti” – scritte ed incise – ed inconfondibili – da “leggere speditamente”.
Il superamento dell’eclissi
Il concetto di dovere patisce oggi una forte riduzione alla sfera giuridica. Esso sembra non avere altri significati se non quelli legati al contratto sociale. “Devo! Altrimenti perdo i miei diritti”. Qualora i diritti fossero garantiti indipendentemente dai doveri, questi ultimi perderebbero il loro senso. Mentre i primi hanno una chiara radice nella ‘natura umana’ – vengono infatti indicati come diritti umani – i secondi raramente si erigono su solide fondamenta. Si tutelano i diritti, ma si nascondono i doveri, salvo richiamarli quando, dal punto di vista giuridico, non se ne può fare a meno. Ovviamente il ‘buon senso’ ne riconosce immediatamente la necessità, ma prova una certa resistenza ad attribuirgli l’enfasi con la quale, in altre circostanze, riveste facilmente i diritti.
Il superamento della crisi dei doveri non può che ripartire da una ricomprensione del loro rapporto con la legge, che perde la sua ‘forza’ proprio dal venir meno del ‘senso del dovere’. Ed ecco l’apporto dell’esperienza della fede. In Luca 17,5-10, il vangelo di domenica, è interessante che, alla sommesse richiesta dei discepoli di accrescere la loro fede, Gesù risponda con un esempio che rimanda al rapporto tra diritto e dovere, dischiudendo un nuovo modo di intendere il senso stesso del dovere. Il dover fare non scaturisce dal contratto, ma dall’orizzonte di gratuità nel quale la fede in Gesù ci inserisce: il fare senza utile. Non è il fare banalizzato – di fronte al quale non possiamo che sentirci inutili – ad essere la fonte del dovere, ma il fare che entra a pieno titolo nella logica del dono.
Il dovere all’interno del dinamismo del dono
Per comprendere come il dovere venga riqualificato all’interno dell’esperienza di fede è necessario scorgere il modo con cui il dono – da cui deriva la grammatica della fede – si interseca con l’icona della legge. La legge della Scrittura non è parificabile alla lex latina, da cui deriva la sfera propria del giuridico, ma al concetto biblico di Torah. Due esempi: 1) nell’episodio della Manna (Esodo 16) il dono precede chiaramente la legge. Il pane disceso dal cielo non è successivo a nessuna prescrizione. Appare esclusivamente frutto della gratuità di Dio, nella quale l’uomo è chiamato a ricomprendersi. Solo dopo, in un secondo momento, compare la legge: “non ne devi raccogliere più del necessario”. Il dovere si assesta sull’esperienza della sovrabbondanza, a partire dalla quale si ricomprende: se l’osservanza della legge non serve a far scaturire il dono, serve allora a custodirlo. 2) l’incipit con cui il Decalogo (Esodo 20) viene introdotto, fornendone la chiave di lettura, racconta l’esperienza della liberazione dalla schiavitù in Egitto. L’evento della libertà donata sta alla base di ogni prescrizione successiva. Il dovere, che scaturisce dal dono ricevuto e gustato, ne permette la tutela e la custodia. In questo modo i termini sono ribaltati. Nell’alveo dell’esperienza biblica, il senso del dovere consegue alla necessità di custodire ciò che si è ricevuto; è l’altra faccia del dono non dei diritti.
Il servo dell’esempio evangelico si mette al servizio della tavola senza reclami, non per contratto, ma per aver pregustato il compimento di una promessa. Nella fede sa di poter nutrire la sua fame, sa che già vive del dono, e allora non teme di servire. Il senso del dovere scaturisce imperioso da una promessa sottesa ad ogni azione. In questo modo il dono, già visibile nel carattere promettente con cui la vita si dischiude davanti a noi, fonda il senso del nostro fare.
Il senso cristiano del dovere attinge da qui la sua forza. Innanzitutto non teme il limite posto dalla legge, a cui il dovere non può sottrarsi. Sa che il limite posto al fare dell’uomo, torna a suo beneficio. Quando siamo nella condizione di poter fare tutto, senza limiti, in realtà siamo di fronte ad una chimera, che prima o poi si trasformerà in frustrazione. Noi siamo esseri limitati: l’illimitato ci fa esplodere, i limiti ci proteggono. La legge, nella logica della custodia del dono, ci ricorda che non possiamo andare oltre. Se siamo amministratori, non possiamo comportarci da padroni.
Tuttavia, il senso del dovere nell’ottica della fede non è un malum necessarium, ma una risposta feconda ad un alleanza scritta nel cuore. Inciso su quella ‘tavoletta’ interiore, da cui proviene “la forza di Dio”, il dovere ci ricorda continuamente di porci al servizio della vita, di non prestare il fianco alla rapina, al torto, alla malvagia convinzione secondo cui è meglio possedere che donare. Il dovere affonda le proprie radici in quelle regioni in cui attingono forza l’amore, la promessa, la spendibilità della vita e il lavoro paziente, senza la quale ogni cosa diviene, presto o tardi, un diritto a senso unico ed una arrogante pretesa.
Nella prospettiva cristiana la prima parola non è mai il ‘dovere’, ma non lo è neppure il ‘diritto’; la prima parola risuona con il suo potere fecondo all’interno della semantica del dono. Nel gratuito il dovere perde la sua ruvida scorza e lascia spazio ad un senso profondo, che corrisponde alla realtà stessa dell’uomo, il quale è creato ad immagine e somiglianza di Dio per puro dono. Il senso del dovere scaturisce, pertanto, da un debito di gratuità e da una promessa, non da un contratto. L’esperienza di fede diventa il nutrimento del giusto che con animo retto scopre di dover vivere in altro modo rispetto allo stolto. Senza il dovere il “diritto ne esce stravolto”.
Di fronte all’eclissi del dovere, vantaggiosa solo per un’etica indolore, la fede possiede risorse capaci di scongiurarne la scomparsa e di rilanciarne il senso profondo: non come mesto contrappeso dei diritti, ma come audace risposta alla sovrabbondanza del dono di Dio.
Nel tempo in cui viviamo si assiste ad un inconfondibile fenomeno, che trova diverse modalità espressive a secondo del piano su cui si declina: lavorativo, scolastico, familiare, sociale o religioso. Sembra essere iniziata da tempo la paradossale stagione della “eclissi dei doveri” e della “luna piena dei diritti”. Il termine stesso ‘dovere’ è scomparso dal nostro vocabolario, resta come fossile di un’epoca da cui fortunatamente ci siamo liberati. Eppure il dovere esiste. L’eclissi nasconde, ma non ha il potere di annullare. Il dovere esiste anche là dove “rapina, violenza, liti e contese” sembrano averne indebolito il senso. Esiste alla maniera delle cose “forti” – scritte ed incise – ed inconfondibili – da “leggere speditamente”.
Il superamento dell’eclissi
Il concetto di dovere patisce oggi una forte riduzione alla sfera giuridica. Esso sembra non avere altri significati se non quelli legati al contratto sociale. “Devo! Altrimenti perdo i miei diritti”. Qualora i diritti fossero garantiti indipendentemente dai doveri, questi ultimi perderebbero il loro senso. Mentre i primi hanno una chiara radice nella ‘natura umana’ – vengono infatti indicati come diritti umani – i secondi raramente si erigono su solide fondamenta. Si tutelano i diritti, ma si nascondono i doveri, salvo richiamarli quando, dal punto di vista giuridico, non se ne può fare a meno. Ovviamente il ‘buon senso’ ne riconosce immediatamente la necessità, ma prova una certa resistenza ad attribuirgli l’enfasi con la quale, in altre circostanze, riveste facilmente i diritti.
Il superamento della crisi dei doveri non può che ripartire da una ricomprensione del loro rapporto con la legge, che perde la sua ‘forza’ proprio dal venir meno del ‘senso del dovere’. Ed ecco l’apporto dell’esperienza della fede. In Luca 17,5-10, il vangelo di domenica, è interessante che, alla sommesse richiesta dei discepoli di accrescere la loro fede, Gesù risponda con un esempio che rimanda al rapporto tra diritto e dovere, dischiudendo un nuovo modo di intendere il senso stesso del dovere. Il dover fare non scaturisce dal contratto, ma dall’orizzonte di gratuità nel quale la fede in Gesù ci inserisce: il fare senza utile. Non è il fare banalizzato – di fronte al quale non possiamo che sentirci inutili – ad essere la fonte del dovere, ma il fare che entra a pieno titolo nella logica del dono.
Il dovere all’interno del dinamismo del dono
Per comprendere come il dovere venga riqualificato all’interno dell’esperienza di fede è necessario scorgere il modo con cui il dono – da cui deriva la grammatica della fede – si interseca con l’icona della legge. La legge della Scrittura non è parificabile alla lex latina, da cui deriva la sfera propria del giuridico, ma al concetto biblico di Torah. Due esempi: 1) nell’episodio della Manna (Esodo 16) il dono precede chiaramente la legge. Il pane disceso dal cielo non è successivo a nessuna prescrizione. Appare esclusivamente frutto della gratuità di Dio, nella quale l’uomo è chiamato a ricomprendersi. Solo dopo, in un secondo momento, compare la legge: “non ne devi raccogliere più del necessario”. Il dovere si assesta sull’esperienza della sovrabbondanza, a partire dalla quale si ricomprende: se l’osservanza della legge non serve a far scaturire il dono, serve allora a custodirlo. 2) l’incipit con cui il Decalogo (Esodo 20) viene introdotto, fornendone la chiave di lettura, racconta l’esperienza della liberazione dalla schiavitù in Egitto. L’evento della libertà donata sta alla base di ogni prescrizione successiva. Il dovere, che scaturisce dal dono ricevuto e gustato, ne permette la tutela e la custodia. In questo modo i termini sono ribaltati. Nell’alveo dell’esperienza biblica, il senso del dovere consegue alla necessità di custodire ciò che si è ricevuto; è l’altra faccia del dono non dei diritti.
Il servo dell’esempio evangelico si mette al servizio della tavola senza reclami, non per contratto, ma per aver pregustato il compimento di una promessa. Nella fede sa di poter nutrire la sua fame, sa che già vive del dono, e allora non teme di servire. Il senso del dovere scaturisce imperioso da una promessa sottesa ad ogni azione. In questo modo il dono, già visibile nel carattere promettente con cui la vita si dischiude davanti a noi, fonda il senso del nostro fare.
Il senso cristiano del dovere attinge da qui la sua forza. Innanzitutto non teme il limite posto dalla legge, a cui il dovere non può sottrarsi. Sa che il limite posto al fare dell’uomo, torna a suo beneficio. Quando siamo nella condizione di poter fare tutto, senza limiti, in realtà siamo di fronte ad una chimera, che prima o poi si trasformerà in frustrazione. Noi siamo esseri limitati: l’illimitato ci fa esplodere, i limiti ci proteggono. La legge, nella logica della custodia del dono, ci ricorda che non possiamo andare oltre. Se siamo amministratori, non possiamo comportarci da padroni.
Tuttavia, il senso del dovere nell’ottica della fede non è un malum necessarium, ma una risposta feconda ad un alleanza scritta nel cuore. Inciso su quella ‘tavoletta’ interiore, da cui proviene “la forza di Dio”, il dovere ci ricorda continuamente di porci al servizio della vita, di non prestare il fianco alla rapina, al torto, alla malvagia convinzione secondo cui è meglio possedere che donare. Il dovere affonda le proprie radici in quelle regioni in cui attingono forza l’amore, la promessa, la spendibilità della vita e il lavoro paziente, senza la quale ogni cosa diviene, presto o tardi, un diritto a senso unico ed una arrogante pretesa.
Nella prospettiva cristiana la prima parola non è mai il ‘dovere’, ma non lo è neppure il ‘diritto’; la prima parola risuona con il suo potere fecondo all’interno della semantica del dono. Nel gratuito il dovere perde la sua ruvida scorza e lascia spazio ad un senso profondo, che corrisponde alla realtà stessa dell’uomo, il quale è creato ad immagine e somiglianza di Dio per puro dono. Il senso del dovere scaturisce, pertanto, da un debito di gratuità e da una promessa, non da un contratto. L’esperienza di fede diventa il nutrimento del giusto che con animo retto scopre di dover vivere in altro modo rispetto allo stolto. Senza il dovere il “diritto ne esce stravolto”.
Di fronte all’eclissi del dovere, vantaggiosa solo per un’etica indolore, la fede possiede risorse capaci di scongiurarne la scomparsa e di rilanciarne il senso profondo: non come mesto contrappeso dei diritti, ma come audace risposta alla sovrabbondanza del dono di Dio.
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