martedì 14 agosto 2012

419 - LA FEDE È UN DONO.

Per una pausa spirituale durante la XIXª Settimana del Tempo ordinario

Quando si dice che la fede è un dono, da una parte si esprime una verità quasi ovvia; dall’altra ci si espone a numerosi equivoci. Cominciamo da questi ultimi; specialmente da quelli che inducono sofferenza. Dietro la rivendicazione della gratuità della fede non si cela forse un Dio arbitrario nel concederla? Perché non viene incontro al desiderio di coloro che vorrebbero credere, eppure ritengono di rimanerne inesorabilmente esclusi? Quanti vivono questa condizione non eccepiscono sull’incondizionatezza dell’agire di Dio (sarebbe arroganza vana avanzare pretese nei confronti della sua iniziativa); soltanto lamentano una discrezionalità subita come un torto. Magari qualcun altro ricava da qui l’alibi per una indifferenza che si mantiene a distanza di sicurezza da ogni coinvolgimento, sia nella forma del risentimento che della struggente nostalgia. Per porre rimedio alla sfaccettata ambiguità sommariamente messa in luce si deve ripartire dalla specifica identità cristiana del dono della fede.

IL DONO È GESÙ - Quanto i cristiani credono di Dio e da lui sperano trova la sua origine e il suo compimento nel Signore Gesù. Il cristocentrismo dell’intera testimonianza scritturistica trova compendio per esempio in Gv 3,16s. e Col 2,9: Gesù è il dono di Dio all’umanità e non è pensabile un dono più grande, poiché in lui Dio ci fa dono di se stesso. Ne La salita al Monte Carmelo (lib. 2, cap. 22, §§ 4-5), di Giovanni della Croce, Dio si rivolge così ad ogni orante che invochi grazie dal Cielo: «Tu domandi locuzioni e rivelazioni particolari, mentre, se tu fissi gli occhi su di lui, vi troverai l’intera rivelazione, perché egli è tutta la mia parola, tutta la mia risposta, tutta la mia visione e tutta la mia rivelazione. Ora, io ti ho già parlato, risposto, manifestato, rivelato, quando te l’ho donato come fratello, compagno, maestro, caparra e premio. […] Se uno mi interrogasse adesso come allora e mi chiedesse qualche visione o rivelazione, sarebbe come se mi chiedesse un’altra volta il Cristo o più fede di quanta ne abbia già offerta in Cristo».
Tra le enunciazioni magisteriali più recenti possiamo ricordare la conclusione di Dei Verbum 4: «L’economia cristiana dunque, in quanto è l’Alleanza nuova e definitiva, non passerà mai, e non è da aspettarsi alcun’altra Rivelazione pubblica prima della manifestazione gloriosa del Signore nostro Gesù Cristo (cfr. 1 Tm 6,14 e Tt 2,13)». Il dono che è Gesù ha le caratteristiche di una grazia (cfr. Ef 2,8) che prende forma in una elezione particolare (Israele), per una destinazione universale (proprio perché lui è «morto per tutti» [cfr. 2 Cor 5,15], in nessun altro c’è salvezza [At 4,12; 1Tim 2,4-6]), che compie il dispositivo di storicità della creazione (cfr. Gv 1,1-18; Ef 1,3-14; Col 1,15-20). La fede è dono perché scaturisce da un’abundantia caritatis (cfr. DV 2), rispetto alla quale possiamo solamente disporci con meravigliata gratitudine (cfr. Rom 5). Dall’evento di Gesù scaturisce per tutti l’invito ad entrare nella sua amicizia (cfr. Gv 15). Di invito si tratta e non di una folgorazione. Perciò la responsabilità e il rischio dell’adesione personale non possono essere diminuiti. Il Crocifisso risorto è talmente discreto e delicato che può capitare che qualcuno gli dica di no per le ragioni più svariate, ma che nel concreto della vita gli dica di sì. Ci sono persone che vivono così; lasciamo a lui riconoscerli come suoi amici (cfr. Mt 25,31-46).

IL DONO È LO SPIRITO SANTO - La fede è un dono perché «non si può avere Dio senza Dio». Ogni altro percorso tracciato al di fuori della sua iniziativa è destinato all’idolatria ed alla superstizione. Condizione fondamentale della nostra contemporaneità al Dono che si è realizzato «una volta per tutte» (cfr. Eb 7,27; 9,12.26.28) è lo Spirito del Signore (cfr. DV 5), il quale mette misteriosamente in contatto ogni uomo con il mistero pasquale (cfr. GS 22). Per i cristiani la grazia suprema che possiamo ricevere da Dio è dunque lo Spirito, che sin dalla creazione orienta la storia all’incontro con lo Sposo, affinché si realizzi la vocazione universale a diventare figli nel Figlio (e della creazione intera ad entrare nella gloria dei figli di Dio; cfr. Rom 8,19-22). L’in19a vocazione umile e assidua dello Spirito è più importante delle consolazioni che se ne possono ricavare, perché il modellamento dei nostri sensi spirituali deve mettere in conto un’attesa che può durare una vita, addirittura la terribile purificazione di ogni gratificazione, in nome del desiderio supremo: volere Dio per Dio.

LA RESPONSABILITÀ DELLE MEDIAZIONI - Il riconoscimento di Gesù come il Dono di Dio all’umanità da una parte libera la comunità cristiana dall’ansia di «salvare il mondo», poiché la Grazia detiene il primato nei confronti di ogni nostra prestazione. Dall’altra sollecita la Chiesa ad una conversione continua, affinché la sua testimonianza lasci trasparire il fascino di Gesù. Quante ostilità e quante fatiche nei confronti della proposta di Gesù sono imputabili ai vissuti dei cristiani!
I ‘luoghi’ dove la Chiesa deve dare prova di docilità spirituale per custodire il Dono ricevuto coincidono con le forme obiettive dell’azione dello Spirito: la Parola, il Sacramento e la Carità. Soltanto nell’ascolto assiduo del suo Signore la Chiesa può efficacemente annunziare il Vangelo che attende sempre di nuovo di incarnarsi nelle storie degli uomini. Soltanto nel Memoriale eucaristico la comunità dei battezzati può ripresentare un Dio che «mette il grembiule» e ci dona il suo Pane perché viviamo di lui. Soltanto nella cura della fraternità intraecclesiale e nella dedizione universale i discepoli di Gesù possono offrire al mondo il segno della comunione, ricevuta da Colui che ha manifestato amore per i piccoli e i poveri, in nome della paternità di un Dio che ha cura di tutti i suoi figli (cfr. Preghiera eucaristica V/C e Prefazio comune VIII). Nell’adempiere al mandato missionario la Chiesa fa ogni giorno la scoperta di «essere portata da Ciò che porta». Questo vuol dire che chi pensa di essere suo discepolo non ne farà mai un titolo di arroganza. Anzi, vivrà con umiltà il suo ministero, nella consapevolezza di dovere al mondo quella Speranza che getta su «cieli nuovi e terra nuova» (cfr. Ap 21,1-7).

Nessun commento:

Posta un commento

Nota. Solo i membri di questo blog possono postare un commento.