LA PAROLA DOMENICALE LETTA IN FAMIGLIA
(Sofonia 2,3; 3,12-13 1ª Corinti 1,26-31 Matteo 5,1-12a)
(Sofonia 2,3; 3,12-13 1ª Corinti 1,26-31 Matteo 5,1-12a)
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La pagina evangelica delle beatitudini ci provoca, ci spinge a interrogarci intorno alla sua più autentica paradossalità, diffidandoci dal farne un uso falsamente consolatorio. Le parole di Gesù non annunciano una beatitudine grazie alla sofferenza ma nonostante la sofferenza; non cancellano quindi la differenza fra bene e male, fra felicità e dolore; non intendono assecondare un dolorismo fatalistico, in nome di una speranza che si accontenta di mascherare la rassegnazione con una spennellata superficiale di ottimismo. Non possiamo avvilire in questo modo l’annuncio della beatitudine, minimizzando lo scandalo del male e della sofferenza; al contrario, la beatitudine è una buona notizia proprio perché prende sul serio il mistero del negativo e risponde al presente dell’afflizione con il futuro della promessa.
Tale promessa è avvalorata dalla inaudita capacità di Gesù di soffrire come noi, con noi, per noi. In questo modo la sua sofferenza attesta che il male è solo la penultima parola; non può essere l’ultima ma neanche la prima. Il buco nero resta quello che è; non dev’essere razionalizzato né santificato. Prima di cercare risposte affrettate e falsamente rassicuranti, il cristiano deve misurarsi con una domanda ancora più radicale; oltre a chiederci: “Perché proprio io?”, dobbiamo chiederci: “Perché anche Lui?”. In questa seconda domanda è custodita - ecco il vero paradosso - la forza salvifica di chi ha assunto su di sé il male, l’ha vinto una volta per tutte e proprio per questo può diventare il fondamento della nostra speranza.
Quando qualcuno ci grida il suo dolore, ci capita spesso di consumare nei suoi confronti una sorta di doppio tradimento della speranza: una prima volta perché lo lasciamo solo e non sappiamo coinvolgerci in una solidarietà profonda; una seconda volta perché cerchiamo di smarcarci e nascondere il nostro disimpegno dietro la retorica di una beatitudine indolore e a buon mercato. Ecco il carattere radicalmente alternativo della beatitudine promessa da Gesù, che diventa per questo un compagno insostituibile sulla via della speranza: nella speranza si risolve il conflitto tra sofferenza e beatitudine; si risolve grazie a una promessa, che ci è stata fatta da chi ha pagato con la vita per poterla mantenere.
Tale promessa è avvalorata dalla inaudita capacità di Gesù di soffrire come noi, con noi, per noi. In questo modo la sua sofferenza attesta che il male è solo la penultima parola; non può essere l’ultima ma neanche la prima. Il buco nero resta quello che è; non dev’essere razionalizzato né santificato. Prima di cercare risposte affrettate e falsamente rassicuranti, il cristiano deve misurarsi con una domanda ancora più radicale; oltre a chiederci: “Perché proprio io?”, dobbiamo chiederci: “Perché anche Lui?”. In questa seconda domanda è custodita - ecco il vero paradosso - la forza salvifica di chi ha assunto su di sé il male, l’ha vinto una volta per tutte e proprio per questo può diventare il fondamento della nostra speranza.
Quando qualcuno ci grida il suo dolore, ci capita spesso di consumare nei suoi confronti una sorta di doppio tradimento della speranza: una prima volta perché lo lasciamo solo e non sappiamo coinvolgerci in una solidarietà profonda; una seconda volta perché cerchiamo di smarcarci e nascondere il nostro disimpegno dietro la retorica di una beatitudine indolore e a buon mercato. Ecco il carattere radicalmente alternativo della beatitudine promessa da Gesù, che diventa per questo un compagno insostituibile sulla via della speranza: nella speranza si risolve il conflitto tra sofferenza e beatitudine; si risolve grazie a una promessa, che ci è stata fatta da chi ha pagato con la vita per poterla mantenere.