sabato 28 gennaio 2012

329 - STUPITI DEL SUO INSEGNAMENTO - 29 Gennaio 2012 – IVª Domenica ordinaria

(Deuteronomio 18,15-20 1ª Corinti 7,32-35 Marco 1,21-28)

Lo stupore è l’origine della conoscenza. I discepoli che si stupiscono dell’insegnamento di Gesù conoscono la sua novità: egli insegna con un’autorità nuova, la sua parola è nuova perché realizza ciò che dice. Di fronte al vuoto delle nostre parole, delle troppe parole umane dette a vanvera, questa parola efficace manifesta la serietà della presenza di Dio nella nostra storia.
LA VERA LIBERTÀ: QUELLA INTERIORE. La pagina evangelica che oggi meditiamo ci assicura che la verità libera dal male. Forse a orecchi assuefatti a parole di circostanza, a frasi scontate, a slogan ripetitivi, la parola di Gesù suona come una dolce, morbida melodia che suscita stupore e gratitudine, fascino e simpatia, consenso e condivisione. Eppure il vangelo registra una opposizione ruvida e accanita a questa libertà che dilaga con la Verità. C’è un nemico che si infuria, inveisce e lotta strenuamente perché la Verità non si imponga e liberi l’uomo. Ciò che Marco, nel linguaggio della sua epoca, ci narra come una situazione di possessione demoniaca, oggi lo vediamo con i nostri occhi sotto altre forme, magari più subdole e meno appariscenti. Ciò non toglie, anzi ‘intensifica’ la sfida che consiste nel combattere il male, soprattutto prevenendolo. La migliore prevenzione ogni battezzato e ogni comunità cristiana la fa educando a quella «vita buona secondo il vangelo» che i nostri vescovi ci hanno chiesto di fissare come obiettivo di questo decennio pastorale. Il brano evangelico di oggi ci assicura che si tratta di una trincea impegnativa, di una guerra perennemente dichiarata, ma ci assicura che, se alcune battaglie potremo perderle, la guerra sarà certamente vinta, e non dalle nostre astuzie o dalle tattiche belliche, ma dalla potenza di verità e di amore di Gesù Cristo, il vero amico dell’uomo.
DEDICARSI A CRISTO, dunque, non significa rinnegare l’essere umano e la sua libertà, ma comporta – come afferma Gaudium et spes 17 – che «l’uomo può volgersi al bene soltanto nella libertà. I nostri contemporanei stimano grandemente e perseguono con ardore tale libertà, e a ragione. Spesso però la coltivano in modo sbagliato quasi sia lecito tutto quel che piace, compreso il male. La vera libertà, invece, è nell’uomo un segno privilegiato dell’immagine divina». In questa luce, forse, comprendiamo meglio anche le parole dell’apostolo Paolo, che non ci insegnano a disprezzare le realtà create (le quali sono sempre e comunque dono di Dio), ma a viverle in una visione globale, alla luce di Dio, e a trovare in qualsiasi aspetto o scelta della vita l’ordine giusto delle cose, le priorità dei valori, la giusta gerarchia che ci consente di salire sempre più a quella vetta di umanità che Cristo ci ha esemplificato e a quella dignità che si riassume in un progetto di vita ambizioso: dedicarsi a Cristo per dedicarsi come Cristo.
PREGHIERA - Non mancano le esperienze oscure in cui entriamo liberamente, un po’ per curiosità e un po’ per scelta, sicuri di poterle gestire e di uscirne quando e come vorremo. E invece, Gesù, finiamo per saggiare le conseguenze dolorose dei nostri sbagli: credevamo di possedere istanti esaltanti, un’ebbrezza magica e finiamo con l’essere posseduti da voglie insane, da bramosie senza limiti, posseduti dalle cose accumulate senza ritegno, posseduti da piaceri a cui non mettiamo argini, posseduti dal male compiuto impunemente, sporcati, resi impuri fin nel profondo dell’anima.
Solo tu, Signore Gesù, puoi strapparci alle catene costruite con le nostre mani. Solo tu puoi riportarci sui sentieri abbandonati con superbia ed arroganza, illusi di poter farcela da soli. Solo tu puoi donarci di nuovo una pace da tempo sconosciuta.
La tua parola ci regala uno sguardo limpido e un cuore retto. Il tuo amore ridesta la nostalgia di un’autentica libertà.

mercoledì 25 gennaio 2012

328 - LA PERCEZIONE DEL TEMPO OGGI

Per una pausa spirituale durante la IIIª Settimana del Tempo ordinario

Il tempo si spiega solo per mezzo del tempo. Sembra impossibile dire che cosa esso sia senza fare uso di una serie di termini (mobilità, continuità, vicende, successione, evoluzione, illimitato, svolgimento, durata, azione...) che ne presuppongono la conoscenza o almeno l’esperienza.
Platone, nella sua prospettiva idealista per cui ciò che cambia è effimero e inferiore, definisce il tempo «l’immagine mobile dell’eternità». Aristotele lo considera invece la misura del movimento articolata secondo il ‘prima’ e il ‘poi’, e così afferma che lo spazio è necessario per definire il tempo: solo Dio, motore immobile, è eterno, cioè fuori del tempo. Einstein lo considerava la quarta dimensione, dopo altezza, larghezza e profondità; oggi anche le neuroscienze cercano di trovarne una possibile definizione sulla base di dati oggettivi, dei processi cerebrali, degli effetti sul comportamento.
La nostra vita è strutturata temporalmente, distesa, talvolta letteralmente portata via nel fluire inquieto del tempo, tanto che riflettere sul senso del tempo non è distinguibile dal riflettere sul senso stesso della vita. Non possiamo fare a meno del tempo, non possiamo uscirne, è quasi impossibile ignorarlo; e tuttavia spesso ci si chiede se esista davvero o se sia solo una sovrastruttura culturale, insomma una creazione degli esseri umani. Dice Agostino nelle Confessiones che il tempo, come l’universo, è stato creato da Dio e riguarda l’uomo, ma ovviamente ciò non basta a definirlo, la sua intima natura resta misteriosa, anche se l’uomo lo sente così inseparabile dal proprio vivere, così familiare: «Se non mi chiedi che cosa sia il tempo lo so; ma se me lo chiedi, non lo so».
Siamo così ‘nel tempo’ per costituzione che forse senza di esso non potremmo più conservare la nostra autocoscienza, la nostra individualità; non potremmo pensare né avere rapporti con gli altri, perché anche la nostra capacità di amare è strutturata nel tempo. Senza le coordinate fondamentali di spazio e tempo noi non sappiamo più parlare né pensare né vivere, forse nemmeno sentire.
E questo farebbe pensare talvolta che anche oltre il tempo nostro qualcosa della nostra temporalità debba essere preservato. Cioè che un qualche divenire nel tempo non possa restare estraneo neppure alla Vita eterna. Certo è che l’immobilità nello spazio e nel tempo che connotava la concezione tradizionale del paradiso non ha aiutato a elaborare una spiritualità cristiana in prospettiva escatologica.
In qualche momento perfetto abbiamo un senso intensificato di noi stessi, degli altri, forse della bellezza del mondo della natura, e allora, come si dice, desidereremmo che il tempo si fermasse. Anche per chi giunge ad averne l’esperienza, la felicità è fatta di momenti: è difficile distenderla nel tempo. Anzi la percezione del tempo che passa può gettare un’ombra sui nostri momenti di gioia, come se portasse con sé il pensiero dell’impossibilità di conservare un momento perfetto (etimologicamente perfetto significa ‘compiuto’: dunque, in un certo senso, come uscito dal tempo, fuori dalla nostra esperienza…). Addirittura, mentre si è ancora nel momento felice, sembra di essere già proiettati in un futuro in cui questo ‘adesso’ sarà ricordo o rimpianto.
In questo senso il tempo, senza cui non solo non potremmo vivere, ma nemmeno pensare la vita, può apparire come un limite alla pienezza umana e alla felicità possibile. Così Orazio in una delle sue odi più famose anche per la fascinosa brevità, esorta a «tagliare via la speranza a lungo termine» dallo spazio della vita che forse sarà breve, forse no, comunque non possiamo esserne sicuri. Quindi, carpe diem! Noi di solito lo traduciamo un po’ liberamente «cogli l’attimo», perché per noi il giorno è già un intervallo di tempo un po’ troppo lungo per poter essere vissuto in pienezza. L’idea del carpe diem ha un suo fascino anche al di fuori della prospettiva epicurea di Orazio, se intesa come invito a caricare di senso ogni momento della vita, a viverlo più intensamente; recepita da una personalità più debole e poco strutturata, può anche indurre a sbriciolare l’esperienza umana senza ricavarne senso né frutto.
Anche ammettendo che questa vita fatta di attimi intensi – ma può davvero ogni attimo essere intenso? – possa essere considerata appagante, sembra priva di un filo conduttore che leghi insieme questi attimi in un tutto coerente; resta una serie di attimi, ma impedisce di vivere la propria esistenza come storia ricca di senso; soprattutto impedisce di pensare una conclusione che sia il vertice di questa storia e ne sveli il senso implicito. In realtà l’essere umano non può fare a meno della speranza a lungo termine, anche se di solito la ignora anche solo come esigenza.
Ma se non può appagarci in pieno l’idea epicurea di Orazio nonostante il suo fascino, nemmeno quella stoica di Seneca, nonostante la sua nobiltà e ragionevolezza, risponde ai nostri bisogni più profondi. Seneca, nel De brevitate vitae e nelle Lettere a Lucilio, disapprova gli atteggiamenti correnti a riguardo della fugacità del tempo e della brevità della vita umana, osservando che la vita non sarebbe poi così breve se non fosse in gran parte sprecata; non dipende da noi aggiungere anni o mesi alla nostra vita, ma dipende da noi usare bene del tempo che ci è dato. Stigmatizza con preoccupazione il nostro perdere tempo, rinviare, lasciar scorrere la vita senza frutto. E di sicuro vi è molta verità nella sua osservazione secondo cui «certi spazi di tempo ci vengono rubati, altri sottratti senza che ce ne accorgiamo, altri ci scorrono via inavvertiti…». Non possiamo fare a meno di rilevare che anche la soluzione di Seneca è sulla linea dell’efficientismo, sia pure nobile e rivolto alla cura dell’interiorità; non appaga fino in fondo lo spirito, non sembra guardare alla vita umana come storia.
È vero che la maggior parte del nostro tempo sembra talvolta un tempo di attesa vuota e ansiosa, di passaggio inevitabile o di preparazione – ‘tecnica’, in prosa – a una vita vera, importante, che però rimane sempre in arrivo e quando arriva non sempre viene riconosciuta, perché si configura già come passaggio a un’altra fase. Il tempo scorre. Anzi, nonostante la lentezza disperante di certi particolari momenti che tutti conosciamo, fugge: «fugit irreparabile tempus». «La vita fugge e non s’arresta un’ora / e la morte vien dietro a gran giornate/ e le cose presenti, e le passate / mi danno guerra, e le future ancora», dice Petrarca in un suo sonetto agitato e struggente.
Sommando il tempo di passaggio, il tempo che abbiamo chiamato ‘in prosa’ e infine quello dell’indispensabile sonno – quasi sempre un po’ meno del necessario –, si resta sospesi e sgomenti al pensiero di quanto poco tempo resta per vivere davvero, per crescere, per scoprire, per amare e anche (possibilmente) per sentirsi felici. È possibile vivere nel tempo senza essere imprigionati in schemi e parcellizzazioni senza senso, oppure imprigionati nella quotidianità fino a sentirsi deprivati di sé, del proprio vivere? Guardandoci intorno abbiamo l’impressione che oggi la percezione del tempo sia nello stesso tempo sminuzzata e immobile.
E non ci è di molto aiuto l’abituale distinzione fra tempo fisico, misurabile, e tempo soggettivo o fenomenico o psicologico. Di solito il bambino piccolo non ha la percezione chiara del tempo: al più una percezione relativa, del tipo «è mattina – è sera». Impara più tardi a distinguere le stagioni, solo più tardi – ma forse allora già non è più bambino – acquisisce la consapevolezza del passato in quanto passato, di un tempo che non torna. I giovanissimi hanno di solito l’impressione che il tempo scorra troppo lentamente perché hanno fretta di crescere, di conquistare autonomia; gli adulti lo sentono scorrere troppo in fretta non solo perché avvertono il disagio dell’età che avanza, la stranezza di ritrovarsi talvolta più vecchi anagraficamente di quanto interiormente si sentono, più vicini alla morte…
La percezione, la coscienza del tempo che si vive non procede sempre secondo orologi e calendari, ma può anche essere in contrasto con le misurazioni oggettive del tempo. Nel nostro mondo di «adulti attivi e impegnati» (ma è una situazione che sempre più coinvolge anche i ragazzi, presi da tanti impegni quotidiani e pressati da obblighi tipo quelli scolastici, non sempre ignorabili; e anche tanti anziani, sempre più attivi fino a un’età avanzata) predomina la sensazione di non poter essere veramente padroni del proprio tempo, che le giornate volino via senza essere state veramente vissute, ma solo sfiorate superficialmente, correndo da un impegno a un altro, correndo sempre senza arrivare realmente da nessuna parte.
Il presente è l’unico tempo veramente ‘nostro’: sia perché è l’unico su cui possiamo influire, sia perché è l’unico che riusciamo realmente a percepire. Possiamo pensare anche il passato, per mezzo della memoria, e il futuro, per mezzo dell’immaginazione; ma il passato è sempre filtrato dalla sensibilità e dai bisogni del presente, e con gli strumenti del presente viene immaginato il futuro. È importante essere consapevoli di questo, perché l’inevitabile schema di passato-futuro non sia per il nostro spirito una prigione, ma un’ispirazione: un ‘più’ e non un ‘meno’ di vita qui e ora.
Il tempo è anche una responsabilità che ci interpella come persone e come credenti; è un luogo teologico, perché è nel fluire feriale del krónos che ci viene incontro, non sempre folgorante o immediatamente riconoscibile, il kairós del nuovo di Dio.

sabato 21 gennaio 2012

327 - IL REGNO SI FA CHIAMATA - 22 Gennaio 2012 – IIIª Domenica ordinaria

(Giona 3,1-5.10 1ª Corinti 7,29-31 Marco 1,14-20)

«Il tempo è compiuto e il regno di Dio è vicino; convertitevi e credete nel Vangelo» (v. 15). Sono le prime parole di Gesù nel vangelo di Marco e può essere considerata la sintesi del Vangelo. Il tempo dell’attesa è compiuto, è arrivato il momento decisivo: Dio inaugura il regno, si fa presente nella storia dell’uomo per liberarlo e salvarlo. Cosa intendeva dire Gesù con l’espressione: «Il regno di Dio è vicino»? La prima impressione è che si tratti di una vicinanza di tempo: oggi, domani, tra pochissimo. Come quando si dice che la primavera è vicina: una vicinanza inevitabile, basta aspettare. Gesù però, con l’avverbio «vicino», voleva dire «possibile subito». Questo è importante: un frutto pende a un metro da me, mi basta un piccolo movimento per prenderlo e mangiarlo. Mi è vicino dal punto di vista dello spazio, ma non è questa vicinanza che me lo fa cadere in bocca. È il mio gesto di impossessarmene. Se non compio questo gesto, il frutto penderà e resterà là, come se fosse lontanissimo da me o addirittura inesistente. Il regno di Dio è già presente in mezzo a noi, è Gesù stesso, basta fargli spazio, farlo entrare nella nostra vita. Il regno di Dio può essere vicino o lontano, tutto dipende da noi, dalla nostra decisione. Per entrare nel regno è necessario convertirsi e credere al vangelo. ‘Convertirsi’ significa fare spazio a Dio e ai suoi progetti, abbandonare un modo di pensare e di agire non conforme alla sua parola. ‘Credere’ significa accogliere e aderire alla persona e all’azione di Gesù, inviato da Dio per annunciare e offrire il perdono, la riconciliazione, la pace e la salvezza; significa aprirsi con fiducia a Gesù e al suo annuncio, mettendo lui a fondamento della propria esistenza. «Convertitevi e credete» non indica un atto momentaneo, transitorio, ma un comportamento costante e continuativo, significa: perseverate nella conversione e nella fede.
La sintesi del messaggio di Gesù è seguita dalla chiamata di Pietro, Andrea, Giacomo e Giovanni (vv. 16-20). Gesù è la figura dominante, il protagonista assoluto, il soggetto dei verbi principali: «vedere, dire, chiamare». Tutto è messo in movimento dalla sua parola autorevole. Non sono i quattro fratelli che scelgono Gesù, ma è Gesù che li sceglie. I discepoli non si presentano di propria iniziativa a Gesù, non fanno domanda per partecipare alla sua opera. D’altra parte Gesù non li assume come collaboratori, con stipendio e vacanze assicurate. Gesù li chiama. La sua chiamata è esigente, ma è anche tale da dare pienezza di senso alla loro vita.
I primi quattro discepoli vengono chiamati mentre stanno svolgendo il loro lavoro: «Passando lungo il mare di Galilea vide Simone e Andrea mentre gettavano le reti» (v. 16). Sembra un’annotazione accidentale, invece è molto significativa. Gesù fa la sua proposta a partire da ciò che stanno facendo e propone loro di lasciare quel che stanno facendo: «Vi farò diventare pescatori di uomini» (v. 17). La promessa è formulata al futuro («Vi farò diventare»), cioè vocazione e missione non avvengono nello stesso momento, la missione si sviluppa solo dal discepolato, dalla consuetudine di vita e dalla familiarità con Gesù.
L’immagine della pesca, di per sé, non è un’immagine di salvezza; infatti, essere presi nella rete non è un fatto positivo. Ma Gesù usa questa immagine in maniera nuova. Le acque profonde del mare sono simbolo di morte, quindi, applicata agli uomini, la pesca, il prendere nella rete, diventa immagine di riunificazione degli uomini per sottrarli alla morte, per salvarli. La sua chiamata è un invito a prendersi cura degli uomini per far loro conoscere la salvezza e renderli partecipi di essa.
La risposta dei primi discepoli diventa modello esemplare di ogni risposta: «E subito lasciarono le reti e lo seguirono» (v. 18); «Ed essi lasciarono il loro padre Zebedeo nella barca con i garzoni e andarono dietro a lui» (v. 20). Comincia l’impegno su un altro fronte, che li porterà a lasciare il lago, la terra, il padre... Quello che è fortemente evidenziato è il seguire Gesù, nella sua stessa missione di annunciare il vangelo agli uomini, ovunque si trovino.
PREGHIERA - Il tuo non è un messaggio qualsiasi. Ogni giorno veniamo bombardati da parole accompagnate da immagini seducenti che si propongono di piegarci a qualche scopo preciso. Vogliono catturare il nostro consenso per costruire il potere di qualcuno o raggiungere il nostro portafoglio per accaparrarsi il denaro che abbiamo. Talvolta si tratta di idee luccicanti lanciate in modo sofisticato per guadagnare seguaci a questo o quel sistema.
Tu ci porti un “Vangelo”, una buona notizia, che può realmente trasformare la nostra esistenza. Ci riveli che Dio è all’opera, agisce in mezzo a noi e offre a tutti la possibilità di una pienezza e di una gioia sconosciute. Non c’è nulla che possa fermarlo, nessuno che possa impedire il realizzarsi dei suoi progetti. Ma egli vuole fare appello alla nostra libertà, alla nostra decisione.
Niente sarà più come prima, Gesù, se accetteremo di metterci nelle tue mani, tu però non ci proponi un’esperienza passeggera, non ti accontenti dello slancio di un momento. Solo se siamo pronti a lasciare tutto per te assaporeremo il gusto di un mondo nuovo.

326 - È POSSIBILE TRASMETTERE L’ESPERIENZA DELLA FEDE?

Per una pausa spirituale durante la IIª Settimana del Tempo ordinario

A dir la verità, la domanda non solo suona un po’ strana, ma la risposta sembra anche altrettanto ovvia, visto che da secoli «si trasmette la fede cristiana». Eppure la questione non è così banale. Infatti, se la fede fosse una questione di ‘contenuti’ da credere (come un libro, un catechismo o la stessa Scrittura) o di azioni da tramandare (come celebrare un sacramento o come vivere nella propria vita alcune indicazioni del vangelo), allora è facile trasmetterla: basta far arrivare dal passato queste ‘cose’ e questi ‘insegnamenti’ in modo da renderli accessibili anche all’oggi e favorire così la decisione delle persone. Ma se la fede è una scelta di libertà per una persona amata, una decisione di vita, prima e ancor più che una questione di ‘cose’ e di ‘insegnamenti’, come è possibile trasmetterla ad un altro? È mai possibile trasmettere una realtà così personale?
La questione, dunque, è degna di essere pensata, perché qui non è solo in gioco la necessità di essere dei credenti che trasmettono non solo a parole ma con i fatti la loro fede, bensì è in gioco il cuore stesso della fede cristiana.
Spieghiamoci. L’esperienza di vita pastorale e catechistica insegna che non è sufficiente semplicemente enunciare i ‘contenuti’ del credere, perché solo dentro una buona testimonianza quegli stessi contenuti possono diventare un’occasione seria per l’interlocutore di incontrare Gesù. Per dirla con la famosa affermazione di papa Paolo VI: «l’uomo contemporaneo ascolta più volentieri i testimoni che i maestri… o se ascolta i maestri lo fa perché sono dei testimoni» (Esortazione apostolica Evangelii Nuntiandi [1975], n. 41). Questa dimensione rimane vera, ma rimane vera per tutte le realtà, non solo per il cristianesimo: l’uomo (non solo d’oggi) cerca nella testimonianza di vita una verifica della credibilità delle parole annunciate con le labbra, per lo meno di quelle che riguardano il senso del vivere (l’esempio, banale, ma spesso ripetuto: come può un figlio ‘credere’, ascoltare un genitore fumatore che gli dice che non deve fumare perché il fumo fa male?).
Ma la questione in gioco con la ‘trasmissione della fede’ è ancor più radicale e investe la singolarità del cristianesimo, che a differenza delle altre grandi religioni monoteistiche, non è una ‘religione del Libro’ (come l’ebraismo e l’islam), bensì la ‘religione della Persona’, cioè di Gesù. Se per trasmettere l’ebraismo e l’islam è sufficiente che almeno il Libro sacro venga trasmesso, per il cristianesimo no: anche se mi fosse trasmesso il vangelo, ma non la persona di Gesù, il compito della trasmissione della fede non sarebbe assolto, perché credere è sempre un incontrare personalmente Gesù presente. Ma come è possibile ‘trasmettere Gesù’? Si può ‘trasmettere’ una persona?
Al tempo della vita terrena di Gesù, raccontataci dal vangelo di Giovanni di oggi, fare tale esperienza era abbastanza facile: a chi cercava di sapere dove «dimorasse» (v. 38) il Maestro, Gesù stesso rispondeva dicendo della necessità di andare con lui e di «vedere» con i propri occhi (v. 39). E i discepoli «andarono dunque e videro dove egli dimorava e quel giorno rimasero con lui» (v. 39). Così, avendo «trovato il Messia» (v. 41), è facile per loro ‘trasmettere’ questo incontro, «conducendo» direttamente da Gesù (v. 42) chi fosse interessato all’incontro. Ma oggi? Come è possibile ‘trasmettere’ Gesù? Come è possibile condurre all’incontro personale proprio con il Maestro, con la sua persona e non solo con i suoi insegnamenti o le sue idee?
Qui ci vengono in aiuto alcune affermazioni del concilio Vaticano II, il quale ha parlato della Chiesa, che «è, in Cristo, in qualche modo il sacramento, ossia il segno e lo strumento» della presenza di Dio nel mondo (Lumen gentium, n. 1). Il «segno» e lo «strumento», che permette l’incontro reale con Gesù Vivente oggi, è la comunità dei credenti che vive della presenza di Gesù. Come ogni sacramento ha bisogno di una ‘materia’ per far agire la grazia (il pane per l’eucaristia, l’acqua per il battesimo, ecc.), così Gesù ha bisogno della ‘materia’ (passi l’espressione) ‘Chiesa’ per rendersi presente nel mondo: «Dove sono due o tre riuniti nel mio nome, lì sono io in mezzo a loro» (Mt 18,20). Ecco dov’è, oggi, la «dimora», il luogo in cui è possibile incontrare il Maestro: Egli vive dentro la vita di chiunque possa dire: «Non sono io che vivo, ma è Cristo che vive in me» (Gal 2,20).
La necessità della Chiesa (che è diversa da qualsiasi altro tipo di comunità sia sociale sia religiosa), dunque, deriva direttamente dal fatto che il cristianesimo è incontrare personalmente Gesù. Proprio perché la ‘verità’ che deve essere trasmessa non è semplicemente un’idea, una ‘cosa’ (un ‘contenuto’), ma una ‘vita’, una persona, la ‘via’ che la rende accessibile è data non da un libro, ma da una comunità di persone (la Chiesa) che, vivendo di quella verità-vita, la rendono presente. Per questo è decisivo domandarsi, dalla fede delle nostre comunità, dall’insieme della vita delle nostre comunità, quale immagine di Gesù si stia trasmettendo: Chi incontra le nostre comunità, incontra davvero Gesù? Chi vede le nostre comunità che immagine, che idea può farsi del Dio di Gesù?

sabato 14 gennaio 2012

325 - LA FEDE: INCO0NTRARE CRISTO - 15 Gennaio 2012 – IIª Domenica ordinaria

(1° Samuele 3,3b-10.19 1ª Corinti 6,13-15.17-20 Giovanni 1,35-42)

La radice cristiana della nostra esistenza, ciò che le dà fondamento, è l’incontro con Gesù: essere cristiani non significa aderire a una dottrina, ma incontrare la sua persona. Egli ci trasmette la volontà di Dio: la nostra salvezza! Seguire Gesù, perciò, non è un fatto privato, impegna a costruire il corpo della Chiesa, la famiglia di Dio come segno di salvezza nel e per il mondo.
Il cristianesimo non è una «religione del Libro», ma l’incontro con la stessa persona di Gesù, riconosciuto come il Vivente e presente nella storia dell’umanità. Segno e strumento, che permette l’incontro reale con Gesù vivente oggi, è la comunità dei credenti che vive della presenza di Gesù. Per questo l’ascolto della sua Parola e la disponibilità all’esperienza di comunione sono la condizione per seguirlo. La sua chiamata è personale, ma coinvolge con altri e, idealmente, con tutta la terra, nella reciproca responsabilità e nella lode riconoscente a Dio.
L’evangelista Giovanni nel brano di oggi descrive un passaggio di consegne, racconta la fine di un discepolato e l’inizio di un altro. Il vecchio maestro indica ai discepoli il nuovo maestro: Gesù. Questa pagina fotografa uno sguardo e raccoglie alcune parole importanti pronunciate dal Battista: «Ecco l’agnello di Dio!» (v. 36). Per i due discepoli è stato sufficiente fissare gli occhi rapiti del loro primo maestro e dare credito a queste parole per intraprendere un nuovo cammino. Tra sguardi che si incrociano e parole decisive finisce una storia e ne inizia un’altra. Gesù «passava» (v. 36). Non sappiamo né da dove, né verso dove. Non abbiamo alcuna indicazione di luogo. Sappiamo soltanto che Gesù in quel momento «passava». L’espressione ha tutta l’aria di volerci dire qualcosa di più. Essa descrive l’eterno movimento di Gesù che desidera raggiungere ed entrare nella vita dell’uomo: non c’è vita in cui Gesù non passi, non c’è storia che Gesù non tocchi. Il suo discreto procedere ai margini della nostra vita chiede la risposta della libertà, chiede quell’affidamento rischioso che è la sequela. I due discepoli raccolgono l’appello verbale del Battista e quello silenzioso di Gesù che, semplicemente, passa.
Il primo atto di questo affidamento è rappresentato dal «seguire» Gesù. I due discepoli seguono l’uomo indicato da Giovanni senza conoscerlo. Camminano dietro a lui senza condividere null’altro se non la strada che stanno facendo. Seguono Gesù sullo slancio infuso loro dal Battista, un Gesù ancora muto e anonimo.
Il secondo atto di questo racconto è costituito dalla domanda di Gesù: «Che cosa cercate?» (v. 38). Sono le prime parole di Gesù nel quarto vangelo. Questa domanda è ben più che un atto di cortesia di Gesù verso questi due sconosciuti che lo seguono, è una specie di macigno gettato nel mare della nostra presunta tranquillità. Ogni uomo ha mille risposte per questa domanda, e allo stesso tempo sa che nessuna è quella davvero giusta. Ogni uomo sa che sta cercando. La domanda di Gesù mette i due discepoli, e tutti noi, in contatto con il dinamismo del desiderio umano. Prenderne coscienza è il primo passo verso Dio.
Il terzo atto del racconto è un’altra domanda con cui i due rispondono a Gesù: «Rabbì, dove dimori?» (v. 38). In questa domanda ne è nascosta un’altra molto più profonda. I due hanno chiesto a Gesù di manifestare la sua identità. La replica di Gesù costituisce l’essenza del cristianesimo: «Venite e vedrete» (v. 39). È l’invito ad un’esperienza che ognuno deve compiere in prima persona. Non sono ammesse deleghe, nessuno la può vivere al posto di un altro. «Andarono e videro»: questa esperienza è la radice di tutte le successive, è la radice di quella conoscenza del maestro che fece scrivere all’evangelista l’indimenticabile frase del prologo: «Noi abbiamo contemplato la sua gloria, gloria come del Figlio unigenito che viene dal Padre, pieno di grazia e di verità» (1,14). In quel pomeriggio, i due discepoli iniziarono ad intuire il mistero del «Verbo fatto carne». «E videro dove abitava e rimasero con lui» (v. 39): il verbo «rimanere» è quello che per eccellenza caratterizza il discepolato nel quarto vangelo. È il termine che domina il capitolo 15, nel quale Gesù, «vera vite», esorta i suoi discepoli a rimanere in lui, a restare nel suo amore. Non sappiamo che cosa Gesù disse e fece in quel pomeriggio. Sappiamo solo che, dall’esperienza che fecero con Gesù, nacque nei due discepoli la certezza di avere trovato quello che cercavano. La loro ricerca poteva dirsi conclusa. Andrea, uscito da quell’incontro, trovò suo fratello Simone e con entusiasmo gli annunciò: «Abbiamo trovato il Messia» (v. 41). Chi ha incontrato Cristo, e si è fatto discepolo, diventa uno che a sua volta invita altri a partecipare a questa importante scoperta.
PREGHIERA - È Giovanni il Battista, Gesù, a fornire l’indicazione attesa perché è lui che riconosce in te «l’agnello di Dio». Ed è sulla sua parola che i due discepoli si mettono per strada e ti seguono. La storia della fede comincia proprio così: muovendo i nostri passi sulle tue orme, accettando di venirti dietro, mossi da un desiderio importante, quello di conoscerti e di stare con te.
No, non c’è nulla di magico, di istantaneo. Una relazione non si improvvisa: ci vuole tempo se si vuole entrare nel mistero di una persona e poi bisogna essere pronti ad accogliere un dono insperato.
Le domande, a questo punto, si incrociano tra loro. Tu ti accorgi quando qualcuno vuole veramente incontrarti ed è disposto a lasciare ogni cosa pur di trovare il tesoro più prezioso. Sì, perché sei proprio tu il destinatario della nostra attesa, tu il Maestro che pronuncia parole che scandagliano l’esistenza, tu la Guida che conduce per sentieri sconosciuti, tu il Messia, l’Inviato di Dio, capace di trasformare la vita facendoci partecipare all’avventura del Regno.

324 - INCARNAZIONE E MISSIONE

Per una pausa spirituale a metà settimana della Festa del Battesimo di Gesù

C’è una buona notizia da portare a tutti, una parola che diventa realtà di gioia e di liberazione per tutti coloro che l’accolgono con cuore sincero. C’è un’umanità dolente, provata dal male, dal peccato, dalla sofferenza che attende l’Inviato di Dio per essere liberata e generata ad una speranza nuova. È a questa gente che Gesù si mescola. Vanno da Giovanni il Battista. Vanno a compiere un gesto di conversione, di cambiamento, per andare incontro a Colui che viene nel nome di Dio. Anche Gesù riceve quel battesimo, lui che non ha commesso peccato. Anche Gesù condivide questa preparazione, questo entusiasmo, questa decisione di volgersi verso Dio.
In fondo non è venuto per coloro che si ritengono giusti e non hanno nulla da rimproverarsi. Non è stato mandato a chi è gonfio d’orgoglio, cosciente dei suoi meriti davanti a Dio, ma proprio ai peccatori, alla gente che si è sporcata di cattiveria e di infedeltà, ma ora ha voglia, una voglia intensa, del nuovo, di un profumo di pulito che solo Dio può regalarle. Saranno loro i primi destinatari della sua parola. Per loro affronterà i rimproveri e le critiche dei benpensanti. Per difendersi arriverà ad esporre mortalmente se stesso. In quell’inizio, al fiume Giordano, c’è già il senso di tutto ciò che sta per accadere.
E così il suo battesimo diventa una ‘manifestazione’. I cieli si aprono perché ora non c’è più nessuna separazione tra Dio e l’umanità, dal momento che il suo Figlio è diventato anch’esso un uomo. Lo Spirito discende su Gesù perché egli affronti le difficoltà e gli ostacoli che incontrerà nel suo cammino. Lo Spirito non è estraneo, ma partecipa intensamente alla sua missione. La voce del Padre riconosce in Gesù il Figlio prediletto, il dono perfetto del suo Amore fatto a tutti gli uomini.
Se non ci fosse la festa del Battesimo del Signore noi rischieremmo, molto probabilmente, di fermarci al presepio. E in un qualche modo di separare il mistero dell’Incarnazione dalla Passione, Morte e Risurrezione di Gesù. Così non apparirebbe quanto è, invece, decisivo, e cioè che il Figlio di Dio si è fatto uomo perché ha una missione da compiere: salvare l’umanità. Egli dona ad ognuno misericordia e grazia attraverso un annuncio di gioia (un ‘vangelo’ per l’appunto) e gesti di liberazione e di guarigione, ma soprattutto offre se stesso, la sua stessa vita sulla croce, per amore. Il tempo del Natale non può dunque terminare senza l’evento del battesimo di Gesù. In esso appare la solidarietà del Cristo con l’umanità peccatrice, ma anche la sorgente profonda della sua azione, la comunione del tutto unica che lo lega al Padre nello Spirito.
La scena di per sé non sembra avere proprio nulla di ‘natalizio’. Non si svolge a Betlemme, ma in riva al Giordano. Non mette al centro un bambino, ma un uomo fatto, sulla trentina. Non gli pone accanto Maria e Giuseppe, i pastori e i magi, ma un profeta dallo stile inusuale e dai toni perentori. Eppure, nonostante tutto, si tratta di un racconto di ‘incarnazione’ in cui possiamo toccare con mano cosa significhi che «il Verbo si è fatto carne». Quello che abbiamo ricordato a Natale non è solo un mistero da contemplare, ma anche la strada scelta da Dio per venire incontro all’umanità, per strapparla al potere del male e per offrirle di entrare in un’alleanza d’amore che è partecipazione alla comunione trinitaria.
La scelta di farsi uomo non è stata, per il Figlio, una semplice passeggiata, un percorso trionfale: egli si è immerso totalmente nella condizione umana, condividendo tutto ciò che la caratterizza, eccetto il peccato. Scendendo nelle acque del Giordano, dunque, ricevendo il battesimo dal Battista, ha mostrato di essere tenacemente unito al popolo dei peccatori che si volgono verso Dio con un cuore nuovo. In mezzo ad essi ha «piantato la sua tenda»: della loro esistenza nulla gli sarà ignoto. Perché non è a «distanza di sicurezza» che li vuole salvare, ma attraverso un contatto che finirà col fare di lui l’Agnello che prende su di sé i peccati del mondo e che accetta di lasciarsi inchiodare ad una croce. Non è casuale, dunque, che – per guarirli – egli ‘tocchi’ coloro che sono afflitti da qualsiasi malattia, ‘tocchi’ anche i lebbrosi, il cui contagio fa decisamente paura. Non è casuale che venga accusato di mescolarsi ai pubblicani, di prendere cibo con loro e di lasciarsi avvicinare anche dalle donne di cattiva reputazione. Se lo fa è perché questo fa parte della sua missione, perché attraverso di lui il Padre vuole offrire a tutti il suo perdono. E quindi, costi quel che costi, egli vuole andare fino in fondo, su questa strada di fedeltà che pagherà duramente.

sabato 7 gennaio 2012

323 - TU SEI IL FIGLIO MIO, L’AMATO - 08 GENNAIO 2012 – Battesimo di Gesù

(Isaia 55,1-11 1ª Giovanni 5,1-9 Marco 1,7-11)

Ultima delle solennità del tempo di Natale, la festa del Battesimo del Signore costituisce una specie di saldatura tra il mi stero dell’Incarnazione e il percorso delle prime domeniche del tempo ordinario. Ci strappa, in modo piuttosto brusco, alla capanna di Betlemme, ai pastori e ai magi, per farci cogliere in profondità il significato di ciò che è accaduto.
Quel bambino, che ci sorride nel presepio, dalla sua culla improvvisata, senza dire nulla, è venuto per realizzare il progetto di Dio, il Padre suo. Ha un messaggio da portare perché è la Parola fatta carne, e si tratta di un lieto annuncio che cambia la vita di tutti quelli che l’accoglieranno. La sua parola verrà resa efficace da gesti di bontà e di liberazione, di guarigione e di perdono: non è stato annunciato già dalla notte della sua nascita come «il Salvatore, il Cristo, il Signore»? Certo, le sue azioni e le sue scelte scandalizzeranno farisei e scribi, sacerdoti del Tempio e capi del popolo. Ma i poveri ne riceveranno consolazione e speranza. Il suo amore si mostrerà nel dono della sua vita, fino in fondo, fino alla morte sulla croce: non è il conquistatore che impone la sua forza, ma l’Agnello che offre se stesso. E, proprio quando tutto sembrerà compromesso in modo irrimediabile, Dio manifesterà con la risurrezione che quella era l’unica strada da percorrere per raggiungere gli uomini e realizzare il suo disegno di salvezza.
È dall’acqua del Giordano che esce questo Messia, che realizza il disegno di Dio. È lì che avviene la manifestazione, lì che si aprono i cieli. Perché la terra ora è abitata dal Figlio di Dio, perché in lui c’è la pienezza dello Spirito. Se siamo disposti a seguire Gesù, come ci proporranno le domeniche a venire, potremo scoprire tutto questo.
In questo modo, con una pedagogia che è veramente splendida, la Chiesa ci fa passare dal Gesù bambino al Gesù adulto, dal Gesù che ci sorride al Gesù che ci parla, dal Gesù del presepio (di legno o di terracotta o di materiale plastico) al Gesù vivo. È quest’incontro che può cambiare la nostra vita.
Il presepio, dunque, è solo un passaggio, una rappresentazione che ci ha messo di fronte all’inizio di tutto: Dio che si fa uomo. Ma fermarsi lì vorrebbe dire perdere ciò che conta veramente: incontrare oggi il Salvatore, accogliere la sua Parola, ricevere la sua grazia nei santi Sacramenti, riconoscerlo nei poveri che incontriamo.
La festa del battesimo di Gesù ci porta a riflettere con consapevolezza sul nostro battesimo, del quale rivela il senso autentico: anche a noi viene detto, in forza del battesimo, «tu sei il figlio mio, l’amato». Siamo stati resi ‘figli di Dio’: qui sta la nostra radice, per una conversione continua al vangelo di Gesù.
PREGHIERA - È al fiume Giordano, Gesù, che tu oggi ci dai appuntamento. Ti mescoli alla folla dei peccatori disposti a cambiar vita, a prendere sul serio l’appello del Battista e a farsi battezzare per esprimere la loro decisione di liberarsi dal peccato. Per questi uomini e per queste donne tu sei venuto, Gesù, per offrire misericordia e grazia, per rivelare un Dio tenero e compassionevole.
È al fiume Giordano, Gesù, che lo Spirito scende su di te e il Padre ti riconosce come il Figlio, l’amato, mandato a realizzare il suo progetto d’amore.
È così che comincia la tua missione, è a partire da quel momento che tu dissemini attorno a te gesti e parole di speranza. È dal fiume Giordano, Gesù, che comincia il tuo viaggio tra le nostre debolezze e le nostre malattie, tra le nostre fatiche e le nostre speranze.
Lotterai a mani nude contro il male e la morte e con la forza dell’amore ci aprirai la via della vita.

venerdì 6 gennaio 2012

322 - MANIFESTAZIONE DI DIO AL MONDO - 06 GENNAIO 2012 – Epifania del Signore

(Isaia 60,1-6 Efesini 3,2-6 Matteo 2,1-12)

Benedetta storia dei Magi, che incanta i bambini e conduce i grandi a ripercorrere il loro itinerario di fede e a ringraziare Dio di quest’avventura che cambia la vita. A guardarci dentro, con attenzione e con cuore vigilante, emergono tutti i presupposti di una ricerca autentica.
CERCATORI DI DIO - Ci voleva costanza per sottrarre ore al sonno e al riposo e continuare a scrutare i cieli nella notte, per cogliere ogni traccia di luce. Ma la loro fatica ed i loro sacrifici sono stati ricompensati quando è apparsa quella stella, così diversa da tante altre. Per questo, nel silenzio non possono fare a meno di aver inteso i battiti dei loro cuori.
Ci voleva coraggio per abbandonare una vita tranquilla ed agiata, la propria terra e la propria gente. Ci voleva audacia per partire, per mettersi in viaggio, senza neppure una meta precisa, un obiettivo sicuro, mossi solo dal desiderio di comprendere quell’appello scritto nella volta del firmamento.
Ci voleva determinazione per andare avanti, per macinare chilometri e chilometri, accettando la polvere e la stanchezza di ogni giorno, i miraggi e le illusioni di un percorso accidentato, lasciandosi guidare solo da quella stella…
Ci voleva umiltà per rivolgersi alla competenza di altri uomini, alle loro conoscenze, dando voce all’interrogativo tenuto desto da tanto tempo: Dov’è il re dei Giudei che è nato? La loro poteva sembrare addirittura impertinenza, spudoratezza di stranieri che si interessano agli affari che non sono di loro competenza, che vogliono intendere i segreti di un libro non destinato a loro.
Ci voleva fiducia per accogliere la risposta saccente dei dotti che in ogni caso non si muovevano dalla capitale e prendere per buona l’antica indicazione del profeta.
Ci voleva un cuore di poveri e di semplici per riconoscere in quel bambino, figlio di povera gente, sistemato dentro un alloggio di fortuna, il Messia atteso, il re destinato a governare per sempre.
Ci voleva speranza per intravedere in quel piccolo d’uomo il Protagonista autentico della storia dell’umanità e per offrirgli dei doni preziosi.
La loro costanza, tuttavia, il loro coraggio e la loro determinazione, la loro umiltà, la loro fiducia di poveri, la loro speranza sono ancora oggi i segni distintivi di tutti coloro che cercano sinceramente il volto di Dio e che finiscono irrimediabilmente con l’incontrarlo.
ELOGIO DEL DESIDERIO - Sì, se accostiamo tra loro i testi della Scrittura proposti dal lezionario di oggi ci accorgiamo che emergono gli elementi decisivi dell’esperienza di fede.
• Nulla avviene se Dio non ci viene incontro. È la sua presenza, la sua venuta a rendere possibile l’incontro. Se Gerusalemme è invitata a rivestirsi di luce è perché «la gloria del Signore»brilla su di lei. Ecco cosa attira l’attenzione delle genti (1a lettura). Allo stesso modo l’apostolo deve ammettere che tutto è cominciato con la ‘rivelazione’ del mistero e che il suo ‘ministero’ consiste nell’annunciare una ‘grazia’ destinata a tutti gli uomini (2a lettura). È quanto emerge anche nel racconto dei Magi. È sempre Dio a fare il primo passo: il suo Figlio si fa uomo per venire incontro agli uomini. Quel segno nel cielo, del resto, non è casuale: grazie ad esso comincia un viaggio che porterà i Magi ai piedi di Gesù.
• Ma senza il desiderio l’incontro non sarebbe possibile. In effetti è questo desiderio che induce a lanciarsi in un’avventura non priva di rischi. Esso nasce dalla coscienza di «qualcosa che manca» ed è riconducibile ad una sorta di ferita originaria che abita ogni essere umano. Il ‘desiderio’ è diverso dal ‘bisogno’. Il bisogno implica necessità (bisogna mangiare per vivere), appartiene all’ordine dell’assimilazione e della consumazione: l’oggetto (e purtroppo questo avviene anche quando si tratta di una persona) viene ingoiato, ridotto, distrutto. La soddisfazione del bisogno si realizza attraverso la consumazione dell’oggetto: preso dal bisogno-fame io faccio sparire dentro le mie fauci l’oggetto-pane. E di fatto l’uno annulla l’altro, secondo una logica divorante. In ambito religioso il bisogno produce l’idolo. Certo, bisogno e desiderio non possono essere separati rigidamente: il desiderio dell’altro trova la sua origine nel bisogno dell’altro, ma non è riducibile solamente ad esso. Il desiderio, infatti, accetta la distanza e la diversità dell’altro, si sottomette alla fatica del tempo, di una conoscenza e di una relazione che non esige un soddisfacimento immediato. In tal modo si articola con la verità e con l’essere.
• È il desiderio di conoscere «colui che è nato, il re dei Giudei» a muovere i Magi. La partenza, la fatica della strada, la domanda che si portano dentro e che pongono agli specialisti: tutto questo comporta dei ‘passaggi’ non facili. Ma il risultato è una ‘trasformazione’, un ‘cambiamento’. Il ritorno, infatti, avviene, ma ‘per un’altra strada’, non più da stranieri, ma da pellegrini. Così il viaggio è divenuto un pellegrinaggio, i viandanti dei pellegrini, e la via per tornare a casa è quella «della semplicità e dell’umiltà vista e contemplata a Betlemme di Giudea. I Magi – come ha concluso il biblista – sono i primi discepoli di Cristo che guidati dai loro desideri più profondi accolgono la proposta dell’ordine nuovo del Vangelo».
PREGHIERA - Nelle notti del mondo quando tutto tace hanno rivolto lo sguardo al firmamento e hanno scoperto, Signore, la tua stella, così diversa da tante altre che pur brillano nel cielo. Per questo si sono messi in viaggio, hanno affrontato i disagi di un viaggio inedito, denso di fatiche e di sorprese. È la storia dei Magi e di tutti quelli che attendono un segno, per partire e lasciarsi guidare dalla fiamma del desiderio.
Per le strade del mondo, nelle contrade più lontane hanno posto una domanda che bruciava loro in petto finché hanno trovato l’indicazione che cercavano.
È la storia di uomini misteriosi venuti dall’Oriente e di tutti quelli che non si lasciano
scoraggiare o intimorire perché abitati da una sete profonda.
In mezzo a tante case hanno individuato il luogo in cui tu, Signore, li attendevi. Ti hanno riconosciuto e adorato e hanno provato finalmente una grande gioia. È la storia di tutti i pellegrini che approdano alla fede. È la nostra storia, Signore.

321 - LA BENEDIZIONE DI DIO RAGGIUNGE TUTTI VOLENTIERI

Per una pausa spirituale nella prima settimana dell’anno

È la prima Parola di Dio che abbiamo ascoltato all’apertura del nuovo anno. Vale la pena rileggerla con calma e meditarla.
DAL LIBRO DEI NUMERI: «Il Signore parlò a Mosè e disse: «Parla ad Aronne e ai suoi figli dicendo: “Così benedirete gli Israeliti: direte loro: Ti benedica il Signore e ti custodisca. Il Signore faccia risplendere per te il suo volto e ti faccia grazia. Il Signore rivolga a te il suo volto e ti conceda pace”. Così porranno il mio nome sugli Israeliti e io li benedirò». (6,22-27)
Trai testi più antichi che possediamo dell’AT si può annoverare certamente il brano che abbiamo appena letto. Si tratta di benedizioni, una delle forme più arcaiche e semplici per esprimere l’alleanza tra Dio e l’uomo. Se consideriamo il brano all’interno del suo contesto letterario del libro dei Numeri, l’atto del benedire è centrale tra le molte azioni divine a favore del popolo. Infatti i primi capitoli del quarto libro della Bibbia sono dedicati alla descrizione della organizzazione cultuale delle tribù d’Israele attorno alla tenda che contiene l’arca dell’alleanza. In cammino verso la terra promessa Israele non procede in maniera disordinata e scomposta, ma si lascia guidare nel suo viaggio dalle disposizioni divine che vengono impartite tramite Mosè. Il Dio di Abramo, Isacco e Giacobbe non ha solo compiuto l’atto di liberare il popolo dalla schiavitù di Egitto, ma si è incaricato di accompagnare questa gente raccogliticcia (cfr. Nm 11,4) per educarla a stare alla sua presenza, trovando per ciascuno un posto adeguato.
In questa logica la centralità spaziale dell’arca nella disposizione del popolo di Israele è elemento fondamentale che dà senso alle varie norme di purità cultuale che gli autori sacri descrivono. Solo i leviti possono avvicinarsi all’arca e solo i sacerdoti, davanti all’arca, possono offrire a nome di tutto il popolo i sacrifici richiesti. Se per la nostra sensibilità odierna questo ordine può sembrare un creare divisioni e separazioni, per la sensibilità antica, terrorizzata dal caos e dalla confusione, che significa prevaricazione, tale ordine organizzato in classi distinte, uffici e differenti funzioni garantisce l’ordine dato nella creazione, assicurando a tutti la possibilità di intravvedere il primato di Dio in ogni cosa. Per chi si trova nell’accampamento l’essere vicino o lontano dall’arca conta poco, l’importante è che ciascuno stia al suo posto, nel luogo stabilito da Dio, né troppo vicino né troppo lontano, affinché ciascuno possa lodare Dio da quel luogo assegnato e così ricevere la benedizione divina.
Volgiamo lo sguardo al testo un po’ più da vicino. L’incarico di benedire viene direttamente da Dio che rimane soggetto principale di ogni benedizione. Infatti è Dio che incarica Mosè di dire ad Aronne le parole con le quali il popolo viene assicurato dei favori divini. La benedizione però è mediata attraverso Mosè, il grande amico di Dio, con il quale parlava faccia a faccia (cfr. Dt 34,10). Come la promessa fatta ad Abramo, anche la liberazione e la benedizione avvengono tramite uomini scelti da Dio per il bene del popolo. Fa parte della struttura della rivelazione biblica il coinvolgimento umano nell’opera di Dio per il bene di tutti. Nessun chiamato riceve un incarico solo per sé, ma sempre in vista di tutto il popolo. Lo stesso Mosè, probabilmente tentato a volte di fare da solo (cfr. Nm 11), riceve da Dio il comando di coinvolgere altri nell’incarico ricevuto; in primis Aronne suo fratello, il capostipite dei leviti, coloro che si dedicheranno, a nome di tutto il popolo, alla lode di Dio. Così in una scala discendente la benedizione di Dio raggiunge tutto il popolo di Israele, attraverso le parole stesse di Dio affidate ai suoi ministri.
La benedizione viene spiegata con diverse espressioni significative: custodire, sentire su di sé il volto splendente di Dio, ricevere la grazia di Dio, avere pace. Ogni espressione è densa di significato e trova in ampie pagine della Scrittura esempi concreti. All’inizio dell’anno val la pena puntare il nostro sguardo sul volto di Dio che nessuno ha mai visto (cfr. Gv 1,18), ma della cui luce abbiamo bisogno per procedere nel cammino. Come la nube ha accompagnato Israele nel deserto, facendosi luce di notte e ombra di giorno, così la benedizione del Signore accompagna il cammino dei suoi figli facendosi luce nei momenti di tenebra e protezione da tutto ciò che acceca e brucia.
Benedizione … una parola chiave che ci deve accompagnare tutto l’anno. Come abbiamo visto, benedizione fa emergere l’esperienza benefica della relazione con Dio: l’essere custoditi, avere il suo volto splendente davanti agli occhi, ricevere la sua grazia, trovare pace. Per tutte queste ragioni il credente «dice bene» di Dio e proprio questo gli infonde fiducia all’inizio di un nuovo tornante della storia!
BUON ANNO ACCOMPAGNATO DA 366 BENEDIZIONI!