sabato 30 marzo 2013

479 - 30 Marzo 2013 – TRIDUO PASQUALE - Sabato santo – Veglia pasquale

La celebrazione pasquale è il cuore dell’anno liturgico. I primi cristiani la celebravano durante la notte. Una liturgia semplice, all’inizio (un’assemblea in preghiera con la frazione del pane e l’agape fraterna), che durante i secoli si è arricchita di significato e di nuovi elementi. Sant’Agostino invitava i suoi fedeli ad essere svegli «in questa veglia che è come la madre di tutte le veglie e nella quale tutto il mondo veglia» (Sermone 219,1). E ancora: «Che cosa si poteva fare di più conveniente, se non ripetere con la nostra veglia il suo risveglio dai morti?» (Sermone 221,3).
La risurrezione del Signore trascende ogni prospettiva di sopravvivenza e di prolungamento della vita terrena, inaugurando un modo nuovo di esistenza. Non può meravigliarsi della Pasqua chi non prende seriamente l’annientamento della morte e la «discesa di Cristo agli inferi», ricordata nel Simbolo della fede battesimale: Gesù sfiora tutto ciò che è morto e imputridito, seminando la primavera della speranza. Il Figlio dell’Altissimo scende fino a toccare il fondo delle nostre miserie, perché si è fatto peccato per schiacciare i nostri peccati. Discende nel profondo, nel regno degli inferi per portare a coloro che sono morti prima di lui il messaggio della salvezza e della compassione di Dio. Sembra giacere chiuso in un sepolcro, ma in realtà sta operando come lievito nella storia e sta portando la luce a quanti giacciono nell’ombra della morte. Cristo non è mai inoperoso.
Vivere «come se Dio non ci fosse» non è più avvertito da tanti come un’esperienza angosciante, ma ovvia, attenuata dalla frenetica dispersione degli impegni, dalla smania del possesso e dalla ricerca dell’apparenza. Per chi crede, il grande silenzio di questa giornata è attesa mite e paziente, è segno di resistenza al nulla, è spogliazione di presunzione e di domande. Il Sabato santo è cerniera perenne tra la croce e la risurrezione, l’incontro del passato e del futuro nel presente di Dio in Cristo, la veglia della Chiesa sentinella del mattino di Pasqua. Don Tonino Bello scriveva: «Dal Calvario al sepolcro vi sono venti metri appena. Un percorso brevissimo. Però è il più lungo per chi deve fare un itinerario di fede». La morte sembrava vittoriosa, ma Cristo l’ha schiacciata con la sua croce. Cristo diviene la porta che apre una nuova strada per arrivare a Dio e inaugura una nuova via per la vita dell’uomo. Egli è veramente Colui che «ha il potere di dare la sua vita e di riprenderla» (Gv 10,17-18). Non è più un freddo cadavere, ma il Figlio di Dio pienamente vivo ed operante.

Il testo evangelico di questa notte santa (Luca 24,1-12) annota che è ancora buio sul mondo, quando le donne vanno al sepolcro con gli aromi, per portare a compimento l’unzione del corpo di Gesù, come antidoto alla precoce consumazione. La pietra rotolata via e la tomba vuota sono un primo segno; il corpo che non si trova, il secondo. Nel sepolcro non c’è più la spoglia di un morto, ma le spoglie della morte. Pietro non crede ancora alla risurrezione: solo si meraviglia. Non è ancora fede: un sepolcro vuoto e le bende a terra non bastano per suscitare la fede: questa è incontro personale col Risorto, il quale non ha bisogno di unguenti per essere imbalsamato, è «il Vivente», sempre.
Le “pulizie di Pasqua” devono iniziare dal nostro cuore. Non basta essere nati in un paese di tradizione cristiana per essere davvero ‘cristiani’. Si è tali solo se Cristo è presenza viva in noi. Dobbiamo farlo uscire dal sepolcro in cui lo abbiamo rinchiuso, liberarlo dalle bende dei nostri pregiudizi, togliere la pietra dei nostri rancori e delle nostre frustrazioni. La risurrezione di Gesù è una vita trasfigurata, «una vita che ha inaugurato una nuova dimensione dell’essere uomini… una sorta di “mutazione decisiva”, un salto di qualità» (Benedetto XVI).
All’alba del giorno dopo il sabato, inizia un imprevedibile movimento di persone, coinvolte in un’esperienza più grande di loro. La fede rinasce più viva e più forte: di Gesù ci si può fidare pienamente. Si dà l’impressione di cercare ancora (e di far cercare) Cristo tra i morti quando ci si appella a un Dio lamentoso e triste, distaccato e legislatore, innocuo per il nostro vivere quotidiano.
La Pasqua è il dono che cambia la condizione dell’uomo e del mondo, l’incontro con un Uomo unico, che fa sperimentare tutta la bontà e la verità di Dio; è il segno che solo Dio libera dal male non in modo superficiale e momentaneo, offrendo la possibilità reale di una vita buona. La ricchezza della Pasqua non dipende dagli indici della borsa e non è soggetta a nessuna variazione di mercato. Alla Via Crucis subentra la Via Lucis, un percorso di quattordici tappe dal sepolcro vuoto alla Pentecoste.
Un primo segno pasquale è coltivare maggiormente la propria fede come “differenza cristiana” da una spiritualità generica e poco impegnativa. Un secondo modo per vivere la Pasqua è narrare con un cuore solo e un’anima sola tale Buona Notizia, svelando con la propria vita che «il solo e vero peccato è rimanere insensibili alla Risurrezione» (Isacco il Siro). Un’altra testimonianza è praticare la “cultura della vita”, scovando nel proprio ambiente vitale persone per le quali la ‘risurrezione’ può riprodursi e attuarsi attraverso il suo gesto d’affetto, una parola di vicinanza, un ascolto partecipe. Anche favorire la speranza e non la lamentela caratterizza lo stile cristiano di vita. Un ulteriore modo è proclamare la propria fede «nella risurrezione della carne», cioè riconoscere che anche i nostri corpi non sono destinati alla corruzione, ma a una pienezza di vita.
Il messaggio di Pasqua coglie tutti di sorpresa: le donne, le prime annunciatrici di quell’evento carico di speranza, non sono credute. Ieri, come oggi, non è facile credere che il motore della storia sia l’amore di colui che sulla croce stende le braccia per fare da ponte tra la morte e la vita. Infatti, Pasqua è ‘passaggio’, cioè rinascita e rinnovamento, risanamento interiore e liberazione dalla paura. Gesù è il risuscitato e il risuscitante.
Hanno bisogno di Pasqua l’organizzazione sociale e il mondo del lavoro, la precarietà delle relazioni e la fragilità delle famiglie, il disorientamento di molti. La Pasqua ha un forte valore educativo: fa ricuperare la misura alta della vita, aiuta ad uscire dalla mediocrità e dalla paura, conferma che l’impossibile può diventare realtà e chiede a ciascuno di non essere spettatore, ma umile attore del mondo nuovo. Pasqua è credere non tanto nell’avvenire (previsto e assicurato) quanto nel futuro dell’uomo, che Dio prepara.
Questa notte, rinnoviamo il battesimo ricevuto e forse non sempre vissuto e invochiamo i santi, apripista di una nuova strada nel deserto del mondo. Siamo consapevoli di quanto diversa potrebbe essere la nostra vita, se fosse un po’ più pasquale e meno succube della mentalità corrente. L’accendere l’uno il cero dell’altro alla medesima luce di Cristo significa sostenersi a vicenda nella fede: è il primo e il più urgente servizio, in questo «Anno della Fede». La Pasqua genera l’ecologia del cuore, da cui vengono frutti nuovi e trova il suo pieno compimento quando una persona, convinta interiormente della verità di ciò che ha ascoltato, proclama Gesù come suo personale Signore e Salvatore. Esce allo scoperto, prende la decisione che dà un senso e un orientamento nuovi alla sua vita, facendo di lui un ‘salvato’.
Preghiamo insieme con le parole del cardinale Suenens: «Donaci, Signore, occhi per vedere, un cuore per amare e tanto fiato. Abbiamo bisogno dei tuoi occhi: dacci una fede viva. Abbiamo bisogno del tuo cuore: dacci una carità a tutta prova. Abbiamo bisogno del tuo soffio: donaci la tua speranza, per noi e per la tua Chiesa». Così ci potremo augurare a vicenda «Buona Pasqua»!

PREGHIERA
Ecco la veglia, Signore Gesù, che apre il cuore alla speranza e lo strappa ad ogni paura, ad ogni ombra e ad ogni timore.
Con la tua risurrezione tu ci doni il fuoco che brucia ogni fragilità e ogni resistenza,
che accende il profondo dell’anima, che riscalda e risveglia ad una nuova vita. Con la tua risurrezione tu ci offri una luce: le tenebre non ci spaventano perché tu rischiari il nostro cammino e ci fai intravedere il senso della storia. Ci conduci verso il giorno in cui il progetto di Dio giungerà a compimento. Con la tua risurrezione tu ci fai intendere una parola che unisce l’antica e la nuova alleanza, la creazione e la redenzione, la legge e la grazia in unico, grande racconto di salvezza. Con la tua risurrezione tu ci fai giungere un’acqua che rigenera a vita nuova, che disseta la nostra arsura e ci fa partecipare ad una comunione divina, che trasforma i nostri giorni e ci fa accedere ad una nuova identità. Con la tua risurrezione tu ci inviti
alla mensa del Pane di vita, pane che ci sostiene nel nostro pellegrinaggio, pane che nutre il nostro desiderio, pane che sfama le attese più profonde.
Ecco la veglia, Signore Gesù, in cui cantare l’Alleluja pasquale che percorre le arterie della storia.

478 - 29 Marzo 2013 – TRIDUO PASQUALE - Venerdì santo – La Passione e Morte di Gesù

Non è la giornata del pietismo né di una visione negativa della vita. È diffusa una concezione riduttiva della fede cristiana, nella quale la croce è solo sinonimo di rinuncia e sacrificio, negatività e fallimento. Il cristianesimo, invece, è Buona Notizia e Vita Buona, ma non regge senza la Croce di Gesù. Il Crocifisso riporta al centro il mistero pasquale e la concretezza personale dell’esperienza di Gesù, che frantuma tante nostre immagini di Dio, ispirate alla forza, all’autosufficienza e alla facile vittoria.
Mons. Tonino Bello scriveva: «La Croce pende dal nostro collo, ma non pende sulle nostre scelte. Abbiamo scelto la circonvallazione e non la mulattiera del Calvario. Abbiamo bisogno di riconciliarci con la Croce e ritrovare, sulla carta stradale della nostra esistenza paganeggiante, lo svincolo giusto che porta ai piedi del condannato!».
La celebrazione del Venerdì santo intende aiutarci a trovare questo difficile «svincolo giusto». Questo è un giorno buio come la notte, il giorno dello scandalo. Nessuno, davanti al Crocifisso, ha le carte in regola. Cristo lo aveva predetto: «Tutti… tutti vi scandalizzerete». Lo aveva detto il giorno prima, nella sera della Cena, mentre spezzava il pane e offriva il vino, simbolo del dono del suo Corpo e del suo Sangue. Pane della compassione, vino dell’oblazione totale di sé. Noi, come i discepoli, vorremmo un Cristo guerriero («Abbiamo due spade!»), ma egli a noi come a Pietro intima: «Rimetti la spada nel fodero». Noi vorremmo un Dio vincitore in modo spettacolare, capace di scendere dalla croce e rispondere alle critiche in modo inequivocabile. Proprio perché è Figlio, non è sceso: è, questo, il miracolo dei miracoli: quello dell’amore fino all’estremo, senza sotterfugi o scorciatoie.
Nel racconto della passione, le parole e i gesti di Gesù sono tutti caratterizzati dalla.Hanno bloccato sulla croce i suoi piedi di Maestro pellegrinante, che ha attraversato villaggi e città, predicando, guarendo, ascoltando e consolando tutti. Ma la forza dell’amore, che ha guidato i suoi passi, non può essere fermata dai chiodi! La sua preghiera non è più sul monte e la sua predicazione è  senza parole, ma l’ingiustizia e la cattiveria non scalfiscono il compimento della sua missione: «Tutto è compiuto!». La gloria di Dio lo raggiunge anche su quel trono particolare, che è la croce. Il segno tipico della morte diventa l’albero di vita, il seme deposto in silenzio diventa il germoglio di un mondo d’amore.
‘Passione’ significa amore appassionato che nel donarsi non fa calcoli. La croce, che sembra innalzarsi da terra, in realtà pende dal cielo, come un abbraccio divino che stringe l’universo. L’importante è non volgersi ad altri che a Gesù.
Attorno alla Croce di Gesù c’è posto per tutti: per i capi e i soldati, per i curiosi e gli indifferenti, per i provocatori e i soddisfatti, per il silenzio di Maria, carico di fede e di dignità, per la sorpresa e la missione dell’apostolo Giovanni, per le pie donne in pianto e per la professione di fede del centurione… È uno spaccato delle varie modalità con cui anche oggi si può stare davanti al Cristo in croce. Interessante: il discepolo più giovane, Giovanni, è anche l’unico che resta fino all’ultimo accanto a Gesù, ai piedi della croce, assieme a Maria. Il discepolo «che si lascia amare» è anche colui che ci conduce nelle profondità di un mistero che ci supera.
Sono molteplici i sentimenti che passano nel cuore dei credenti, quando sostano davanti al Crocifisso: resistenza e paura, superficialità e incoerenza, riconoscenza e pentimento, fiducia e speranza, identità e responsabilità. Ovunque c’è una persona, una famiglia, una comunità cristiana e una società, lì c’è bisogno della croce salvifica di Cristo. Chi vuole giungere a Cristo, «non deve mai cercarlo senza la croce», consigliava san Giovanni della Croce.
La Croce insegna che non esiste fallimento senza speranza, nessuna tenebra senza stella, nessuna tempesta senza un porto d’approdo. La croce, su cui è scritto il comandamento dell’amore, è la firma di Dio, è il polo del mondo e l’asse del tempo, l’albero in cui tutto porta frutto, la libertà contagiosa dalla paura di amare.
San Cirillo, vescovo di Alessandria d’Egitto, diceva: «Non vergogniamoci della croce di Cristo. Se anche un altro la nasconde, tu segnala pubblicamente sulla fronte. Fatti questo segno quando ti metti a mangiare e a bere, quando ti corichi e quando devi viaggiare. Poni quel segno su ogni tua azione, così che su di essa si erga colui che fu crocifisso e ora è nell’alto dei cieli». Il Crocifisso non è per l’ostentazione estetica, perché «è il libro che, se letto spesso, ammaestra con la speranza del perdono, la spinta a cambiar vita, la fortezza contro le tentazioni, la fiducia di andare in paradiso» (S. Alfonso M. de’ Liguori).
La Croce di Cristo è stata valorizzata nella liturgia, amata dai martiri e dai santi, celebrata nell’arte cristiana, evidenziata dai testimoni della carità e riproposta dai maestri di spiritualità. Nell’«Anno della Fede», la sapienza della croce interpella i credenti, il paradosso cristiano pone domande, la parziale vittoria dei potenti sollecita dubbi… L’esempio del Maestro che porta per primo la croce è la grande scuola di formazione del cristiano nel mondo. Ma le difficoltà quotidiane interpellano anche i non-credenti i quali, senza la croce di Cristo, sono sguarniti di fronte al non-senso della vita e di tante singole situazioni problematiche. Due rischi vanno evitati: il fare della croce un simbolo, staccato dalla vicenda di Cristo, il Redentore dell’uomo e il Vivente, oppure il fermarsi alla passione di Gesù senza imparare a guardare i tanti crocifissi in ogni epoca della storia, nei quali egli continua ad essere immolato in una Via Crucis infinita. La genericità o la strumentalizzazione svuotano la croce di Cristo del suo mistero unico e permanente. Il poeta G. Ungaretti ha colto lo stretto rapporto tra croce di Cristo e forza di autentica umanità: «So che l’inferno s’apre sulla terra/ su misura di quanto l’uomo/ si sottrae, folle,/ alla purezza della tua passione./ Cristo, fratello che t’immoli perennemente/ per riedificare umanamente l’uomo… ». La croce è, infatti, la denuncia del nostro essere malvagi, sedotti dal male, peccatori e ingiusti, bisognosi di redenzione. Nella croce si abbracciano la miseria dell’uomo e la misericordia di Dio.
Il vescovo Tonino Bello usa una bella immagine: con la croce piantata sul Calvario come una trivella, Gesù ha scavato un pozzo di acqua abbondante e fresca sulla terra assetata. Il compito di ciascuno è ora di farla venire in superficie, di incanalarla, di proteggerla dagli inquinamenti e di farla giungere a tutti. Il mondo è in fiamme, scriveva Edith Stein, ma al di sopra di tutte le fiamme si erge la croce che non può essere bruciata. Davanti alla croce di Cristo e dei fratelli non ci si può fermare a disquisire né tantomeno nascondere dietro una maschera, non si può “passare oltre” lasciando solo il Crocifisso e i crocifissi.

PREGHIERA
Venerdì santo, giorno di digiuno, in cui desidero partecipare non solo con l’anima, ma anche con il corpo alla tua passione e morte, Gesù. Se riduco il cibo, se mi astengo dall’alcool, è perché voglio destare in me una coscienza lucida e attenta agli avvenimenti che vengono rivissuti nella memoria.
Venerdì santo, giorno dell’ascolto, in cui lasciarmi condurre da un racconto che narra quanto è grande il tuo amore per l’umanità. La menzogna e la cattiveria non riescono ad oscurare la testimonianza che rendi al Padre tuo, davanti al mondo. La determinazione dei tuoi nemici, la paura e la vigliaccheria dei discepoli non incrinano la tua scelta di donarti fino in fondo, secondo la volontà del Padre.
Venerdì santo, giorno di silenzio, per non deturpare con il chiasso, con parole vuote e leggere la contemplazione e l’adorazione, perché mentre le mani toccano le piaghe del tuo corpo dolorante, il cuore sia acceso dal tuo fuoco e vibri di gratitudine per il dono della tua vita che salva l’umanità e la strappa al potere delle tenebre.

477 - 28 Marzo 2013 – TRIDUO PASQUALE - Giovedì santo – L’istituzione dell’Eucaristia

La Chiesa vive e trasmette «ciò che ha ricevuto dal Signore», il dono dell’Eucaristia. Questa non è il frutto di una programmazione pastorale o della legislazione della Chiesa. È il segno della presenza del Signore nel tempo e nella storia, è la manifestazione della sua contemporaneità a ciascuno nella Chiesa, è la certezza del suo accompagnamento nel cammino del nuovo popolo di Dio.
È facile oggi criticare la Chiesa, ma un merito le va riconosciuto: di aver continuato a celebrare, da venti secoli, l’appuntamento domenicale, memoriale della Pasqua del Signore. Sempre i fedeli sono stati convocati per incontrare il Signore. Come per apprendere una poesia occorre ripeterla molte volte, così la ripetizione dell’eucaristia festiva è condizione per assimilarne il Mistero che racchiude. Nella sua storia bimillenaria la Chiesa esprime una grande sapienza nel chiedere ai fedeli non qualcosa di straordinario o la perfezione morale, ma semplicemente di partecipare all’eucaristia domenicale. Come si sta valorizzando questa preziosa eredità, che la Chiesa ha individuato come un ‘precetto’, cioè qualcosa di fondamentale per la vita spirituale? Per taluni si può essere cristiani anche senza partecipare all’eucaristia domenicale; altri, di domenica, privilegiano lo sport o altre occupazioni; altri ancora vivono l’eucaristia come un rito staccato dal resto della vita…
Con l’eucaristia la Chiesa pone l’attenzione non su se stessi o sugli altri, ma su Gesù, presente ed operante. Tutti e tutto, nell’assemblea liturgica, ruotano attorno a Cristo. Prima ancora che sulla propria situazione personale o sulla realtà circostante o sui carismi e limiti dei fratelli, occorre guardare a lui, il Maestro, che dona la sua vita dopo aver lavato i piedi ai discepoli.
C’è uno stretto legame tra il verbo ‘fare’ e l’espressione «memoria di me». Al cristiano non è chiesto di essere superimpegnato, di saper risolvere i problemi del vivere comune o di competere con altre forze del mondo. ‘Cristiano’ è chi vive tutto «per Cristo, con Cristo e in Cristo», chi fa della sintonia con lui il punto di forza della propria giornata ed esistenza. O Cristo c’entra in tutto (affetti, lavoro, studio, difficoltà ecc.) oppure è marginale. L’eucaristia insegna che la Chiesa esiste non anzitutto per essere un «pronto soccorso» per i disagi umani, ma piuttosto il ‘luogo’ in cui è possibile incontrare Cristo. Non ha diritto di partecipare all’eucaristia chi è già bravo, ma si va alla mensa della Parola e del Pane per imparare ad amare e a servire. E con la stessa fedeltà con cui si celebra l’eucaristia occorre vivere la carità. L’eucaristia non è anzitutto un ‘rito’, ma la preparazione all’offerta di sé in Gesù. Questa è la base per ogni scelta matura nella via del matrimonio e della consacrazione. L’eucaristia indica la mèta di tutta la proposta formativa cristiana e plasma la personalità credente, porta frutto e semplifica la vita della comunità.
Il principio attivo dell’eucaristia, che la tradizione cristiana ha definito «farmaco d’immortalità», è la vita e la comunione. L’amore all’insieme deve essere più grande dell’amore alla parte. Cristo è sorgente di riconoscimento e di dialogo tra fratelli di fede, di unità e di condivisione in Gesù, pur nella molteplicità delle modalità. Gruppi, parrocchie e movimenti non possono vivere in tensione fra loro, perché il medesimo Verbo-Pane precede ogni altra appartenenza, servizio e finalità. Gesù prima lava i piedi agli apostoli e poi chiede loro di fare altrettanto. La testimonianza è generata dall’amore a Cristo, dalla sovrabbondanza dell’adesione al Signore scaturisce spontaneamente la missione: chi ha Cristo nel cuore non può tacerlo. L’eucaristia forma degli innamorati di Cristo e non degli operai di Cristo.
La Chiesa sgorga dal Cristo che si dona: non è un progetto stabilito a tavolino, non abbisogna di grandi mezzi, non dipende dalle qualità di chi vi aderisce. Per far parte della Chiesa c’è un’unica condizione: amare Cristo e, in lui, i fratelli. Il criterio non è psicologico, funzionale od organizzativo, ma fondativo: il ‘seguire’ il Signore, l’innestarsi in Colui che ama senza misura e trasforma la vita con un ‘di più’ di oblatività e di apertura.
Nell’Eucaristia avviene la massima interiorizzazione di Dio, che si fa intimo di ciascuno («Mangiate e bevete») e la sua maggiore universalizzazione («Mangiatene tutti!... Per voi e per tutti»). Nell’esortazione apostolica Sacramentum Caritatis Benedetto XVI usa l’immagine della «fissazione nucleare» per indicare un cambiamento destinato a «suscitare un processo di trasformazione della realtà, il cui termine ultimo sarà la trasmazione del mondo intero, fino a quella condizione in cui Dio sarà tutto in tutti» (n. 11). Il cristiano è chiamato a «vivere secondo la domenica», cioè ponendo Gesù come la stella polare della libertà umana, nella convivialità fraterna perché la fede implica sempre una compagnia, nel riposo che relativizza ogni attività finalizzandola sempre all’uomo, nella scelta preferenziale degli ultimi e nell’impegno a cambiare le situazioni indegne dell’uomo.
Il Concilio Vaticano II ha puntato molto sulla riforma della liturgia, non come estetismo, ma come modalità con cui l’amore di Dio in Cristo raggiunge ed affascina l’uomo. I santi e i maestri di spiritualità sono unanimi nell’affermare che la miglior catechesi sull’eucaristia è la stessa eucaristia ben celebrata. Proprio questa rende vera la parrocchia, la mantiene giovane e ne fa il luogo dell’accompagnamento alla fede e alla vita, all’amore e al dolore, al discernimento e alla speranza. Ecco perché ci si dovrebbe preparare all’eucaristia domenicale come ci si prepara ad incontrare la persona amata.
Lo scrittore Luigi Santucci ha confessato che, potendo scegliere tra le reliquie della Passione, raccoglierebbe quel catino di acqua sporca usato da Gesù nell’Ultima Cena per lavare i piedi dei discepoli. E annota: «Girare il mondo con quel recipiente sotto il braccio, guardare solo i talloni della gente; e ad ogni piede cingermi l’asciugatoio, curvarmi giù, non alzare mai gli occhi sopra i polpacci, così da non distinguere gli amici dai nemici. Lavare i piedi all’ateo, al cocainomane, al mercante d’armi, all’assassino del ragazzo nel canneto, allo sfruttatore della prostituta nel vicolo, al suicida, in silenzio. Finché abbiano capito». L’eucaristia, che è la pietra preziosa da cercare e il tesoro nascosto da trovare, educa a non arrendersi alla mediocrità. Ecco perché tutti i santi, così affamati di eucaristia, hanno amato la vita, ma si sono innamorati dell’impossibile. Né nani né giganti: semplicemente servitori nel laboratorio della globalizzazione della solidarietà e della carità.

PREGHIERA 
Anch’io, Signore, ti ripeto le stesse parole di Pietro: «Tu lavi i piedi a me?». Gesù, non posso accettare che tu sia il mio servo, che tu ti inginocchi davanti a me, che compia questo gesto sgradevole ed umiliante, destinato agli schiavi. Gesù, non voglio apparire con i miei piedi sporchi, con le mie membra sudice, non me la sento di stare in questa posizione comoda e di vederti piegato a terra per lavarmi e liberarmi da tutto ciò che deturpa questa mia esistenza. Gesù, non sono disposto a far cadere ogni mia difesa, a togliermi ogni maschera, a rivelarti quello che sono veramente per lasciarmi amare così, abbandonandomi alla tua misericordia senza alcuna resistenza, senza alcuna remora.
Ma tu mi riservi la stessa risposta che hai dato a Pietro: non potrò partecipare al Regno se non mi affido totalmente a te, se non metto nelle tue mani questa mia vita per lasciarla trasfigurare dalla tua luce e dalla tua pace.

476 - 27 Marzo 2013 – Mercoledì santo - Terzo canto del Servo di YHWH - Isaia 50,4-9a

4Il Signore Dio mi ha dato una lingua da discepolo, perché io sappia indirizzare una parola allo sfiduciato. Ogni mattina fa attento il mio orecchio perché io ascolti come i discepoli. 5Il Signore Dio mi ha aperto l'orecchio e io non ho opposto resistenza, non mi sono tirato indietro. 6Ho presentato il mio dorso ai flagellatori, le mie guance a coloro che mi strappavano la barba; non ho sottratto la faccia agli insulti e agli sputi. 7Il Signore Dio mi assiste, per questo non resto svergognato, per questo rendo la mia faccia dura come pietra, sapendo di non restare confuso. 8È vicino chi mi rende giustizia: chi oserà venire a contesa con me? Affrontiamoci. Chi mi accusa? Si avvicini a me. 9Ecco, il Signore Dio mi assiste: chi mi dichiarerà colpevole?”
In questo “terzo canto” del Servo di YHWH il tema dell’insuccesso, presente in Isaia 49,1-6, è accentuato: il profeta incontra ostilità e persecuzioni fino alla violenza. La sua vocazione, che ha tratti anche sapienziali, lo qualifica come un discepoli che, per dono e missione del Signore Dio, trasmette la Parola agli scoraggiati e ai dubbiosi. Solo in quanto resta un discepolo ogni giorno proteso all’ascolto, il profeta può essere vero maestro: egli non dispone della Parola a suo piacimento.
Consapevole fin dall’inizio delle esigenze della chiamata, il Servo non oppone resistenza a Dio; e il pieno consenso dato lo rende forte e mansueto di fronte ai persecutori: non si è sottratto alla Parola e non indietreggia di fronte all’ingiuria e alla violenza di coloro che vorrebbero zittirla, riducendolo al silenzio (vv.6-7). La sofferenza non lo piega e non lo disorienta. Il profeta confida nell’aiuto di Dio; egli stesso lo giustificherà davanti agli avversari: nessuno potrà dimostrare colpevole il suo Servo, testimone fedele e verace della Parola (vv. 7-9).
 
 
Quarto canto del Servo di YHWH – Isaia 52,13-53,12

“52-13Ecco, il mio servo avrà successo, sarà onorato, esaltato e innalzato grandemente. 14Come molti si stupirono di lui - tanto era sfigurato per essere d'uomo il suo aspetto e diversa la sua forma da quella dei figli dell'uomo -, 15così si meraviglieranno di lui molte nazioni; i re davanti a lui si chiuderanno la bocca, poiché vedranno un fatto mai a essi raccontato e comprenderanno ciò che mai avevano udito.53-1 Chi avrebbe creduto al nostro annuncio? A chi sarebbe stato manifestato il braccio del Signore? 2È cresciuto come un virgulto davanti a lui e come una radice in terra arida. Non ha apparenza né bellezza per attirare i nostri sguardi, non splendore per poterci piacere. 3Disprezzato e reietto dagli uomini, uomo dei dolori che ben conosce il patire, come uno davanti al quale ci si copre la faccia; era disprezzato e non ne avevamo alcuna stima.
4Eppure egli si è caricato delle nostre sofferenze, si è addossato i nostri dolori; e noi lo giudicavamo castigato, percosso da Dio e umiliato. 5Egli è stato trafitto per le nostre colpe, schiacciato per le nostre iniquità. Il castigo che ci dà salvezza si è abbattuto su di lui; per le sue piaghe noi siamo stati guariti. 6Noi tutti eravamo sperduti come un gregge, ognuno di noi seguiva la sua strada; il Signore fece ricadere su di lui l'iniquità di noi tutti. 7Maltrattato, si lasciò umiliare e non aprì la sua bocca; era come agnello condotto al macello, come pecora muta di fronte ai suoi tosatori, e non aprì la sua bocca. 8Con oppressione e ingiusta sentenza fu tolto di mezzo; chi si affligge per la sua posterità? Sì, fu eliminato dalla terra dei viventi, per la colpa del mio popolo fu percosso a morte. 9Gli si diede sepoltura con gli empi, con il ricco fu il suo tumulo, sebbene non avesse commesso violenza né vi fosse inganno nella sua bocca. 10Ma al Signore è piaciuto prostrarlo con dolori. Quando offrirà se stesso in sacrificio di riparazione, vedrà una discendenza, vivrà a lungo, si compirà per mezzo suo la volontà del Signore. 11Dopo il suo intimo tormento vedrà la luce e si sazierà della sua conoscenza; il giusto mio servo giustificherà molti, egli si addosserà le loro iniquità. 12Perciò io gli darò in premio le moltitudini, dei potenti egli farà bottino, perché ha spogliato se stesso fino alla morte ed è stato annoverato fra gli empi, mentre egli portava il peccato di molti e intercedeva per i colpevoli”.
Il “quarto canto” del Servo di YHWH (che si legge il Venerdì santo) mostra l’esito glorioso del suo mite patire che diventa fonte di salvezza per le moltitudini. Di Lui ci parla la comunità di cui il profeta si fa voce confessando l’incomprensione totale nella quale si è consumato il dolore del Servo: un’incomprensione passata dall’indifferenza al disprezzo, dal giudizio al sopruso legittimato. Ma egli tace.
Non attira l’attenzione con lo splendore dell’aspetto (segno della benedizione divina), ne con la luminosità della dottrina: “ ben conosce il patire”, ma questa non è materia di insegnamento. Silente nell’umiliazione, nell’oppressione, nella condanna a morte, fino ad una sepoltura infame. Solo quando il suo sacrificio di espiazione è consumato, la comunità – da esso purificata – comprende l’inconcepibile disegno di Dio. Il castigo, quale sofferenza purificatrice, presuppone una colpa; ma qui, per la prima volta, viene mostrato apertamente qualcosa di diverso: il mistero della “sofferenza vicaria”. Il peccato è nostro (ci riconosciamo senza difficoltà nel “noi” del testo), ma chi soffre per espiarlo non siamo noi, bensì il Servo innocente.
Questa è la volontà di Dio che si compie nel Servo. È la giustizia divina che ha nome “misericordia”. È la promessa – sfolgorata come lampo nell’Antico Testamento – della luce e della glorificazione, dopo le tenebre e l’umiliazione.

475 - 26 Marzo 2013 – Martedì santo - Secondo canto del Servo di YHWH - Isaia 49,1-6


1Ascoltatemi, o isole, udite attentamente, nazioni lontane; il Signore dal seno materno mi ha chiamato, fino dal grembo di mia madre ha pronunciato il mio nome. 2Ha reso la mia bocca come spada affilata, mi ha nascosto all'ombra della sua mano, mi ha reso freccia appuntita, mi ha riposto nella sua faretra. 3Mi ha detto: "Mio servo tu sei, Israele, sul quale manifesterò la mia gloria". 4Io ho risposto: "Invano ho faticato, per nulla e invano ho consumato le mie forze. Ma, certo, il mio diritto è presso il Signore, la mia ricompensa presso il mio Dio". 5Ora ha parlato il Signore, che mi ha plasmato suo servo dal seno materno per ricondurre a lui Giacobbe e a lui riunire Israele - poiché ero stato onorato dal Signore e Dio era stato la mia forza -  6e ha detto: "È troppo poco che tu sia mio servo per restaurare le tribù di Giacobbe e ricondurre i superstiti d'Israele. Io ti renderò luce delle nazioni, perché porti la mia salvezza fino all'estremità della terra".

 

Nel “secondo canto” il Servo di YHWH alza la voce, chiedendo a tutti un ascolto attento, anche ai più lontani: la sua missione dovrà giungere fino ai confini del mondo. Egli racconta la propria vicenda, sintetizzandola in alcuni momenti fondamentali: la vocazione che sta alle origini della sua vita e rende manifesto il disegno di Dio (questi plasma il suo eletto come strumento adeguato, riservato per un preciso incarico: proclamare con efficacia la parola); quindi l’oracolo, con cui il Signore lo conferma nell’identità e nella missione (v.3).

In un primo tempo tale missione si risolve in un insuccesso, e l’inutilità della propria fatica pesa sul cuore del Servo. Formato fin dal seno materno per radunare e convertire il suo popolo al Signore (v.5), egli sperimenta il fallimento e tuttavia sa riconoscere che Dio custodisce la sua causa, gradisce e ricompensa il suo operato (v.4). La stima che il Signore gli manifesta e la forza che gli infonde corroborano il Servo che accoglie e riferisce un nuovo oracolo di Dio su di lui: l’ora della prova e dell’insuccesso non viene per chiudere la sua vicenda profetica ma per dilatarne senza confini l’irradiamento. La missione del Servo deve diventare universale: attraverso di Lui, reso luce delle nazioni, Dio vuole raggiungere con il dono della salvezza gli estremi confini della terra (v.6).

474 - 25 Marzo 2013 – Lunedì santo - Primo canto del Servo di YHWH - Isaia 42,1-7

1 Ecco il mio servo che io sostengo, il mio eletto di cui mi compiaccio. Ho posto il mio spirito su di lui; egli porterà il diritto alle nazioni. 2Non griderà né alzerà il tono, non farà udire in piazza la sua voce,3non spezzerà una canna incrinata, non spegnerà uno stoppino dalla fiamma smorta; proclamerà il diritto con verità. 4Non verrà meno e non si abbatterà, finché non avrà stabilito il diritto sulla terra, e le isole attendono il suo insegnamento. 5Così dice il Signore Dio, che crea i cieli e li dispiega, distende la terra con ciò che vi nasce, dà il respiro alla gente che la abita e l'alito a quanti camminano su di essa: 6"Io, il Signore, ti ho chiamato per la giustizia e ti ho preso per mano; ti ho formato e ti ho stabilito  come alleanza del popolo e luce delle nazioni,7perché tu apra gli occhi ai ciechi e faccia uscire dal carcere i prigionieri,  dalla reclusione coloro che abitano nelle tenebre.”
In questi santi giorni la figura del Servo di YHWH si leva silente e maestosa davanti a noi, per introdurci nel mistero pasquale: la sua elezione, missione e sofferenza sono profezia della sorte di Cristo. In questo “primo canto” Dio stesso presenta il suo Servo. Egli lo ha eletto per una missione difficile e di importanza capitale, per questo lo sostiene. Consacrato con lo spirito profetico il servo estenderà a tutte le genti il “diritto”, cioè la conoscenza pratica dei giudizi di Dio(v.1). A questo carattere giudiziario si intona l’immagine dei versetti 2 e 3 in cui la missione del Servo è descritta dell’ “Araldo del gran Re”. Nella prassi babilonese, costui era incaricato di proclamare sulle piazze della città i decreti di condanna a morte. Se al termine del suo giro nessun testimone era sorto in difesa del condannato, egli spezzava la canna e spegneva la lampada di cui era munito, per indicare che la condanna ormai era irrevocabile.
Ora il Servo dell’unico vero Re, Dio, non spezza la canna. Portatore del suo giudizio, egli non viene a condannare ma a salvare. Con la forza della mitezza e la fermezza della verità egli persevererà nel suo compito: le ragioni più remote, i lontani da Dio attendono la torah, l’insegnamento che egli viene a portare (v.4). In Cristo la figura diventa realtà. Cristo è insieme Servo sofferente e vero liberatore dell’umanità dal carcere del peccato, eletto e inviato a operare la salvezza. Egli è la luce venuta nel mondo a illuminare tutte le genti. È il mediatore della nuova ed eterna alleanza (vv. 6-7), sancita nel suo corpo donato e nel suo sangue sparso.

473 - BENEDETTO COLUI CHE VIENE NEL NOME DEL SIGNORE - 24 Marzo 2013 – Domenica delle Palme

(Isaia 50,4-7 Filippesi 2,6-11 Luca 22,14-23,56)
Oggi finisce la Quaresima; da lunedì inizia la Settimana santa. Interessante: la Quaresima si conclude con una festa, l’accoglienza trionfale del Messia a Gerusalemme. E anche la Settimana santa tende ad una festa ancora più grande, la Pasqua del Signore. Gloria e passione sembrano temi alternativi e inconciliabili tra loro, mentre il paradosso cristiano li inserisce in un mistero unitario e inscindibile. La festa cristiana è insieme canto e silenzio, danza e adorazione, movimento e meditazione. Per prepararsi alla festa delle feste, la Pasqua, occorre saper fare tesoro sia della sofferenza del morire a se stessi, sia della gioia della rinascita.
Questa domenica, l’unica dell’anno liturgico in cui viene letta la Passione del Signore, presenta gli ultimi giorni della vita di Gesù come un’alternanza di baci e di sputi, di sguardi d’amore e di tradimento, di parole di incoraggiamento e di frasi ingiuriose, di mani che spezzano il pane e di altre che contano monete, di occhi che piangono e di altri che organizzano il rito della crocifissione. È un giorno di lacrime: di angoscia come quelle di Cristo, di pentimento come quelle di Pietro, di disperazione come quelle di Giuda, di dolore come quelle delle donne.
Questa liturgia azzera la religione fai-da-te, per lasciare emergere l’unicità del Dio di Gesù Cristo, il quale toglie ogni falsa immagine di Dio. Il racconto della passione è lo svelamento supremo del Dio-Amore, che dona la vita anche a chi diffonde la morte. La storia ricomincia da un atto di amore totale e perfetto: qui sta la forza attrattiva del Crocifisso. D’ora in poi, per sapere chi sia Dio basta «inginocchiarsi ai piedi della croce» (K. Rahner). Lo ha insegnato anche il centurione, il “lontano” che fa la sua bella professione di fede.
La tentazione perenne è di costruirsi un Dio che corrisponda ai propri bisogni e rassomigli alla soluzione delle proprie richieste. Allora è facile cantare l’«Osanna», nell’attesa di prodigi a buon prezzo. Ed è altrettanto facile passare alla delusione e alla reazione impietosa: «Crocifiggilo!». L’ascolto del racconto della passione deve suscitare la conversione del cuore allo stile di Dio. La liturgia di questa domenica racchiude in sintesi il percorso della fede matura: dal prendere posto a tavola insieme a Gesù fino alla speranza che non viene meno neppure di fronte al suo corpo crocifisso e sepolto. È un percorso che chiede di immedesimarsi nei vari personaggi di quegli eventi che hanno segnato e cambiato la storia dell’umanità.
L’efficacia soggettiva di questa liturgia dipende anche dall’intensità spirituale con cui è stata vissuta l’intera Quaresima: nulla si improvvisa. Questo non significa snobbare quanti, in ossequio alla tradizione, vengono solo oggi «a prendere l’ulivo»: l’importante è partecipare con lo spirito e il corpo e verificare se la propria vita è disposta secondo il senso della passione di Cristo oppure no. È il momento della decisione per Cristo, di prendere posizione di fronte a Lui.
Credere all’amore di Cristo aiuta a credere anche negli altri amori. Quando si è disposti ad amare fino al dono della propria vita, allora si è sulla strada della liberazione. Nel sacramento del perdono Cristo guarisce ed educa la libertà umana, donandole la capacità di amare. Nella passione Gesù è profondamente umano: l’ascolto partecipe del racconto e la contemplazione del Crocifisso rendono più umani, perché l’Amore purifica ed attrae. Il gesto umanissimo di Giuseppe d’Arimatea stimola tutti ad evitare il rischio del ‘pilatismo’ (non compromettersi in nulla) quando è in gioco la cura della vita e dei più deboli.
Un particolare: Gesù entra a Gerusalemme sopra un asino, non su un cavallo. Si tratta di una scelta alternativa alle attese dominanti del dominio politico e religioso. Gesù è un uomo ‘libero’ nel modo di trattare Giuda e l’autorità, nel rifiuto della violenza e nell’attenzione alle donne, nello sguardo a Pietro traditore e nel perdono al “buon ladrone”, nel confronto perdente con Barabba e nell’accettazione della ingiustizia, nella reazione alla folla ingrata.
Il Concilio Vaticano II ha chiesto alla Chiesa di essere libera dai potentati e solidale con ogni persona, di non ‘gareggiare’ col mondo, ma di porsi in atteggiamento di servizio ad esso, di non cercare il proprio successo, ma la fedeltà al Vangelo. Attorno al Crocifisso è più facile per i cristiani battersi il petto e ricomporre l’unità.
Per l’evangelista Luca, Gesù salva il mondo con mezzi ‘poveri’: la fedeltà alla volontà del Padre, il generoso dono di sé, il silenzio, il perdono. È sempre e solo l’Amore a riscattare le vicende umane, come conferma l’Inno di San Paolo nella seconda lettura. E questa è la «via della Chiesa», esperta in umanità. La crisi culturale ed economica in atto è uno stimolo a ritrovare pietre nuove per costruire il futuro su basi diverse da quelle finora poste.

PREGHIERA
Hai sempre accuratamente evitato le manifestazioni di entusiasmo: non volevi alimentare equivoci sulla tua identità e sulla missione che hai ricevuto dal Padre. Ora, invece, Gesù, non t’importa se qualcuno avrà da ridire: seia Gerusalemme ed è lì che si compirà il disegno di Dio. Ti attende un passaggio oscuro di sofferenza e di morte, prima di conoscere la risurrezione.
Ecco perché accogli le parole e i gesti con cui la folla dei discepoli ti esprime la sua gioia. Sì, in te hanno riconosciuto il Messia atteso, l’Inviato di Dio, che viene nella mitezza, non con la forza, per salvare, non per condannare, per liberare, non per giudicare.
Avanzi su di un asino che, decisamente, non è una cavalcatura da trionfo. Avanzi disarmato, sapendo bene che dovrai lottare contro la cattiveria, contro accuse ingiuste, contro soprusi e scherni, contro insulti e violenze.
I poveri, in ogni caso, lodano Dio per la buona novella che hai portato e che apre ad un futuro di pace e di giustizia, perché la storia non è nelle mani di un potente di turno, ma in quelle tenere e sicure di Dio.

martedì 19 marzo 2013

472 - NEANCH’IO TI CONDANNO - 17 Marzo 2013 – Vª Domenica di Quaresima

(Isaia 43,16-21 Filippesi 3,8-14 Giovanni 8,1-11)

Sono una ventina le donne protagoniste, ricordate nei vangeli. Fanno una brutta figura solo Erodiade e, in parte, l’ambiziosa madre degli apostoli Giovanni e Giacomo: altrimenti le donne sono esemplari nell’accogliere cordialmente Gesù e la Bella Notizia da lui portata.
Tra tutti e quattro gli evangelisti, Giovanni è quello che dà un maggior valore agli incontri di Gesù con delle donne. È comune a tutte le narrazioni evangeliche affidare l’annuncio della risurrezione a Maria di Magdala (cfr. Mt 28,1; Mc 16,1; Lc 24,10; Gv 20,1), così come è comune il ricordo dell’unzione a Betania, da parte di Maria nei confronti di Gesù: «dovunque sarà proclamato il vangelo, per il mondo intero, in ricordo di lei si dirà anche quello che ha fatto» (Mc 14,9; cfr. Mt 26,13; Gv 12,3 ricorda che si tratta di Maria, sorella di Lazzaro). L’incontro con le donne, per il quarto evangelista, non è solo per manifestare il potere taumaturgico di Gesù, ma è per dire qualcosa sulla sua identità e sul suo rapporto con il Padre. Anche l’episodio dell’adultera dunque deve essere collocato dentro questo orizzonte, che fa dell’incontro di Gesù con le donne un momento in cui Gesù rivela qualcosa di sé e del suo rapporto con il Padre.
Si sa che il mondo antico non riteneva la donna degna di attenzione per quanto riguarda la sua dignità sociale e culturale, ambito in cui era ritenuta inaffidabile; la sua considerazione si limitava al ruolo di sposa e madre. Basterebbe ripercorrere molte pagine dell’Antico Testamento per verificare ciò. Fu cosa assolutamente straordinaria che Gesù abbia affidato molto della sua rivelazione del Padre a dei colloqui con delle donne. L’episodio dell’adultera mostra come Gesù ritiene di essere giusto, obbediente alla legge di Dio e, nello stesso tempo, fedele al vangelo di misericordia da lui proclamato.
Gesù, che ha chiara percezione della legge di Dio data a Mosè, non intende annullare la gravità dell’adulterio, perché conosce bene la posta in gioco, tuttavia sa distinguere il peccato dal peccatore e sa che Dio è reso percepibile non solo nell’asserzione delle sue leggi, ma anche nel mostrare la finalità benefica di ogni comandamento divino. Gesù rimane convinto che ogni legge divina resta sempre a favore dell’uomo e, se la legge è chiamata a giudicare, questo non significa immediatamente condannare. Esiste una distanza tra giudizio e condanna. Se Gesù non condanna nessuno, fa però sì che il giusto giudizio recuperi il peccatore alla comunione con Dio e con i fratelli.
Se il giudizio è chiaro, è altrettanto chiaro che Gesù non è venuto a condannare, ma per salvare il mondo (cfr. Gv 12,47). Il gesto di abbassarsi e scrivere per terra continua a suscitare notevole interesse presso gli studiosi. È certo un gesto legato all’abbassarsi di Gesù per terra, al suo rialzarsi e al suo riabbassarsi in attesa che scribi e farisei applichino la sua giusta sentenza: «Chi di voi è senza peccato, getti per primo la pietra contro di lei» (v. 7). A Gesù fu chiesta una sentenza di morte in base ad un’applicazione rigida della legge di Mosè, ma egli risponde con un giudizio più autentico: nessuno che si trovi ad essere trasgressore della legge può diventarne il difensore e l’interprete autentico. Infatti ad uno ad uno se ne vanno tutti, perché ciascuno è consapevole del proprio peccato davanti a Dio e sa di aver trasgredito in qualche modo il comandamento divino. Se anch’io sono trasgressore, non posso lapidare il mio fratello, perché anch’io subirei la stessa sorte. Il peccato rimane tale nella sua malizia intrinseca, ma il peccatore si ritrova capace di comprendere la bontà della legge divina che non condanna nessuno, ma a tutti chiede di essere obbedita.

PREGHIERA
Quel giorno, Gesù, si illudevano di averti messo all’angolo: in un caso come nell’altro non ne saresti uscito senza prestare il fianco a grosse critiche. Una condanna avrebbe dimostrato che in fondo giudicavi come gli altri e applicavi la legge senza fiatare. Un’assoluzione ti avrebbe attirato l’accusa di essere un lassista, che infrangeva impunemente la legge del Signore.
Tu rinvii a loro la terribile decisione: se hanno tanto amore per i comandamenti di Dio, si assumano la responsabilità di lanciare le prime pietre, come testimoni.
Lanci loro, però, un avvertimento preciso (che oggi raggiunge anche noi): badino bene ad esaminare attentamente la loro coscienza perché non si può condannare qualcuno per amore della Legge, se la si è calpestata impunemente commettendo dei peccati.
È così che liberi quella donna dal cerchio dei suoi accusatori e le doni la possibilità di un percorso nuovo, di un’esistenza segnata per sempre dalla misericordia di Dio.

sabato 9 marzo 2013

471 - PADRE, HO PECCATO VERSO IL CIELO E DAVANTI A TE - 10 Marzo 2013 – IVª Domenica di Quaresima

(Giosuè 5,9-12 2ªCorinti 5,17-21 Luca 15,1-3.11-32)

La Quaresima è mettersi “a tu per tu” con Cristo e lasciarsi ‘scandalizzare’ dai suoi paradossi, alla scoperta del volto di Dio e di se stessi. Tutto il cammino che tende alla Pasqua serve a «farci cadere nelle braccia» del Padre, cioè a sperimentare che Lui è la «mia dolce rovina» (D. M. Turoldo). Il profeta Geremia aveva già detto: «Mi hai sedotto, Signore, e io mi sono lasciato sedurre» (20,7). Mettersi in ascolto del messaggio di questa domenica significa passare dalla domanda allo stupore e dall’incontro alla festa. Del resto, Gesù Cristo non lo si può accettare come si accetta il cognome del proprio padre e le usanze del proprio paese. È un rapporto d’amore che coinvolge e cambia la vita. Nel film Decalogo I di Kieslowski c’è un dialogo tra un bambino e sua zia. «Che cosa è Dio?» domanda il bambino. La zia lo stringe tra le braccia e gli chiede: «Che cosa provi?». «Ti voglio bene», risponde il bambino. «Ecco, Dio è questo!», conclude la zia.
Non è casuale che la parabola del «Padre misericordioso» nasca come risposta al turbamento generato dal comportamento di Gesù che, accogliendo i peccatori e mangiando con loro, si contamina del male e smentisce la promessa che il Messia avrebbe «sterminato tutti i peccatori» (Is 13,9). Ogni religione propone penitenze e riti purificatori, mediante i quali l’uomo espia le proprie colpe e ristabilisce la comunione con Dio. Per Gesù, il perdono di Dio non viene ottenuto per i meriti dell’uomo, ma va accolto come dono gratuito di un Padre ricco di tenerezza e di misericordia, un vero «mendicante d’amore».
Gesù rivela il cuore compassionevole di Dio, che non ha limiti ed è più grande del cuore umano. Il sogno di Gesù è di regalare nuovi occhi e nuovi sguardi per metabolizzare lo scandalo della misericordia di Dio e avviarsi sul sentiero del suo amore. Dio non vuole essere inteso ambiguamente, soprattutto nell’attuale contesto di pluralismo culturale, di relativismo e di sincretismo. Non basta più un cristianesimo di tradizione: occorre un’adesione libera, consapevole e personale a Cristo, nella comunità ecclesiale.
C’è bisogno di invocare lo Spirito Santo che convinca interiormente riguardo al Signore Gesù, il quale introduce l’uomo ad una relazione imprevedibile ed inedita con Dio. Questi non lascia mai le persone come le ha trovate: le illumina, le ispira, le consola, le trasforma. Il “cuore nuovo” è il più grande miracolo che la forza dello Spirito sa inventare. È tormento ed estasi il Dio che ama la vita di tutti, che sa aspettare e fare festa, che è «più profeta dell’aurora che non notaio dello status quo» (T. Bello). Il primo frutto della Quaresima è un sincero desiderio di Dio, che diventa ricerca esigente e umile, mai scontata, capace di sfidare le nostre false sicurezze. Dio è sempre al di là; pensiamo di averlo capito ed è Altro. 

PREGHIERA
Se hai raccontato questa parabola, Gesù, è perché vuoi obbligarci a metterci nei panni del personaggio più scomodo: il fratello maggiore. È vero: siamo pronti ad apprezzare il gesto del padre che accoglie con tenerezza quel figlio scapestrato, affamato, scalzo e cencioso, che torna a casa.
Quale padre su questa terra sarebbe pronto ad offrire una misericordia così smisurata? Certo, dietro quell’amore tu ci fai intravedere la bontà illimitata del Padre che sta nei cieli! Ma non puoi fare a meno di farci toccare con mano anche la nostra ribellione di fronte a un simile comportamento. Non siamo disposti a far festa ad un fratello che ha buttato via in poco tempo, in modo avventato, le proprietà di famiglia. Non siamo pronti a dimenticare il dolore che ha provocato, il danno che ha causato.
E non rinunciamo ad accampare i nostri diritti, i nostri meriti, la diversità che ci separa da lui perché, in fondo, abbiamo un animo piccino, da servi più che da figli.