Per una pausa spirituale durante la IIIª Settimana del Tempo ordinario
Il tempo si spiega solo per mezzo del tempo. Sembra impossibile dire che cosa esso sia senza fare uso di una serie di termini (mobilità, continuità, vicende, successione, evoluzione, illimitato, svolgimento, durata, azione...) che ne presuppongono la conoscenza o almeno l’esperienza.
Platone, nella sua prospettiva idealista per cui ciò che cambia è effimero e inferiore, definisce il tempo «l’immagine mobile dell’eternità». Aristotele lo considera invece la misura del movimento articolata secondo il ‘prima’ e il ‘poi’, e così afferma che lo spazio è necessario per definire il tempo: solo Dio, motore immobile, è eterno, cioè fuori del tempo. Einstein lo considerava la quarta dimensione, dopo altezza, larghezza e profondità; oggi anche le neuroscienze cercano di trovarne una possibile definizione sulla base di dati oggettivi, dei processi cerebrali, degli effetti sul comportamento.
La nostra vita è strutturata temporalmente, distesa, talvolta letteralmente portata via nel fluire inquieto del tempo, tanto che riflettere sul senso del tempo non è distinguibile dal riflettere sul senso stesso della vita. Non possiamo fare a meno del tempo, non possiamo uscirne, è quasi impossibile ignorarlo; e tuttavia spesso ci si chiede se esista davvero o se sia solo una sovrastruttura culturale, insomma una creazione degli esseri umani. Dice Agostino nelle Confessiones che il tempo, come l’universo, è stato creato da Dio e riguarda l’uomo, ma ovviamente ciò non basta a definirlo, la sua intima natura resta misteriosa, anche se l’uomo lo sente così inseparabile dal proprio vivere, così familiare: «Se non mi chiedi che cosa sia il tempo lo so; ma se me lo chiedi, non lo so».
Siamo così ‘nel tempo’ per costituzione che forse senza di esso non potremmo più conservare la nostra autocoscienza, la nostra individualità; non potremmo pensare né avere rapporti con gli altri, perché anche la nostra capacità di amare è strutturata nel tempo. Senza le coordinate fondamentali di spazio e tempo noi non sappiamo più parlare né pensare né vivere, forse nemmeno sentire.
E questo farebbe pensare talvolta che anche oltre il tempo nostro qualcosa della nostra temporalità debba essere preservato. Cioè che un qualche divenire nel tempo non possa restare estraneo neppure alla Vita eterna. Certo è che l’immobilità nello spazio e nel tempo che connotava la concezione tradizionale del paradiso non ha aiutato a elaborare una spiritualità cristiana in prospettiva escatologica.
In qualche momento perfetto abbiamo un senso intensificato di noi stessi, degli altri, forse della bellezza del mondo della natura, e allora, come si dice, desidereremmo che il tempo si fermasse. Anche per chi giunge ad averne l’esperienza, la felicità è fatta di momenti: è difficile distenderla nel tempo. Anzi la percezione del tempo che passa può gettare un’ombra sui nostri momenti di gioia, come se portasse con sé il pensiero dell’impossibilità di conservare un momento perfetto (etimologicamente perfetto significa ‘compiuto’: dunque, in un certo senso, come uscito dal tempo, fuori dalla nostra esperienza…). Addirittura, mentre si è ancora nel momento felice, sembra di essere già proiettati in un futuro in cui questo ‘adesso’ sarà ricordo o rimpianto.
In questo senso il tempo, senza cui non solo non potremmo vivere, ma nemmeno pensare la vita, può apparire come un limite alla pienezza umana e alla felicità possibile. Così Orazio in una delle sue odi più famose anche per la fascinosa brevità, esorta a «tagliare via la speranza a lungo termine» dallo spazio della vita che forse sarà breve, forse no, comunque non possiamo esserne sicuri. Quindi, carpe diem! Noi di solito lo traduciamo un po’ liberamente «cogli l’attimo», perché per noi il giorno è già un intervallo di tempo un po’ troppo lungo per poter essere vissuto in pienezza. L’idea del carpe diem ha un suo fascino anche al di fuori della prospettiva epicurea di Orazio, se intesa come invito a caricare di senso ogni momento della vita, a viverlo più intensamente; recepita da una personalità più debole e poco strutturata, può anche indurre a sbriciolare l’esperienza umana senza ricavarne senso né frutto.
Anche ammettendo che questa vita fatta di attimi intensi – ma può davvero ogni attimo essere intenso? – possa essere considerata appagante, sembra priva di un filo conduttore che leghi insieme questi attimi in un tutto coerente; resta una serie di attimi, ma impedisce di vivere la propria esistenza come storia ricca di senso; soprattutto impedisce di pensare una conclusione che sia il vertice di questa storia e ne sveli il senso implicito. In realtà l’essere umano non può fare a meno della speranza a lungo termine, anche se di solito la ignora anche solo come esigenza.
Ma se non può appagarci in pieno l’idea epicurea di Orazio nonostante il suo fascino, nemmeno quella stoica di Seneca, nonostante la sua nobiltà e ragionevolezza, risponde ai nostri bisogni più profondi. Seneca, nel De brevitate vitae e nelle Lettere a Lucilio, disapprova gli atteggiamenti correnti a riguardo della fugacità del tempo e della brevità della vita umana, osservando che la vita non sarebbe poi così breve se non fosse in gran parte sprecata; non dipende da noi aggiungere anni o mesi alla nostra vita, ma dipende da noi usare bene del tempo che ci è dato. Stigmatizza con preoccupazione il nostro perdere tempo, rinviare, lasciar scorrere la vita senza frutto. E di sicuro vi è molta verità nella sua osservazione secondo cui «certi spazi di tempo ci vengono rubati, altri sottratti senza che ce ne accorgiamo, altri ci scorrono via inavvertiti…». Non possiamo fare a meno di rilevare che anche la soluzione di Seneca è sulla linea dell’efficientismo, sia pure nobile e rivolto alla cura dell’interiorità; non appaga fino in fondo lo spirito, non sembra guardare alla vita umana come storia.
È vero che la maggior parte del nostro tempo sembra talvolta un tempo di attesa vuota e ansiosa, di passaggio inevitabile o di preparazione – ‘tecnica’, in prosa – a una vita vera, importante, che però rimane sempre in arrivo e quando arriva non sempre viene riconosciuta, perché si configura già come passaggio a un’altra fase. Il tempo scorre. Anzi, nonostante la lentezza disperante di certi particolari momenti che tutti conosciamo, fugge: «fugit irreparabile tempus». «La vita fugge e non s’arresta un’ora / e la morte vien dietro a gran giornate/ e le cose presenti, e le passate / mi danno guerra, e le future ancora», dice Petrarca in un suo sonetto agitato e struggente.
Sommando il tempo di passaggio, il tempo che abbiamo chiamato ‘in prosa’ e infine quello dell’indispensabile sonno – quasi sempre un po’ meno del necessario –, si resta sospesi e sgomenti al pensiero di quanto poco tempo resta per vivere davvero, per crescere, per scoprire, per amare e anche (possibilmente) per sentirsi felici. È possibile vivere nel tempo senza essere imprigionati in schemi e parcellizzazioni senza senso, oppure imprigionati nella quotidianità fino a sentirsi deprivati di sé, del proprio vivere? Guardandoci intorno abbiamo l’impressione che oggi la percezione del tempo sia nello stesso tempo sminuzzata e immobile.
E non ci è di molto aiuto l’abituale distinzione fra tempo fisico, misurabile, e tempo soggettivo o fenomenico o psicologico. Di solito il bambino piccolo non ha la percezione chiara del tempo: al più una percezione relativa, del tipo «è mattina – è sera». Impara più tardi a distinguere le stagioni, solo più tardi – ma forse allora già non è più bambino – acquisisce la consapevolezza del passato in quanto passato, di un tempo che non torna. I giovanissimi hanno di solito l’impressione che il tempo scorra troppo lentamente perché hanno fretta di crescere, di conquistare autonomia; gli adulti lo sentono scorrere troppo in fretta non solo perché avvertono il disagio dell’età che avanza, la stranezza di ritrovarsi talvolta più vecchi anagraficamente di quanto interiormente si sentono, più vicini alla morte…
La percezione, la coscienza del tempo che si vive non procede sempre secondo orologi e calendari, ma può anche essere in contrasto con le misurazioni oggettive del tempo. Nel nostro mondo di «adulti attivi e impegnati» (ma è una situazione che sempre più coinvolge anche i ragazzi, presi da tanti impegni quotidiani e pressati da obblighi tipo quelli scolastici, non sempre ignorabili; e anche tanti anziani, sempre più attivi fino a un’età avanzata) predomina la sensazione di non poter essere veramente padroni del proprio tempo, che le giornate volino via senza essere state veramente vissute, ma solo sfiorate superficialmente, correndo da un impegno a un altro, correndo sempre senza arrivare realmente da nessuna parte.
Il presente è l’unico tempo veramente ‘nostro’: sia perché è l’unico su cui possiamo influire, sia perché è l’unico che riusciamo realmente a percepire. Possiamo pensare anche il passato, per mezzo della memoria, e il futuro, per mezzo dell’immaginazione; ma il passato è sempre filtrato dalla sensibilità e dai bisogni del presente, e con gli strumenti del presente viene immaginato il futuro. È importante essere consapevoli di questo, perché l’inevitabile schema di passato-futuro non sia per il nostro spirito una prigione, ma un’ispirazione: un ‘più’ e non un ‘meno’ di vita qui e ora.
Il tempo è anche una responsabilità che ci interpella come persone e come credenti; è un luogo teologico, perché è nel fluire feriale del krónos che ci viene incontro, non sempre folgorante o immediatamente riconoscibile, il kairós del nuovo di Dio.
Il tempo si spiega solo per mezzo del tempo. Sembra impossibile dire che cosa esso sia senza fare uso di una serie di termini (mobilità, continuità, vicende, successione, evoluzione, illimitato, svolgimento, durata, azione...) che ne presuppongono la conoscenza o almeno l’esperienza.
Platone, nella sua prospettiva idealista per cui ciò che cambia è effimero e inferiore, definisce il tempo «l’immagine mobile dell’eternità». Aristotele lo considera invece la misura del movimento articolata secondo il ‘prima’ e il ‘poi’, e così afferma che lo spazio è necessario per definire il tempo: solo Dio, motore immobile, è eterno, cioè fuori del tempo. Einstein lo considerava la quarta dimensione, dopo altezza, larghezza e profondità; oggi anche le neuroscienze cercano di trovarne una possibile definizione sulla base di dati oggettivi, dei processi cerebrali, degli effetti sul comportamento.
La nostra vita è strutturata temporalmente, distesa, talvolta letteralmente portata via nel fluire inquieto del tempo, tanto che riflettere sul senso del tempo non è distinguibile dal riflettere sul senso stesso della vita. Non possiamo fare a meno del tempo, non possiamo uscirne, è quasi impossibile ignorarlo; e tuttavia spesso ci si chiede se esista davvero o se sia solo una sovrastruttura culturale, insomma una creazione degli esseri umani. Dice Agostino nelle Confessiones che il tempo, come l’universo, è stato creato da Dio e riguarda l’uomo, ma ovviamente ciò non basta a definirlo, la sua intima natura resta misteriosa, anche se l’uomo lo sente così inseparabile dal proprio vivere, così familiare: «Se non mi chiedi che cosa sia il tempo lo so; ma se me lo chiedi, non lo so».
Siamo così ‘nel tempo’ per costituzione che forse senza di esso non potremmo più conservare la nostra autocoscienza, la nostra individualità; non potremmo pensare né avere rapporti con gli altri, perché anche la nostra capacità di amare è strutturata nel tempo. Senza le coordinate fondamentali di spazio e tempo noi non sappiamo più parlare né pensare né vivere, forse nemmeno sentire.
E questo farebbe pensare talvolta che anche oltre il tempo nostro qualcosa della nostra temporalità debba essere preservato. Cioè che un qualche divenire nel tempo non possa restare estraneo neppure alla Vita eterna. Certo è che l’immobilità nello spazio e nel tempo che connotava la concezione tradizionale del paradiso non ha aiutato a elaborare una spiritualità cristiana in prospettiva escatologica.
In qualche momento perfetto abbiamo un senso intensificato di noi stessi, degli altri, forse della bellezza del mondo della natura, e allora, come si dice, desidereremmo che il tempo si fermasse. Anche per chi giunge ad averne l’esperienza, la felicità è fatta di momenti: è difficile distenderla nel tempo. Anzi la percezione del tempo che passa può gettare un’ombra sui nostri momenti di gioia, come se portasse con sé il pensiero dell’impossibilità di conservare un momento perfetto (etimologicamente perfetto significa ‘compiuto’: dunque, in un certo senso, come uscito dal tempo, fuori dalla nostra esperienza…). Addirittura, mentre si è ancora nel momento felice, sembra di essere già proiettati in un futuro in cui questo ‘adesso’ sarà ricordo o rimpianto.
In questo senso il tempo, senza cui non solo non potremmo vivere, ma nemmeno pensare la vita, può apparire come un limite alla pienezza umana e alla felicità possibile. Così Orazio in una delle sue odi più famose anche per la fascinosa brevità, esorta a «tagliare via la speranza a lungo termine» dallo spazio della vita che forse sarà breve, forse no, comunque non possiamo esserne sicuri. Quindi, carpe diem! Noi di solito lo traduciamo un po’ liberamente «cogli l’attimo», perché per noi il giorno è già un intervallo di tempo un po’ troppo lungo per poter essere vissuto in pienezza. L’idea del carpe diem ha un suo fascino anche al di fuori della prospettiva epicurea di Orazio, se intesa come invito a caricare di senso ogni momento della vita, a viverlo più intensamente; recepita da una personalità più debole e poco strutturata, può anche indurre a sbriciolare l’esperienza umana senza ricavarne senso né frutto.
Anche ammettendo che questa vita fatta di attimi intensi – ma può davvero ogni attimo essere intenso? – possa essere considerata appagante, sembra priva di un filo conduttore che leghi insieme questi attimi in un tutto coerente; resta una serie di attimi, ma impedisce di vivere la propria esistenza come storia ricca di senso; soprattutto impedisce di pensare una conclusione che sia il vertice di questa storia e ne sveli il senso implicito. In realtà l’essere umano non può fare a meno della speranza a lungo termine, anche se di solito la ignora anche solo come esigenza.
Ma se non può appagarci in pieno l’idea epicurea di Orazio nonostante il suo fascino, nemmeno quella stoica di Seneca, nonostante la sua nobiltà e ragionevolezza, risponde ai nostri bisogni più profondi. Seneca, nel De brevitate vitae e nelle Lettere a Lucilio, disapprova gli atteggiamenti correnti a riguardo della fugacità del tempo e della brevità della vita umana, osservando che la vita non sarebbe poi così breve se non fosse in gran parte sprecata; non dipende da noi aggiungere anni o mesi alla nostra vita, ma dipende da noi usare bene del tempo che ci è dato. Stigmatizza con preoccupazione il nostro perdere tempo, rinviare, lasciar scorrere la vita senza frutto. E di sicuro vi è molta verità nella sua osservazione secondo cui «certi spazi di tempo ci vengono rubati, altri sottratti senza che ce ne accorgiamo, altri ci scorrono via inavvertiti…». Non possiamo fare a meno di rilevare che anche la soluzione di Seneca è sulla linea dell’efficientismo, sia pure nobile e rivolto alla cura dell’interiorità; non appaga fino in fondo lo spirito, non sembra guardare alla vita umana come storia.
È vero che la maggior parte del nostro tempo sembra talvolta un tempo di attesa vuota e ansiosa, di passaggio inevitabile o di preparazione – ‘tecnica’, in prosa – a una vita vera, importante, che però rimane sempre in arrivo e quando arriva non sempre viene riconosciuta, perché si configura già come passaggio a un’altra fase. Il tempo scorre. Anzi, nonostante la lentezza disperante di certi particolari momenti che tutti conosciamo, fugge: «fugit irreparabile tempus». «La vita fugge e non s’arresta un’ora / e la morte vien dietro a gran giornate/ e le cose presenti, e le passate / mi danno guerra, e le future ancora», dice Petrarca in un suo sonetto agitato e struggente.
Sommando il tempo di passaggio, il tempo che abbiamo chiamato ‘in prosa’ e infine quello dell’indispensabile sonno – quasi sempre un po’ meno del necessario –, si resta sospesi e sgomenti al pensiero di quanto poco tempo resta per vivere davvero, per crescere, per scoprire, per amare e anche (possibilmente) per sentirsi felici. È possibile vivere nel tempo senza essere imprigionati in schemi e parcellizzazioni senza senso, oppure imprigionati nella quotidianità fino a sentirsi deprivati di sé, del proprio vivere? Guardandoci intorno abbiamo l’impressione che oggi la percezione del tempo sia nello stesso tempo sminuzzata e immobile.
E non ci è di molto aiuto l’abituale distinzione fra tempo fisico, misurabile, e tempo soggettivo o fenomenico o psicologico. Di solito il bambino piccolo non ha la percezione chiara del tempo: al più una percezione relativa, del tipo «è mattina – è sera». Impara più tardi a distinguere le stagioni, solo più tardi – ma forse allora già non è più bambino – acquisisce la consapevolezza del passato in quanto passato, di un tempo che non torna. I giovanissimi hanno di solito l’impressione che il tempo scorra troppo lentamente perché hanno fretta di crescere, di conquistare autonomia; gli adulti lo sentono scorrere troppo in fretta non solo perché avvertono il disagio dell’età che avanza, la stranezza di ritrovarsi talvolta più vecchi anagraficamente di quanto interiormente si sentono, più vicini alla morte…
La percezione, la coscienza del tempo che si vive non procede sempre secondo orologi e calendari, ma può anche essere in contrasto con le misurazioni oggettive del tempo. Nel nostro mondo di «adulti attivi e impegnati» (ma è una situazione che sempre più coinvolge anche i ragazzi, presi da tanti impegni quotidiani e pressati da obblighi tipo quelli scolastici, non sempre ignorabili; e anche tanti anziani, sempre più attivi fino a un’età avanzata) predomina la sensazione di non poter essere veramente padroni del proprio tempo, che le giornate volino via senza essere state veramente vissute, ma solo sfiorate superficialmente, correndo da un impegno a un altro, correndo sempre senza arrivare realmente da nessuna parte.
Il presente è l’unico tempo veramente ‘nostro’: sia perché è l’unico su cui possiamo influire, sia perché è l’unico che riusciamo realmente a percepire. Possiamo pensare anche il passato, per mezzo della memoria, e il futuro, per mezzo dell’immaginazione; ma il passato è sempre filtrato dalla sensibilità e dai bisogni del presente, e con gli strumenti del presente viene immaginato il futuro. È importante essere consapevoli di questo, perché l’inevitabile schema di passato-futuro non sia per il nostro spirito una prigione, ma un’ispirazione: un ‘più’ e non un ‘meno’ di vita qui e ora.
Il tempo è anche una responsabilità che ci interpella come persone e come credenti; è un luogo teologico, perché è nel fluire feriale del krónos che ci viene incontro, non sempre folgorante o immediatamente riconoscibile, il kairós del nuovo di Dio.
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