Per una pausa spirituale durante la XVIIª Settimana del Tempo ordinario
In Mt 4,1-11 il racconto delle tentazioni di Gesù inizia con Satana che suggerisce a Gesù, nella solitudine del deserto, di mutare in pane le pietre per saziare la propria fame e termina con l’offerta, sempre ad opera di Satana, di «tutti i regni del mondo e la loro gloria» in cambio di un atto di adorazione. Matteo sottolinea la dimensione interiore della tentazione che avviene (al di là delle localizzazioni geografiche nel deserto, a Gerusalemme e su un monte alto) nel cuore di Gesù, nel suo profondo. Nel brano giovanneo (Gv 6,1-15) Gesù, dopo aver moltiplicato, mediante condivisione, il pane per folle numerose, si ritira in solitudine per sfuggire a chi voleva farlo re.
Gesù dunque legge come tentazione l’intenzione delle folle, che potrebbe apparire un riconoscimento della potenza di Gesù, un onore che gli viene accordato, anzi, forse perfino qualcosa di conforme al volere divino. Qualcosa che rende più efficace la sua missione tra gli uomini. Ma Gesù sa che la traduzione in potere politico di un gesto profetico è uccisione della profezia; Gesù sa che la trasformazione in istituzione politica di un gesto di rivelazione è spegnimento della rivelazione; Gesù sa che fare di un gesto di carità e condivisione un ente assistenziale è appiattimento burocratico della carità. Soprattutto, Gesù sa che la tentazione, che sempre agisce sul cuore umano allettandolo, avviene in situazioni quotidiane, mediante ministri umani e attraverso vie che a molti credenti potrebbero apparire non tentazione satanica, ma volontà divina. Come discernere?
Gesù coglie nell’intenzione delle folle la perversione del suo gesto di donazione sovrabbondante: esse lo stravolgono in un meccanismo di scambio, di do ut des, in cui esse accordano potere su di loro a chi dona loro cibo e sussistenza. Gesù non agisce con la logica di governatori e re che chiedono potere e legittimazione in cambio di elargizioni di beni. Accettare di essere re non sarebbe un poter servire meglio le persone avendo più potere e mezzi a disposizione, ma entrare in un gioco perverso di potere in cui non c’è servizio reciproco, ma uso l’uno dell’altro, non c’è servire gli altri, ma servirsi degli altri. La folla userebbe il Gesù-re che, a sua volta, si servirebbe delle folle, in un circolo vizioso che si oppone radicalmente alla logica evangelica che domina la vita di Gesù («Il Figlio dell’uomo non è venuto per farsi servire, ma per servire e dare la propria vita in riscatto per molti»: Mc 10,45) e che dovrebbe dominare la vita delle comunità cristiane nel mondo: «Chi vuole diventare grande tra voi, sarà vostro servo» (Mc 10,43).
Il rifiuto di essere fatto re è rivelativo della volontà di Gesù di non volere che gli uomini si asserviscano, pagando con l’obbedienza e la sottomissione il pane che potrebbero ricevere. Gesù rifiuta radicalmente il populismo demagogico. Egli chiama alla libertà e fa della sua vita un insegnamento di libertà. Certo, a caro prezzo. Gesù rifiuta la logica espressa dal grande Inquisitore di Dostoevskij che afferma che l’uomo non è all’altezza della libertà e che per questo l’istituzione ecclesiastica dovette rivestire gli abiti regali per andare incontro all’ansia umana di inchinarsi davanti a qualcuno e per rimediare al dono troppo grande e schiacciante della libertà che Gesù fece all’umanità. «L’uomo non cerca Dio, ma miracoli» afferma con lucido cinismo il grande Inquisitore. Per questo, continua l’anziano cardinale del racconto di Dostoevskij, «noi accettammo da lui (cioè dal Tentatore) Roma e la spada di Cesare e ci proclamammo re della terra, gli unici re… Chi mai infatti deve dominare gli uomini, se non quelli che dominano la loro coscienza e nelle cui mani è il loro pane?». Dietro al rifiuto di Gesù di essere fatto re, vi è dunque il rifiuto di servirsi del miracolo, del potere e del sacro come di strumenti di asservimento dell’uomo; vi è il rifiuto radicale dell’abuso dell’altro, del dominio sulla coscienza altrui. Rifiutando di essere fatto re, Gesù opera per la libertà anche di chi voleva sottomettersi a lui: per lui non esistono sudditi, ma fratelli.
Se la gente coglie correttamente il gesto di Gesù di moltiplicazione dei pani come segno che rivela qualcosa della sua identità profonda (Gv 6,14), essa però ne trae conseguenze che Gesù rigetta in modo netto. Tanto che egli dirà: «Voi mi cercate non perché avete visto dei segni, ma perché avete mangiato di quei pani e vi siete saziati» (Gv 6,26). La sua regalità è altra e apparirà nella paradossale gloria del crocifisso. Gesù si rifiuta di piegare la fame umana, il bisogno ontologico dell’uomo, la sua povertà, la sua debolezza, a un personale disegno di potere e di affermazione. E così interdice anche alla Chiesa di sfruttare la debolezza umana, il bisogno umano, la sofferenza, la paura, la malattia, l’angoscia, il peccato, la mediocrità stessa dell’uomo come strumento per indurre gli uomini a consegnare la propria coscienza in mano di chi potrà assicurare loro comprensione, perdono e consolazione. La sua logica è veramente all’opposto di quella espressa dal grande Inquisitore, logica che contiene in sé il disprezzo profondo per gli uomini e per la loro libertà: «Essi finiranno per deporre la loro libertà ai nostri piedi e per dirci: ‘Riduceteci piuttosto in schiavitù, ma sfamateci’. Comprenderanno essi stessi che libertà e pane terreno sono fra loro inconciliabili, giacché mai, mai essi sapranno ripartirlo fra loro! Si convinceranno pure che non potranno mai nemmeno essere liberi, perché sono deboli, viziosi, inetti e ribelli».
Il testo dice che Gesù si ritirò (Gv 6,15), fece anacoresi, si rifugiò nella solitudine per sfuggire la folla, gli onori, gli applausi. Gesù si distanzia anche dai suoi discepoli, ben sapendo che anch’essi erano tentati di tentarlo sul tema della regalità e del potere. Sì, Gesù mette in atto una vera e propria fuga: alcuni manoscritti portano il verbo ‘fuggire’ invece del verbo ‘ritirarsi’ in Gv 6,15. Gesù svela così che a volte l’arte della fuga è l’unica possibilità di salvaguardare la qualità e la dignità della propria umanità e l’evangelicità della propria fede.
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