La sorte dei princìpi teologici è segnata notevolmente dalle congiunture storiche. Queste possono generare non solo interpretazioni diverse del medesimo principio, ma pure giustificare un uso ‘politico’ dello stesso. Infatti, soprattutto i princìpi ecclesiologici si prestano a giustificare comportamenti che a distanza di tempo, in altre congiunture e con altre interpretazioni, sono ritenuti perfino aberranti. E capita che a partire da tali comportamenti si leggano i princìpi in forma pregiudicata e si giunga a rifiutarli. Il principio extra ecclesiam nulla salus al riguardo rappresenta un caso esemplare. Nei suoi confronti negli ultimi decenni è stata emessa una specie di fatwa, ritenendolo causa di metodi missionari del tutto irrispettosi delle culture e delle persone di altre religioni, di ignobili uccisioni di eretici, di illiberali costrizioni alla conversione, di conflitti tra cristiani ebrei e musulmani (per limitarci alla storia del bacino mediterraneo). Sul principio ricordato pesa quindi un giudizio tale da escluderlo dal novero delle espressioni teologicamente corrette.
Si deve riconoscere che esso è indiscutibilmente servito a quanto appena ricordato. C’è però da domandarsi se ciò sia di peso dal senso autentico del principio oppure dall’uso strumentale che di esso si è fatto. Un’attenta lettura della storia del pensiero
cristiano fa propendere per la seconda ipotesi. Si deve infatti registrare che quanto avviene oggi, cioè che nella comprensione del principio lo si assolutizzi isolandolo da un ‘sistema’ nel quale può/deve essere letto, è avvenuto anche nel passato: in alcune circostanze lo si è usato senza tenere conto che nella dottrina ogni principio è in stretta connessione, a volte perfino in tensione irrisolvibile, con altri; sicché non si può immaginare di comprenderne uno senza nello stesso tempo comprenderne anche altri. Per fare un esempio eclatante: non si può comprendere l’unità di Dio senza precisare che è l’unità della Trinità (e viceversa). Ebbene, guardando globalmente la storia, si può affermare che il nostro principio non è mai esistito da solo: fin da quando è stato formulato, indipendentemente, da Origene e da Cipriano, è sempre stato accompagnato dall’affermazione che Dio vuole la salvezza di tutti. Fu compito poi della riflessione teologica, a partire da Prospero di Aquitania (sec. v), cercare di
mostrare come la volontà salvifica universale e la necessità della Chiesa per la salvezza potessero stare insieme. Di certo, ben prima della teologia della Chiesa-sacramento venuta in auge dopo il Vaticano II, i teologi scolastici avevano la chiara comprensione che Dio può agire anche oltre i mezzi da lui stabiliti; sicché, se la Chiesa è stata disposta da Dio come luogo e mezzo di salvezza, ciò non vuol dire che Egli non possa agire anche al di fuori della Chiesa.
Che Dio non abbia legato la sua grazia ai sacramenti era convinzione comune alla grande scolastica. E da questa convinzione si formulerà, prima timidamente nella teologia spagnola (Francisco de Vitoria) al tempo delle scoperte geografiche, poi
nel magistero pontificio nel secolo xix, il principio della ignoranza invincibile: fondandosi sulla giustizia di Dio, che non può condannare alla perdizione chi non è venuto a conoscenza dei mezzi da lui stabiliti per la salvezza, si riteneva che la salvezza fosse accessibile anche al di fuori della Chiesa. Al riguardo va ricordato un episodio emblematico: nel 1949 il Sant’Uffizio invia al card. Cushing, arcivescovo di Boston, una lettera nella quale si illustra il vero senso del principio extra ecclesiam nulla salus. La Lettera era stata provocata dalla presa di posizione di P. Leonard Feeney, del Saint Benedict College, che intendeva il nostro principio in senso restrittivo, ed escludeva quindi dalla salvezza tutti coloro che non appartenevano alla Chiesa. La Lettera difende invece la possibilità della salvezza per tutti coloro che credono con fede soprannaturale informata dalla carità, supponendo che questa è possibile anche al di fuori della Chiesa. Del resto già la teologia medievale si era impegnata a individuare quali contenuti di fede fossero necessari per una fede salvifica, e li aveva trovati nel testo di Eb 11,6: «[...] chi si avvicina a Dio, deve credere che egli esiste e che ricompensa coloro che lo cercano». Certo, si trattava di un contenuto minimale. Appare tuttavia sintomatico che si trovasse in tale contenuto
la condizione indispensabile per chi non aveva ancora ricevuto il Vangelo: era indizio che non si voleva restringere la salvezza solo ai membri della Chiesa.
Se così stanno le cose, ci si può domandare perché il nostro principio sia stato (e lo è ancora) interpretato in forma rigida, tale da condannare alla perdizione tutti coloro che non appartengano alla Chiesa (cattolica). Si è già detto in apertura che i princìpi teologici non vengono né formulati né recepiti in un vuoto dottrinale. Se il contesto è polemico, si accentuerà il principio in modo tale da farlo servire a uno scopo ‘secondo’. Lo si riscontra in alcuni passaggi della storia del pensiero teologico. Anzitutto in Fulgenzio di Ruspe (467-532), il quale, scrivendo una specie di catechismo per un certo Pietro che deve recarsi in ambiente non cristiano e ha quindi bisogno di una summula della fede, pone in forma assertiva il nostro principio, anche perché, se è vero che per essere salvi si deve credere, chi non sta nella Chiesa, luogo della fede, non può raggiungere l’esito della medesima fede. Questa connessione resta lungo tutti i secoli, e non si può negare che abbia una sua pertinenza. La formulazione di Fulgenzio passerà nel concilio di Firenze (1439), anche perché le opere di questo vescovo erano ritenute di sant’Agostino e quindi dotate di notevole autorevolezza, in funzione polemica non solo nei confronti dei pagani (musulmani) ed ebrei, ma pure nei confronti degli scismatici (quelli che a Basilea continuavano
un ‘anti-concilio’). Non diversa è la prospettiva che si riscontra nella Bolla Unam sanctam di Bonifacio VIII (1302), nella quale, per risolvere il conflitto tra il Papa e il re di Francia (Filippo), si scrive che sottomettersi al Romano Pontefice è per tutte le creature umane necessario al fine di ottenere la salvezza. Questi pochi esempi stanno a mostrare che il principio posto in un contesto particolare assume un significato ‘escludente’. Leggendo però il nostro principio sullo sfondo di tutta la dottrina
cristiana, ci si avvede che non è questo il significato. Con ciò non si vuol dire che esso non abbia valore. La riflessione teologica recente, tenendo conto della storia, ha messo in evidenza due aspetti: 1. la Chiesa è il luogo e lo strumento stabilito da Dio
per la salvezza dell’umanità; 2. ciò implica che chiunque giunga alla salvezza lo può fare grazie alla Chiesa, anche solo in forma mediata: senza la Chiesa, infatti, non ci sarebbe nell’umanità la traccia storica dell’azione salvifica di Dio manifestatasi in Gesù Cristo.
Si deve riconoscere che esso è indiscutibilmente servito a quanto appena ricordato. C’è però da domandarsi se ciò sia di peso dal senso autentico del principio oppure dall’uso strumentale che di esso si è fatto. Un’attenta lettura della storia del pensiero
cristiano fa propendere per la seconda ipotesi. Si deve infatti registrare che quanto avviene oggi, cioè che nella comprensione del principio lo si assolutizzi isolandolo da un ‘sistema’ nel quale può/deve essere letto, è avvenuto anche nel passato: in alcune circostanze lo si è usato senza tenere conto che nella dottrina ogni principio è in stretta connessione, a volte perfino in tensione irrisolvibile, con altri; sicché non si può immaginare di comprenderne uno senza nello stesso tempo comprenderne anche altri. Per fare un esempio eclatante: non si può comprendere l’unità di Dio senza precisare che è l’unità della Trinità (e viceversa). Ebbene, guardando globalmente la storia, si può affermare che il nostro principio non è mai esistito da solo: fin da quando è stato formulato, indipendentemente, da Origene e da Cipriano, è sempre stato accompagnato dall’affermazione che Dio vuole la salvezza di tutti. Fu compito poi della riflessione teologica, a partire da Prospero di Aquitania (sec. v), cercare di
mostrare come la volontà salvifica universale e la necessità della Chiesa per la salvezza potessero stare insieme. Di certo, ben prima della teologia della Chiesa-sacramento venuta in auge dopo il Vaticano II, i teologi scolastici avevano la chiara comprensione che Dio può agire anche oltre i mezzi da lui stabiliti; sicché, se la Chiesa è stata disposta da Dio come luogo e mezzo di salvezza, ciò non vuol dire che Egli non possa agire anche al di fuori della Chiesa.
Che Dio non abbia legato la sua grazia ai sacramenti era convinzione comune alla grande scolastica. E da questa convinzione si formulerà, prima timidamente nella teologia spagnola (Francisco de Vitoria) al tempo delle scoperte geografiche, poi
nel magistero pontificio nel secolo xix, il principio della ignoranza invincibile: fondandosi sulla giustizia di Dio, che non può condannare alla perdizione chi non è venuto a conoscenza dei mezzi da lui stabiliti per la salvezza, si riteneva che la salvezza fosse accessibile anche al di fuori della Chiesa. Al riguardo va ricordato un episodio emblematico: nel 1949 il Sant’Uffizio invia al card. Cushing, arcivescovo di Boston, una lettera nella quale si illustra il vero senso del principio extra ecclesiam nulla salus. La Lettera era stata provocata dalla presa di posizione di P. Leonard Feeney, del Saint Benedict College, che intendeva il nostro principio in senso restrittivo, ed escludeva quindi dalla salvezza tutti coloro che non appartenevano alla Chiesa. La Lettera difende invece la possibilità della salvezza per tutti coloro che credono con fede soprannaturale informata dalla carità, supponendo che questa è possibile anche al di fuori della Chiesa. Del resto già la teologia medievale si era impegnata a individuare quali contenuti di fede fossero necessari per una fede salvifica, e li aveva trovati nel testo di Eb 11,6: «[...] chi si avvicina a Dio, deve credere che egli esiste e che ricompensa coloro che lo cercano». Certo, si trattava di un contenuto minimale. Appare tuttavia sintomatico che si trovasse in tale contenuto
la condizione indispensabile per chi non aveva ancora ricevuto il Vangelo: era indizio che non si voleva restringere la salvezza solo ai membri della Chiesa.
Se così stanno le cose, ci si può domandare perché il nostro principio sia stato (e lo è ancora) interpretato in forma rigida, tale da condannare alla perdizione tutti coloro che non appartengano alla Chiesa (cattolica). Si è già detto in apertura che i princìpi teologici non vengono né formulati né recepiti in un vuoto dottrinale. Se il contesto è polemico, si accentuerà il principio in modo tale da farlo servire a uno scopo ‘secondo’. Lo si riscontra in alcuni passaggi della storia del pensiero teologico. Anzitutto in Fulgenzio di Ruspe (467-532), il quale, scrivendo una specie di catechismo per un certo Pietro che deve recarsi in ambiente non cristiano e ha quindi bisogno di una summula della fede, pone in forma assertiva il nostro principio, anche perché, se è vero che per essere salvi si deve credere, chi non sta nella Chiesa, luogo della fede, non può raggiungere l’esito della medesima fede. Questa connessione resta lungo tutti i secoli, e non si può negare che abbia una sua pertinenza. La formulazione di Fulgenzio passerà nel concilio di Firenze (1439), anche perché le opere di questo vescovo erano ritenute di sant’Agostino e quindi dotate di notevole autorevolezza, in funzione polemica non solo nei confronti dei pagani (musulmani) ed ebrei, ma pure nei confronti degli scismatici (quelli che a Basilea continuavano
un ‘anti-concilio’). Non diversa è la prospettiva che si riscontra nella Bolla Unam sanctam di Bonifacio VIII (1302), nella quale, per risolvere il conflitto tra il Papa e il re di Francia (Filippo), si scrive che sottomettersi al Romano Pontefice è per tutte le creature umane necessario al fine di ottenere la salvezza. Questi pochi esempi stanno a mostrare che il principio posto in un contesto particolare assume un significato ‘escludente’. Leggendo però il nostro principio sullo sfondo di tutta la dottrina
cristiana, ci si avvede che non è questo il significato. Con ciò non si vuol dire che esso non abbia valore. La riflessione teologica recente, tenendo conto della storia, ha messo in evidenza due aspetti: 1. la Chiesa è il luogo e lo strumento stabilito da Dio
per la salvezza dell’umanità; 2. ciò implica che chiunque giunga alla salvezza lo può fare grazie alla Chiesa, anche solo in forma mediata: senza la Chiesa, infatti, non ci sarebbe nell’umanità la traccia storica dell’azione salvifica di Dio manifestatasi in Gesù Cristo.
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