(Proverbi 9,1-6 Efesini 5,15-20 Giovanni 6,51-58)
Il capitolo sesto di Giovanni ci ha abituati ad affermazioni solenni e sconcertanti di Gesù. Per comprendere il nostro brano, è opportuno riprendere e porre l’accento su alcuni temi fondamentali: Gesù si definisce «il pane vivo» che può dare la vita a chi ne mangia; questo cibo è la sua carne, cioè la sua umanità, il suo corpo, che fa vivere il mondo. Non va dimenticato lo sfondo antropologico fondamentale del «mangiare-vivere»: vive solo chi si nutre di un cibo buono, mentre chi non mangia muore. L’affermazione che apre il nostro brano dichiara l’assoluta necessità di mangiare il pane vivo che è Gesù (v. 51). Il paradosso della sequela di Gesù aumenta sempre più, e sconvolge le menti dei Giudei impreparati ad accogliere il senso profondo delle affermazioni del Rabbì di Nazareth.
La tecnica è sempre quella del dialogo, mediante il quale Gesù insegna sollecitando domande e provocazioni. La domanda dei Giudei prende le mosse dallo sconcerto che suscitano le parole di Gesù sulla possibilità di dare da mangiare la sua carne. Per un Giudeo l’idea di mangiare la carne di un uomo era considerata una profanazione, una maledizione che attirava l’ira di Dio (cfr. Lv 26,29).
«Come può costui darci la sua carne da mangiare?» (v. 52). La domanda nasce dalla difficoltà di accettare il mistero di Gesù, che sia cioè la sua incarnazione, passione e morte a darci la vita: «Io sono il pane vivo, disceso dal cielo. Se uno mangia di questo pane vivrà in eterno e il pane che io darò è la mia carne per la vita del mondo» (v. 51). Giovanni preferisce la parola «carne» a «corpo», perché «carne» indica la condizione debole, fragile e mortale dell’uomo che, assunta da Gesù, diventa il mezzo della salvezza; è, infatti, la carne donata che, proprio perché donata, dà la vita (v. 52). I Giudei rifiutano di pensare che la loro salvezza, e la salvezza di tutti, dipenda dal dono di sé di un uomo; essi rifiutano di pensare che la loro vita dipenda dall’adesione totale e senza riserve all’uomo Gesù.
«In verità, in verità io vi dico: se non mangiate la carne del Figlio dell’uomo e non bevete il suo sangue, non avete in voi la vita» (v. 53). La carne e il sangue sono definiti come la carne e il sangue del Figlio dell’uomo. Questo titolo è utilizzato dal quarto vangelo per indicare Gesù come rivelatore, come la nuova «scala di Giacobbe» che, con il suo itinerario di discesa e di salita (3,14-15; 8,27), mette in comunione il cielo e la terra (Gv 1,51). Mangiare la sua carne e bere il suo sangue significa lasciarsi totalmente attrarre da lui nel suo cammino verso il Padre.
«La mia carne è vero cibo e il mio sangue vera bevanda» (v. 55). La carne e il sangue richiamano il sacrificio della croce: l’uomo giunge alla sapienza e vive nutrendosi di Gesù che si dona, lasciandosi conformare a lui. La comunità che celebra nella liturgia la presenza del Risorto, non può separare questa presenza dal ricordo della sua morte. Il Risorto è presente, certo, ma come chi ha amato i suoi sino alla fine, ed è così che egli si offre come cibo al credente.
«Chi mangia la mia carne e beve il mio sangue rimane in me e io in lui. Come il Padre, che ha la vita, ha mandato me e io vivo per il Padre, così anche colui che mangia me vivrà per me» (vv. 56-57). La vita consiste nel dimorare di Cristo nel credente e del credente in Cristo, e nell’ottenere perciò di vivere mediante Cristo, come lui vive mediante il Padre. Il tema del «mangiare» sfocia in quello dell’assimilazione, che consiste nell’intimità e nella comunione di vita.
Il discorso, partito con il segno della moltiplicazione dei pani, termina con il dono di sé che Gesù compie. Condivisione e dono di sé è il duplice marchio che contraddistingue la realtà nuova che è la vita eterna. L’uomo deve rinunciare all’illusione che la vita eterna si compri con «duecento denari di pane», essa si dà solo come dono offerto a chi lo accoglie nella fede. La provocazione che ci viene da questa pagina di Giovanni non può che rimandarci al modo in cui viviamo l’eucaristia. L’autore del quarto vangelo non parla esplicitamente del sacramento dell’eucaristia, ma è fuor di dubbio che ciò di cui parla, soprattutto nel brano odierno, è ciò che siamo chiamati a vivere nel nostro rapporto con Cristo risorto presente nell’eucaristia. Cristo lo incontriamo nel pane eucaristico, vero cibo con cui viene a dimorare in noi. Si tratta di cogliere il valore eterno di questo semplice atto: il «fare la comunione». Gesù ha reso disponibile come cibo la sua vita, perché chiunque ne mangia possa trovare la forza e la gioia di vivere la sua stessa dinamica d’amore: offrire la vita per gli altri.
PREGHIERA - Mangiare e bere: due azioni, Gesù, che sembra non abbiano molto a che fare con la nostra fede. Eppure, stranamente, è proprio quello che proponi a quanti desiderano entrare in comunione con te. Tu ci chiedi di compiere due gesti semplici che vengono dalla nostra esistenza fisica. Sì, siamo uomini e donne che per vivere hanno bisogno di cibo e di bevande.
Ma questa volta il nutrimento è il tuo stesso corpo, la tua carne offerta in sacrificio, e a dissetarci è quel sangue che hai versato dalla croce. È attraverso di essi che ogni distanza viene annullata: tu rimani in noi e noi in te. Abitati dalla tua presenza, siamo trasformati nel profondo al punto da scoprire con gioioso stupore che tu vivi in noi e noi viviamo per te.
È la straordinaria esperienza che si rinnova ad ogni Eucaristia, è l’appuntamento di grazia che di domenica in domenica cambia ognuno di noi in un essere nuovo, cittadino del cielo.
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