La domanda: Chi è Gesù? dà unità e dinamismo a tutta la prima parte del vangelo di Marco: si incontra per la prima volta nella guarigione di un indemoniato, nella giornata tipo di Cafarnao (1,27); viene ripresa nelle controversie con i capi dei giudei (2,7); risuona sulla bocca dei discepoli nel miracolo della «tempesta sedata» (4,41). Il momento culminante dell’inchiesta sull’identità di Gesù si ha nell’episodio di Cesarea di Filippo, che costituisce lo spartiacque del vangelo. La confessione della vera identità di Gesù è riservata ai discepoli, che sono portati a riconoscere chi si nasconde nella persona del loro Maestro da una serie di segni che culminano nell’episodio di Gesù che cammina sulle acque del lago (6,50: «Coraggio, sono io, non abbiate paura!»). L’affermazione «Io sono» nell’AT è riservata solo a Dio (6,45-52). La confessione dei discepoli non è solo una deduzione legata a quanto hanno visto e udito, è una specie di guarigione dal torpore dei sensi, espresso simbolicamente da due miracoli che precedono questo momento: la guarigione di un sordomuto (7,32-35) e la guarigione del cieco di Betsaida (8,22-26). Gesù accetterà il titolo di Messia, ma d’ora in avanti cercherà di chiarire in che senso sia Messia. I discepoli devono capire e accettare che il messianismo di Gesù deve passare attraverso la sofferenza e la morte.
Gesù si era sempre preoccupato di mantenere nascosta la sua vera identità, ora interroga i discepoli circa l’opinione della gente e la loro propria opinione nei suoi riguardi. Questo significa che siamo a una svolta importante del vangelo. I discepoli, rispondendo alla domanda di Gesù, riportano i pareri della gente: «Giovanni il Battista; altri dicono Elia e altri uno dei profeti» (v. 28). Da queste risposte si evince che la gente, nonostante lo stupore e l’ammirazione per i poteri straordinari manifestati dal rabbî di Nazareth, è rimasta nell’indeterminatezza e nell’indecisione, non è arrivata a riconoscere Gesù per quello che veramente è. Gesù personalizza la domanda, e Pietro esprime la convinzione che lui e i discepoli si sono fatti: «Tu sei il Cristo» (v. 29). Resta però da precisare che cosa i discepoli intendano per «Messia»: da una parte, la professione di fede in Gesù-Messia indica che i discepoli si sono finalmente decisi per lui, hanno riconosciuto nel rabbî di Nazareth il Salvatore promesso da Dio e mandato a instaurare il regno; d’altra parte, non si può escludere che Pietro e i discepoli siano ancora nella linea dell’attesa messianica coeva, rivolta verso un liberatore politico, un glorioso re nazionale; in questo senso, la loro fede deve essere ancora approfondita e purificata. Proprio per questo Gesù proibisce loro di manifestare la sua vera identità alla gente (v. 30), vuole cioè evitare che si dia un senso sbagliato alla sua missione.
Gesù, dopo la confessione di Pietro, cerca di far capire ai discepoli la natura del suo messianismo. Non sarà un messia potente e glorioso, ma un messia che donerà la salvezza passando attraverso la sofferenza e la morte (v. 31). Pietro, però, non capisce, si scandalizza (v. 32). La reazione di Pietro incarna quella degli uomini di tutti i tempi di fronte al mistero e allo scandalo della croce. Ma il centro della fede è proprio questo: credere alla gloria del Figlio di Dio e insieme accettare l’umiliazione della croce; il mistero della persona di Gesù sta nella sintesi di questi due elementi. Gesù è un messia crocifisso, è l’uomo dei dolori, il servo sofferente annunciato e descritto dai profeti, mandato dal Padre per salvare l’uomo ed elevarlo alla dignità di figlio di Dio. Egli non solo si è rivestito della nostra umanità, ma deve anche pagare il prezzo più alto: quello del sangue. Si tratta di un mistero insondabile che ha una sola spiegazione: l’amore di Dio per l’uomo, sua creatura privilegiata.
Essere discepoli di Gesù significa seguire il suo stile di vita, fare le sue stesse scelte, accettare la logica del vangelo. Al termine della vita di Gesù ci fu la croce; essa però era già una realtà a ogni passo, come conseguenza della decisione di seguire come unica proposta di vita la volontà di Dio. «Prendere la croce» significa decidere di rimanere fedeli a Cristo, anche a costo di rimetterci la vita. La croce naturalmente non va cercata per se stessa, non è frutto di autolesionismo, è invece segno di un amore senza misura, e quindi di una vita non persa ma realizzata, segno della propria fedeltà a Cristo. Come Gesù ha salvato il mondo con il suo apparente fallimento sulla croce, così anche il discepolo ogni volta che sopporta sofferenza e persecuzione per non cedere al compromesso, per essere fedele a Dio e al suo piano sul mondo, diventa causa di salvezza, manifestazione della potenza di Dio che salva per mezzo della croce. «L’albero della croce è il pilastro dell’universo e il sostegno del mondo» (Ippolito di Roma), ed è pure il pilastro e il sostegno di ogni esistenza, anche se spesso è difficile accettarla.
PREGHIERA - Quante volte anch’io, come Pietro, ti ho riconosciuto con gioia come il Cristo, il Figlio venuto a salvare il mondo. E tuttavia basta poco per incrinare il mio entusiasmo: appena tu cominci ad annunciare il passaggio doloroso e angusto che tu hai attraversato e che proponi anche a me, subito mi lascio afferrare dalla paura e quasi quasi pretendo di farti cambiare itinerario.
Sì, lo ammetto: sono allergico alla sofferenza e alla croce, al rifiuto violento che investe la mia persona e la mia vita, e non me la sento di andare incontro all’insuccesso e al fallimento, all’abbandono e alla solitudine… Ma non esiste proprio la possibilità di raggiungere per un’altra via la luce radiosa della risurrezione?
Devo proprio sprofondare nel gorgo oscuro della morte per approdare alla pienezza di una comunione senza fine? Gesù, non abbandonarmi a tutte queste paure, non permettere che a parlarmi siano le tenebre e l’angoscia, ma una fiducia colma di speranza!
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