Per una pausa spirituale durante la XXIIIª Settimana del Tempo ordinario
Già nelle antiche fonti liturgiche il gesto dell’Effatà è conosciuto nei riti battesimali associato particolarmente all’ultimo esorcismo sugli eletti. Ambrogio lo chiama apertio aurium: «Che cosa abbiamo fatto sabato? Un’apertura (apertio) evidentemente. Quali misteri sono stati celebrati nell’apertura quando il sacerdote ti ha toccato le orecchie e il naso?» (De sacramentis 1,2-3). Il gesto, che riguardava anche le narici, si poneva esplicitamente in linea con una precisa azione di Gesù e, d’altra parte, trovava nella ritualità iniziatica la sua nuova collocazione. La mistagogia di Ambrogio cerca di mantenere questo ponte tra l’evento narrato in Mc 7,31-37, dove Gesù compie un atto di guarigione nei confronti di un sordomuto, e l’oggi dei catecumeni chiamati alla liberazione dal male e all’accoglienza della nuova vita.
Il Rito per l’Iniziazione Cristiana degli Adulti (RICA) e il Rito del Battesimo dei Bambini (RBB), scaturiti dalla Riforma liturgica conciliare, per una maggiore aderenza all’episodio evangelico, non contemplano il gesto di toccare le narici e prevedono, invece, il riferimento alla bocca. Il RICA allude alla guarigione operata dal Signore più esplicitamente mettendo in bocca a colui che presiede le stesse parole di Cristo, ampliate dal nuovo significato («Effatà, cioè: Apriti, perché tu possa professare la tua fede a lode e gloria di Dio», 202), il RBB vi allude in modo più velato tralasciando le parole di Gesù e utilizzando la forma dell’auspicio («Il Signore Gesù, che fece udire i sordi e parlare i muti, ti conceda di ascoltare presto la sua parola, e di professare la tua fede, a lode e gloria di Dio Padre», 74). In entrambi i casi, viene motivato il gesto con il contenuto di fede, in maniera sintetica per gli adulti dove l’apertura degli organi dell’udito e della parola è finalizzata alla professione di fede, e in maniera più estesa per i bambini dove, dopo aver evocato l’episodio evangelico e in particolare l’espressione di stupore della folla (Mc 7,37), si evidenzia l’antitesi tra la sordità e l’afasia del sordomuto e l’ascolto della parola di Dio e la professione di fede da parte del credente. Inoltre, mentre nel RICA il rito dell’Effatà è collocato tra gli elementi preparatori ai sacramenti dell’iniziazione, nel RBB è posto tra le azioni successive al battesimo.
Affine a questo gesto non si può sottacere quanto avviene nel Rito di ammissione al catecumenato (RICA 83-87): colui che presiede, i catechisti e i garanti tracciano sulla fronte dei candidati un segno di croce. Successivamente, seppure in via facoltativa, il segno di croce può essere tracciato sui sensi: sugli orecchi «per ascoltare la voce del Signore», sugli occhi «per vedere lo splendore del volto di Dio», sulla bocca «per rispondere alla parola di Dio», sul petto «perché Cristo abiti per mezzo della fede nei vostri cuori» e sulle spalle «per sostenere il giogo soave di Cristo».
Il gioco simbolico che emerge dall’analisi rituale aiuta a comprendere la profonda unità tra dentro e fuori, corpo e spirito. Il soggetto è chiamato a vivere il dono della fede non al livello dell’intenzione o del puro afflato interiore, ma nella totalità di alcune azioni basilari: ascoltare e parlare, recepire una parola proclamata e confessare con la voce la propria fede. Il suono, emanato e ricevuto, non è dunque innocuo per la dinamica della fede: non si crede infatti a ciò cha già si sa, ma si dà il proprio assenso a Colui che fa risuonare la sua inconfondibile parola hic et nunc. Non soltanto l’udito e il linguaggio sono rilevanti in questo segmento rituale, ma anche il tatto: esso esprime prossimità, rimuove le distanze tra i corpi e, soprattutto nel nostro caso, trasmette energia nuova al corpo che accoglie il gesto. Si tratta di ‘aprire’ l’uomo che non può rimanere chiuso e isolato nei confronti dei fratelli e di Dio; contro ogni astrazione il rito iscrive nella persona la convinzione che Dio è forza che risana e rinnova nel corpo e nell’intimo. Non questo senza quello. Siamo nella prospettiva del passaggio tra morte e vita, che ogni rito iniziatico comporta: il battezzato è chiamato a passare decisamente alla vita e a non essere un morto che cammina, incapace di comunicazione, di ascolto docile, di parola sincera, di dialogo cordiale. L’Effatà, allora, è un rito promettente poiché si apre al futuro e supera ogni nostalgia di morte.
Contrariamente a quanto avveniva nella “Estrema Unzione” del Rituale tridentino, nell’Effatà gli organi di senso non vengono toccati quali sedi di eventuali azioni malvagie, ma quali possibilità concrete di incontrare la salvezza di Dio. La parola e il gesto ‘toccante’ del presidente concorrono a stabilire una possibilità inedita dove la persona si lascia plasmare dalla parola che ascolta e interviene da protagonista nella professione di fede e nella lode.
Evidentemente anche l’Effatà domanda ai celebranti, pastori e fedeli, una maggiore consapevolezza del valore del corpo nell’opera della salvezza e nella liturgia. La fede, infatti, passa in primis attraverso un corpo toccato da una Parola reale, e non metaforica, e si sostiene grazie a continue professioni di fede all’interno della comunità di credenti. Mani, bocca e orecchi diventano, così, organi della vita nuova in Cristo nell’inizio simbolico affidato al rito che sancisce il primato della grazia di Cristo e nella testimonianza quotidiana del dono ricevuto.
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