Per una pausa spirituale durante la XXIVª Settimana del Tempo ordinario
Davanti all’indeterminazione e all’indecisione che caratterizzano i pareri della gente, Pietro esce allo scoperto e non tace la sua convinzione: per lui Gesù è il Cristo, il Messia. Ma cosa mette dietro a questo titolo con cui si designa il ‘consacrato’, l’‘inviato di Dio’? Molti di quelli che erano rimasti attratti da Gesù attendevano un liberatore, un capo che avrebbe guidato il popolo ebreo nel cacciare fuori dalla sua terra i romani e i loro dèi, tutti gli impuri e le loro usanze. Ritenevano che, in caso di necessità, se era veramente il Messia, Dio lo avrebbe aiutato con legioni di angeli. In questo contesto l’annuncio dato da Gesù sulla sofferenza che l’attendeva non poteva essere facilmente inteso e digerito.
Anche noi come Pietro abbiamo fatto la nostra professione di fede. E abbiamo riconosciuto che Gesù non è solamente un maestro eccezionale, un profeta vigoroso, un uomo saggio, ma è il Cristo, il Figlio di Dio. Abbiamo trovato le parole giuste per dire quello che ci passava per la mente ed il cuore e abbiamo percepito di essere giunti ad un approdo importante della nostra vita. Lo abbiamo ascoltato a lungo, ci siamo soffermati a meditare i vangeli, abbiamo percorso i racconti dei suoi gesti meravigliosi di liberazione, di guarigione, di misericordia. La conclusione a cui siamo giunti ci ha colmati di gioia e di entusiasmo. Ma ora le sue parole sono come una doccia fredda. Non successo, consenso, popolarità, assunzione di poteri, percorso trionfale, ma condanna, riprovazione, sofferenza, croce, morte.
Sì, anche noi, come Pietro, abbiamo avvertito il bisogno di dirglielo. Discretamente, in disparte, a tu per tu, senza fare strepito. «Signore, io ti voglio bene e quindi mi auguro che queste cose non ti accadano mai». Tu ti meriti di vincere, non di essere sconfitto. Tu sei in grado di sbaragliare i tuoi nemici, cosa ti può fare la loro condanna? Tu sei il Figlio di Dio: fatti rispettare, dunque, mostra la tua forza! Sì, anche noi, come Pietro, ci siamo sentiti rimproverare, e ci ha addirittura chiamati ‘satana’, un impedimento, una tentazione sulla sua strada.
È vero: nell’euforia ci pareva di aver già capito tutto, di indovinare quale sarebbe stata la continuazione folgorante. È vero: davamo per scontato che Dio la pensasse come noi e che le nostre strategie fossero in perfetta sintonia con i suoi progetti.
È vero: finché resta un ornamento prezioso, un oggetto artistico, un simbolo prezioso da mettere al collo, la croce, tutto sommato, ci piace. Ma quando diventa vera, autentica, un fardello pesante da portare, un legno a cui venire inchiodati, uno strumento di dolore e di morte… Allora no! Non ci stiamo più!
Sì, lo sappiamo, ‘dopo’ viene anche la risurrezione, ma ‘intanto’ ci troviamo in una situazione di pericolo, di insicurezza, di fallimento… ‘Dopo’ tutto assume un senso, ma ‘intanto’ ci troviamo nel bel mezzo del guado con un oggetto ingombrante sulle spalle, nella parte degli sconfitti… Noi siamo pronti a guadagnare la vita eterna, ma non a perdere questa esistenza; disposti ad assicurarci un vantaggio enorme, ma non a correre un rischio mortale; fiduciosi nella tua potenza, ma non tanto da andar incontro a questi pericoli. Eppure non c’è un’altra strada. Non ci sono scorciatoie. Resta quel sentiero stretto che passa per il Calvario, ed è l’unico che porti al mattino della Pasqua!
A Gesù non basta essere identificato come il Messia, il Figlio di Dio. È ben altro quello che cerca. Cerca persone disposte a condividere la sua stessa esperienza di morte e di risurrezione, cerca discepoli pronti a prendere la loro croce e a seguirlo per una strada angusta che passa attraverso la collina del Calvario e giunge alla domenica della risurrezione. E allora non vi è nulla di più pericoloso che dichiarare la propria fede nel Cristo e poi cercare di piegare i suoi progetti alla nostra volontà.
Come può piacere la croce? Come spiegare una realtà che sembra in sé del tutto contraddittoria: che bisogna morire per risorgere, che bisogna perdere la vita per salvarla, che bisogna spezzarla per ritrovarla intatta? Umanamente non è possibile fornire alcuna prova: è questione di fiducia. E la difficoltà sta proprio lì: nel mettere la propria vita nelle mani di un Altro, Dio, rinunciando a farne quello che vogliamo noi. Rinunciando a spiegarsi tutto. Rinunciando a cercare di difendersi da quella sofferenza a cui Gesù ci chiede di andare incontro non in modo incosciente, ma per decisione.
Qualcuno prende la croce come una tegola che cade giù dal cielo e… a chi tocca tocca. Ma la croce di Gesù è frutto di una scelta: una fedeltà vissuta fino in fondo, a costo di morire, a costo di finir male. E questa fedeltà è troppo esigente per poggiare solo sulle forze esili di un uomo o di una donna. In effetti resiste unicamente quando poggia su Dio, sulla certezza che lui non abbandona mai e che un giorno proprio quello che, agli occhi di tutti, sembrava un fallito, uno che aveva sbagliato tutto, un ingenuo, aveva invece scelto l’unica strada possibile per ‘salvare’ la propria esistenza e quella degli altri.
Il vangelo di domenica (Marco 8,27-35) ci invita a cogliere l’atteggiamento fondamentale di un cristiano. Le parole di Gesù, certo, sono parole dure, che non è facile accettare, soprattutto se si considera l’esistenza come un’occasione per realizzare sogni di gloria, di successo, di potere. Eppure producono un benefico effetto perché dissolvono un equivoco. Non possiamo metterci davanti a Gesù, ma dietro di lui, decidendo di compiere lo stesso percorso. E quindi non possiamo evitare la croce, cioè la disponibilità a «perdere la propria vita» per lui e per il Vangelo. Il compito che ci viene affidato è una missione d’amore: deporre nel vuoto assoluto d’amore che è la morte la pienezza dell’amore del Padre per gli uomini. Seguire Gesù vuol dire allora accettare di offrire la propria vita, gioie e dolori, perché egli ne faccia un luogo di incarnazione del suo amore, quell’amore che dirà l’ultima parola con la risurrezione.
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