Continuiamo la nostra riflessione sull’immagine del seminatore. Se fosse un contadino reale, quello della parabola sarebbe quantomeno imprudente a voler seminare in qualsiasi tipo di terreno, addirittura tra le pietre o sulla strada. Ma il Dio seminatore getta i suoi semi dappertutto, perché ha fiducia e scommette che anche l’aridità possa diventare feconda.
Prima ancora che puntare l’attenzione sul terreno, l’attenzione va posta sul contadino che si appresta per la semina: egli non si preoccupa di selezionare prima i destinatari della sua opera, ma vuole rimandare la sua valutazione a partire dai frutti. Fuor di metafora: Dio dimostra ancora una volta di ragionare ‘da Dio’ per la fiducia che ripone in noi uomini, per la lungimiranza che nella sua onniscienza coglie il mistero di una vita, di una libertà che potrà dire sì o no, che potrà rispondere all’invito o invece rifiutare, che potrà accogliere la Parola in tempi e modi umanamente non prevedibili o comprensibili.
Se la parabola evangelica mostra il seminatore che non sceglie prima il terreno è perché Dio fa udire la sua voce nella varietà di modi e tempi che il suo disegno provvidente dispone; fa udire la sua voce a prescindere dalla risposta che ne seguirà; fa udire la sua voce perché, come la pioggia e la neve, sa che non ritornerà senza effetto. Ecco l’immagine di Dio che scaturisce dalla parabola, per noi di grande incoraggiamento: un Padre che ripone la fiducia nei figli, anche quando fosse umanamente azzardata; un Padre che ha la speranza che la Parola donata potrà portare prima o poi frutto, ora nella fecondità del trenta, ora del sessanta, ora del cento per uno; un Padre che non si stanca di seminare, che sa aspettare, proprio come il Padre misericordioso dell’altra parabola che attende amorevolmente il ritorno del proprio figlio, perché i tempi umani non sono il tempo di Dio.
Beati i vostri orecchi perché ascoltano. Dopo aver contemplato l’immagine del Dio seminatore, ora va sollecitato il terreno perché accolga la Parola che viene seminata. La beatitudine che titola questo paragrafo è simmetrica, nel brano evangelico, alla drammatica possibilità che risiede nella libertà umana di chiudersi alla voce di Dio: «Guardando non vedono, udendo non ascoltano e non comprendono». È il cuore indurito e insensibile, che ritiene di non aver bisogno di quella Parola che illumina la vita, che pensa di ascoltarla ma poi la addomestica a proprio uso e consumo, che ne apprezza il valore ma poi non sa compiere quelle scelte più decise e radicali che essa richiede. È un cuore a volte più superbo che distratto, che pensa di bastare a se stesso e di poter decidere del proprio destino senza Dio; forse un cuore legato a questa o quella pratica religiosa, ma in fondo radicalmente autosufficiente. È severa la profezia di Isaia che Gesù cita: quel cuore insensibile non vede, non ascolta, non comprende e non si converte, così che Dio, rispettando la sua libertà, non può salvarlo.
Gli occhi che vedono e gli orecchi che ascoltano, destinatari della beatitudine di Gesù, sono invece coloro che accolgono la Parola perché sanno di averne bisogno, perché sono coscienti di non potersi salvare da soli, perché sperimentano che in quell’ascolto c’è la piena realizzazione della loro vita. Sarebbe improprio e un po’ manicheo ritenere che alcuni rappresentino il terreno buono e altri quello infecondo, in quanto ciascuno di noi è insieme e l’uno e l’altro nelle varie situazioni di vita. Non è difficile riconoscersi in tutti i tipi di terreno che la parabola descrive: nella strada che si espone alle tentazioni che allontanano da Dio; nel campo sassoso che non ha la perseveranza di affidarsi a lui nella prova; nei rovi degli inganni che promettono gioia e realizzazione e invece producono solo amarezza; infine nel terreno fecondo di chi accoglie Dio nella fede e porta frutto, di chi pur nella prova sperimenta la gioia che la Parola produce. A questo punto si possono richiamare le varie modalità di ascolto della parola di Dio e di lettura della Bibbia: da quella liturgica a quella personale, dalla lectio divina comunitaria allo studio biblico per tutti i fedeli.
I frutti della semina. Nell’ottica pastorale ed educativa ci si può legittimamente attendere di trovare il frutto dei semi gettati. È spesso questo il desiderio, se non l’apprensione, di genitori e catechisti quando desiderano vedere in tempi più o meno brevi i risultati della propria azione formativa. Ma il Dio seminatore sa attendere con fiducia il frutto e manda il seme della sua Parola gratuitamente e in abbondanza. Questa fiducia e capacità di attesa è propria di ogni educatore, che non ha timore di seminare, a volte contro ogni evidenza, nella coscienza che i frutti della formazione della coscienza non sono legati a logiche di profitto aziendale, ma seguono tempi che sono quelli di Dio e quelli della libertà e della maturazione umana. L’importante è non stancarsi di seminare.
Prima ancora che puntare l’attenzione sul terreno, l’attenzione va posta sul contadino che si appresta per la semina: egli non si preoccupa di selezionare prima i destinatari della sua opera, ma vuole rimandare la sua valutazione a partire dai frutti. Fuor di metafora: Dio dimostra ancora una volta di ragionare ‘da Dio’ per la fiducia che ripone in noi uomini, per la lungimiranza che nella sua onniscienza coglie il mistero di una vita, di una libertà che potrà dire sì o no, che potrà rispondere all’invito o invece rifiutare, che potrà accogliere la Parola in tempi e modi umanamente non prevedibili o comprensibili.
Se la parabola evangelica mostra il seminatore che non sceglie prima il terreno è perché Dio fa udire la sua voce nella varietà di modi e tempi che il suo disegno provvidente dispone; fa udire la sua voce a prescindere dalla risposta che ne seguirà; fa udire la sua voce perché, come la pioggia e la neve, sa che non ritornerà senza effetto. Ecco l’immagine di Dio che scaturisce dalla parabola, per noi di grande incoraggiamento: un Padre che ripone la fiducia nei figli, anche quando fosse umanamente azzardata; un Padre che ha la speranza che la Parola donata potrà portare prima o poi frutto, ora nella fecondità del trenta, ora del sessanta, ora del cento per uno; un Padre che non si stanca di seminare, che sa aspettare, proprio come il Padre misericordioso dell’altra parabola che attende amorevolmente il ritorno del proprio figlio, perché i tempi umani non sono il tempo di Dio.
Beati i vostri orecchi perché ascoltano. Dopo aver contemplato l’immagine del Dio seminatore, ora va sollecitato il terreno perché accolga la Parola che viene seminata. La beatitudine che titola questo paragrafo è simmetrica, nel brano evangelico, alla drammatica possibilità che risiede nella libertà umana di chiudersi alla voce di Dio: «Guardando non vedono, udendo non ascoltano e non comprendono». È il cuore indurito e insensibile, che ritiene di non aver bisogno di quella Parola che illumina la vita, che pensa di ascoltarla ma poi la addomestica a proprio uso e consumo, che ne apprezza il valore ma poi non sa compiere quelle scelte più decise e radicali che essa richiede. È un cuore a volte più superbo che distratto, che pensa di bastare a se stesso e di poter decidere del proprio destino senza Dio; forse un cuore legato a questa o quella pratica religiosa, ma in fondo radicalmente autosufficiente. È severa la profezia di Isaia che Gesù cita: quel cuore insensibile non vede, non ascolta, non comprende e non si converte, così che Dio, rispettando la sua libertà, non può salvarlo.
Gli occhi che vedono e gli orecchi che ascoltano, destinatari della beatitudine di Gesù, sono invece coloro che accolgono la Parola perché sanno di averne bisogno, perché sono coscienti di non potersi salvare da soli, perché sperimentano che in quell’ascolto c’è la piena realizzazione della loro vita. Sarebbe improprio e un po’ manicheo ritenere che alcuni rappresentino il terreno buono e altri quello infecondo, in quanto ciascuno di noi è insieme e l’uno e l’altro nelle varie situazioni di vita. Non è difficile riconoscersi in tutti i tipi di terreno che la parabola descrive: nella strada che si espone alle tentazioni che allontanano da Dio; nel campo sassoso che non ha la perseveranza di affidarsi a lui nella prova; nei rovi degli inganni che promettono gioia e realizzazione e invece producono solo amarezza; infine nel terreno fecondo di chi accoglie Dio nella fede e porta frutto, di chi pur nella prova sperimenta la gioia che la Parola produce. A questo punto si possono richiamare le varie modalità di ascolto della parola di Dio e di lettura della Bibbia: da quella liturgica a quella personale, dalla lectio divina comunitaria allo studio biblico per tutti i fedeli.
I frutti della semina. Nell’ottica pastorale ed educativa ci si può legittimamente attendere di trovare il frutto dei semi gettati. È spesso questo il desiderio, se non l’apprensione, di genitori e catechisti quando desiderano vedere in tempi più o meno brevi i risultati della propria azione formativa. Ma il Dio seminatore sa attendere con fiducia il frutto e manda il seme della sua Parola gratuitamente e in abbondanza. Questa fiducia e capacità di attesa è propria di ogni educatore, che non ha timore di seminare, a volte contro ogni evidenza, nella coscienza che i frutti della formazione della coscienza non sono legati a logiche di profitto aziendale, ma seguono tempi che sono quelli di Dio e quelli della libertà e della maturazione umana. L’importante è non stancarsi di seminare.
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