sabato 13 agosto 2011

268 - LA PAURA E LA FEDE - Per una pausa spirituale durante la XIXª settimana

Non è detto che sia proprio così scontato che l’uomo provi desiderio e voglia di incontrare Dio. Anzi, la Scrittura ci ammonisce che spesso e volentieri l’uomo ha paura di Dio e per i più svariati motivi. Anche ‘di giorno’, infatti, in piena luce, laddove è possibile riconoscere senza ombra di dubbi la presenza di Dio, è possibile avere paura di Lui. È così che Genesi ci presenta l’uomo e la donna dopo la disobbedienza a Dio: udendo i «passi del Signore Dio che passeggiava nel giardino alla brezza del giorno», si nascosero «dalla presenza del Signore Dio», perché ebbero paura a causa del loro ritrovarsi nudi, colpevolmente spogliati della dignità di figli dopo la disobbedienza (Gen 3,8-10). Si può, dunque, avere paura di Dio, proprio a causa dell’aver perso la fede, dell’aver rotto il patto di fiducia/alleanza con Dio, dell’aver consapevolmente disobbedito alla parola che si era accolta da Dio e che si era deciso di seguire. Interessante: quando si smette di fidarsi di Dio, si ha paura di Lui prima ancora che per il suo giudizio (paura di essere condannati e delle conseguenze delle proprie azioni peccaminose), per il fatto di ritrovarsi «nudi», vergognosamente esposti alla fragilità di una dignità ferita.
Ma è su altri tipi di paura che il vangelo di domenica ci invita a riflettere. Due volte, infatti, ricorre nel testo di Matteo (14,22-33) il riferimento alla paura: quando i discepoli «vedendolo camminare sul mare … furono sconvolti … gridarono dalla paura» (v. 26), e quando Pietro, poiché il «vento era forte, s’impaurì» (v. 30). Anche il discepolo più credente prova paura – come ogni uomo – di fronte all’inedito, al non consueto: il Suo venire incontro in modo insolito e inaspettato, un po’ improvviso e un po’ in chiaroscuro, oltretutto in mezzo alle intemperie della vita e alle notti dell’esistenza, spiazza; la Sua è una presenza che non si riesce a riconoscere e a comprendere, a prendere dentro gli schemi soliti con cui si era fatto i conti sino ad allora anche con Lui … e allora, la reazione è quella di «gridare dalla paura», perché si pensa di fare i conti con un «fantasma» (v. 26) e non con il Maestro conosciuto. Come a dire: potrebbe essere anche Dio, ma se è la prima volta che l’incontro (per lo meno in quel modo nuovo rispetto a come sono abituato), non solo non è facile riconoscerlo, ma si vive una vera e propria paura che fa gridare. Solo la parola che fuga il dubbio sull’identità del Maestro permette ai discepoli di rassicurarsi: «Coraggio, sono io, non abbiate paura» (v. 27).
Ma è proprio qui che il vangelo ci invita a fare i conti con un altro tipo di paura che il discepolo vive, una paura più sottile e più profonda, non data dalla difficoltà di riconoscere una presenza di Dio inconsueta, bensì data dalla sfiducia nei suoi confronti. Pietro domanda a Gesù una conferma della sua identità, chiedendogli di poter fare la stessa cosa che sta facendo Lui: «Signore, se sei tu, comandami di venire verso di te sulle acque» (v. 28). In fondo, Pietro inizialmente mostra di avere una grande fede in Gesù: se c’è davvero Lui, se è Lui che mi dice «Vieni!» (v. 29), il discepolo non ha nulla da temere, neppure se si deve vivere una cosa impossibile alle capacità umane, com’è quella di camminare sulle acque, oltretutto in mezzo a onde e vento contrario. E fin tanto che Pietro si fida di Gesù e della sua parola, fin tanto che guarda a Lui più che a sé e a ciò che lo circonda, cammina sulle acque e va verso Gesù. Ma nel momento in cui la sua attenzione e la sua fiducia non sono più riposte in Gesù, ma egli si ferma a considerare la forza del vento e ne ha paura, comincia ad affondare. E causticamente la parola di Gesù segnala il punto esatto della questione: «Uomo di poca fede, perché hai dubitato?» (v. 31); il problema, dunque, non è la forza del vento o l’impossibilità di Pietro a fare certe cose, bensì il non fidarsi più della parola di Gesù.
Per avere un’analogia facilmente percepibile di quanto indicato è impareggiabile l’esempio delle relazioni tra mamma e bimbo: quando la mamma aprendo le braccia dice al bimbo di provare a dirigersi verso di lei («Vieni!» - v. 29) la prima volta che inizia a camminare, il bimbo, perché lo fa? Perché può contare sulla certezza che non cadrà? Perché analizza e valuta la possibilità di riuscire con le sue forze a superare queste difficoltà? Perché ha esperienze pregresse tali che gli certifichino che se mette i piedi in questo modo e le mani in quell’altro riuscirà a mantenere un equilibrio tale da permettergli di arrivare alla meta? No. Lo fa, solo perché la mamma glielo dice. E se glielo dice la mamma – cioè quella creatura di cui sa benissimo che può fidarsi, perché l’ha sempre accudito, gli dà da mangiare, gli vuole bene – allora, sulla sua parola, può provare a muovere i suoi passi. Per questo l’alternativa è secca e la parola di Gesù stigmatizza l’atteggiamento di Pietro: o ci si fida di sé (delle proprie forze, del modo di vedere/percepire anche la realtà che ci circonda) o ci si fida di Gesù (della sua forza, del suo modo di indicare e aprire una strada anche laddove sembra impossibile). E se si ha paura a fare quello che dice Lui, allora vuol dire – esattamente – che non si ha fiducia in Lui, cioè non si è sicuri – per mantenere l’analogia con l’esempio della mamma e del bimbo – che Lui davvero ci voglia bene, ci accudisca, ci nutra, si preoccupi, cioè, in maniera buona al mantenimento e accrescimento della nostra vita. Per questo la domanda di Gesù appare il punto chiave su cui Egli richiama Pietro e il discepolo di sempre: se hai paura, se dubiti, se hai poca fede, se non ti fidi … «perché?» (v. 31); quali sono le ragioni che portano a fidarti più di te e del vento che di me? Per quale ragione, in fondo, Io non ti appaio affidabile? È la sfida che Gesù lancia oggi al discepolo che ha paura di Lui: prova a dirmi – se ci riesci – per quali motivi tu dovresti avere paura di me, delle mie parole … e – più radicalmente – per quali ragioni tu non ti dovresti fidare di me.

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