sabato 1 settembre 2012

423 - LA FEDE È UNA SCELTA

Per una pausa spirituale durante la XXIª Settimana del Tempo ordinario

Per i cristiani la fede è il nome della relazione che, mediante l’azione del suo Spirito, il Crocifisso risorto rende possibile in ogni tempo con lui. Credere è possibile a condizione di corrispondere alla sua offerta, nell’impegno della nostra libertà. Sotto questo aspetto, l’esperienza della fede non può che essere soggettiva, cioè calibrata sulla storia personale di ciascuno. Come non esistono due storie di amore uguali, così la decisione di credere assume in ciascuno tratti originali, come ben si vede nella straordinaria ricchezza delle biografie della santità.
Allo stesso tempo vale la pena almeno suggerire come la proposta di Gesù venga ad incontrare il dinamismo fondamentale della nostra libertà. La convinzione di questo approfondimento è che, per diventare credenti, si debba prendere sul serio la nostra umanità. Vi sono infatti alcune virtù della libertà – alcune condizioni affinché la libertà possa dispiegarsi senza mentire a se stessa – che valgono come requisiti per lasciarsi afferrare da Cristo. Due in particolare: a) la disponibilità a lasciarsi incontrare e b) la pratica della giustizia.
a) L’identità di ciascuno di noi prende forma nella trama di un riconoscimento. Dalla ricerca psicologica è stato ormai acclarato che l’ideale monologico è una tentazione pericolosa perché disumanizzante: pensare di venire a capo della propria libertà isolandosi dalla relazione significa tradire anzitutto se stessi. L’ideale autarchico viene smascherato come un clamoroso inganno, e la diffidenza come una riserva che isterilisce la vita. Umile dunque è la libertà che accetta di lasciarsi indicare da altri la direzione nella quale spendersi, mettendo in conto di non differire la propria implicazione, rimanendo “alla finestra”. La relazione è il luogo dove la libertà può scoprire la sua verità, perché la libertà ha una struttura estroversa: è in cerca di un legame che non la sopprima, ma la custodisca nella sua unicità.
b) Se il compimento della libertà è sospeso al destino delle relazioni, si profila una meta urgente e vincolante per la nostra umanità: custodire le relazioni nella giustizia. In termini tecnici è la “regola d’oro”. Possiamo tradurla così: per quanto dipende da me, voglio impegnare tutto di me per far essere l’altro come altro, offrendo un incontro che restituisca all’altro la dignità della sua libertà, fosse anche sul punto di terminare la sua esistenza; mantenendo certo la consapevolezza di non poter mai salvare (cioè detenere l’origine) della vita di altri, ma di poter condividere l’avventura misteriosa della vita (è la fraternità!). La forma simbolicamente più alta di questo atteggiamento è la generazione di un figlio, come atto che si estende fino al rischioso compito dell’educazione.
Chi si dispone a vivere così realizza anticipatamente quella speranza e quella carità che definiscono il singolare di Gesù. Infatti, chiunque entri nella vita cogliendola come un’opportunità buona per fare il bene (di contro abbiamo lo scoraggiamento e la disperazione, come anche la disposizione narcisistica e predatoria), anche se magari non esplicita il suo riferimento a Dio, professa fiducia nella verità buona dell’Origine (chiudendo, tra l’altro, le pratiche di risarcimento che rendono ardua l’accettazione di sé). Il brano di Mt 25,31-46 non offre un’alternativa solidaristica alla pratica della fede; piuttosto mette in scena la possibilità universale della fede proprio in ragione della sua forma cristologica. Ciò che soltanto i cristiani credono – che Dio in Gesù è colui che si offre per noi – è principio di una salvezza a portata di tutti: di tutti coloro che sono disposti ad amare, anche in perdita. In quali direzioni fondamentali viene orientata (convertita) la libertà di coloro che si lasciano incontrare da Cristo?

 1) Nel vocabolario paolino, cristiano è colui che è conformato a Cristo (Rm 8,29; Fil 3,10); che porta la sua immagine (1 Cor 15,49); che si riveste di Cristo (Rm 13,14; Gal 3,27; cfr. Col 3,10; Ef 4,24). “Vivere di fede” non designa dunque un vago riferimento ideale, quanto piuttosto una confessione determinata («Gesù è il Signore», Rm 14,9; Fil 2,11; Rm 10,9) ed una appartenenza totalizzante: «voi siete di Cristo» (1 Cor 3,23; 2 Cor 10,7; Gal 3,29; Rm 8,9; cfr. la metafora del sigillo: 2 Cor 1,22; Ef 1,13; 4,30). Il tema dell’inabitazione (Ef 3,17 e soprattutto Gal 2,20; cfr. Gal 4,19) ribadisce la radicalità di un legame nel quale l’identità singolare non viene dissolta, ma elevata ad una dignità inaudita: quella filiale. Il cristiano vive nella tensione – non spasmodica, ma amorosa – di conquistare colui dal quale è stato conquistato (Fil 3,7-12; cfr. 1 Cor 13,12), nella logica della corrispondenza ad una possibilità che gratuitamente ci anticipa (poiché: Ef 1,3; Col 1,15-21; allora: 2 Cor 5,17; Rm 6,11; 1 Cor 1,30). Essere «di Cristo» (cfr. 1 Cor 1,23; 6,15; Gal 5,24) comporta un decentramento da se stessi, persino un esproprio (cfr. Gal 2,20) che non è alienante, perché Gesù non è soltanto «vero uomo», ma “l’uomo vero”, ovvero l’uomo nuovo (cfr. Ef 4,24; Col 3,10; 1 Cor 15,47; Rm 5,14). Se la grazia della creazione reca la ferita della disobbedienza (cfr. Gen 3), la creazione nuova e definitiva è cominciata nell’obbedienza di Gesù ed è in gestazione nella nostra libertà sorretta dal suo Spirito. Per educarci a questo abbandono – da non confondere con la remissività e l’inattività parassitaria – la palestra privilegiata è la preghiera, che ci rende certi della nostra dignità filiale (cfr. Mt 6,9), abilitandoci a vivere – nella buona e nella cattiva sorte – alla sua Presenza (cfr. Mt 6,25-34).
2) Facendo eco alla testimonianza evangelica (cfr. Gv 8,32-36), Paolo annuncia che chi si lascia conquistare da Cristo diviene finalmente libero (cfr. Gal 5,13), perché nulla può contro il suo amore per noi (cfr. Rm 8,31-39). In particolare, la libertà che ci viene da Cristo spezza i ceppi della paura che sempre attanaglia l’amore. Infatti, siccome amare costa, chi si arrischia nell’amore viene assalito dalla paura di incappare non soltanto in uno sbilancio (tra ciò che riceve e ciò che impegna di sé), ma addirittura di ridursi sul lastrico (l’eventualità di perdersi). I vangeli ci offrono due quadretti deliziosi del superamento di questa paura: la posa scandalosa del Maestro che si atteggia nelle mansioni dello schiavo (cfr. Gv 13,3-17); e l’obolo della vedova (cfr. Mc 12,41-44). Cosa voglia dire mettere la propria vita a servizio non può essere determinato una volta per tutte, né può essere circoscritto ad un’unica modalità. Tutte le vocazioni, però, sono accomunate da una ‘legge’, che, di primo acchito, fa impietrire: «Chi cercherà di salvare la propria vita la perderà, chi invece la perde la salverà» (Lc 17,33). L’esistenza spesa a difendersi è una vita buttata; l’esistenza vissuta nello stile di una restituzione lieta è una vita affidata a colui che rende degno di Dio ogni frammento di generosità.

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