domenica 28 agosto 2011

274 - SE QUALCUNO VUOL VENIRE DIETRO DI ME - 28 Agosto 2011 – Domenica XXIIª Tempo Ordinario - (Ger 20,7-9 Rm 12,1-2 Mt 16,21-27)

Quando, su invito di Gesù, si compie la scelta di ‘seguirlo’, occorre essere consapevoli che ciò comporta la ‘rinuncia’ a noi stessi, ossia l’affidarsi al suo progetto. Gesù non ci chiede di prendere la ‘sua’ croce, ma ognuno la ‘propria’: vale a dire di essere segno della sua presenza nel mondo con tutto noi stessi.
La Parola evangelica che oggi ascoltiamo – se viene da noi recepita nella libertà dalla supponenza e nella umiltà dell’amore per le sorprese di Dio –, e le novità che essa è in grado di evocare e di provocare, suscita nella coscienza di ogni cristiano uno scombussolamento generale. Questa Parola costituisce una vocazione nella vocazione cristiana e chiama ad una conversione specifica entro la conversione globale a Cristo. Può sembrare strana questa affermazione, ma, a ben pensarci, la maggior parte dei credenti, dopo avere recepito benevolmente gli appelli di Dio che giungono mediante il vangelo, vi corrisponde in maniera generica, incerta, stentata, saltuaria, fondamentalmente mediocre. Si lascia attrarre e si abitua ad una vita che ripudia sì il male eclatante, sconvolgente, da cronaca nera, ma, nel contempo, abbraccia un bene evanescente, poco impegnativo, non duraturo, lasciato all’arbitrio dell’umore o della emozione, nella logica del ‘fuoco di paglia’.
Geremia e Pietro, nelle due pagine bibliche oggi offerteci, appaiono due testimoni qualificati di questo credere soft, nicchiando, più che aderendo totalmente alla causa di Dio. Quanti tra noi vestono gli stessi panni! Qualche cristiano non ha avuto timore nel dichiararsi così. Penso solo a due campioni della carità cristiana portata alle vette dell’eroismo: S. Giuseppe Benedetto Cottolengo e la Beata Madre Teresa di Calcutta, un prete ed una suora, vissuti in epoche ed in contesti completamente differenti, ebbene, entrambi si sono dichiarati cristiani medi – nel senso di mediocri – pur avendo già corrisposto ad una vocazione di consacrazione a Dio nella Chiesa. Entrambi parlano della ‘svolta’ accaduta nella loro vita con termini identici: una «vocazione nella vocazione», una conversione nella conversione, una chiamata ulteriore a lasciarsi alle spalle una fede ed una vita cristiana di tradizione per entrare nella logica evangelica della sequela radicale rappresentata dalla croce. Se non avessero risposto a questo secondo appello, che Dio ha fatto pervenire loro, aprendo i loro occhi su una enorme fame di carità, sarebbero rimasti un anonimo buon prete torinese ed una sconosciuta suora albanese in India. Lasciatisi attrarre e sedurre senza rimpianti, abbracciata la croce con Cristo, sono divenuti due testimoni straordinari di come le Parole evangeliche, quando vengono accolte e messe in pratica, fanno lievitare la vita, fanno ingigantire la santità. Il Cottolengo e Madre Teresa sono padre e madre di una porzione di Chiesa che ancora oggi testimonia la carità di Dio, una carità che trova nella croce la sua fons e raggiunge nella croce il suo culmen.
Preghiera - Signore Gesù, non posso meravigliarmi di quello che è accaduto a Pietro. Io, proprio come lui, faccio una fatica terribile ad accettare la croce, il passaggio inevitabile attraverso la sofferenza e la morte per giungere alla risurrezione. Io, proprio come lui, preso dall’euforia, dall’entusiasmo, decido di mettermi davanti a te, pretendo di insegnarti la strada mentre invece divento un ostacolo, un inciampo…
Signore Gesù, non è bello sentirsi chiamare ‘satana’ dopo che si è data la risposta giusta, dopo che si è stati investiti di una responsabilità importante. Ma è così che tu riconduci me e Pietro alla realtà, alla logica di un disegno d’amore che non ha nulla da spartire con i progetti di potenza, coltivati dagli uomini. È così che tu richiami ogni discepolo alla sua scelta fondamentale: mettersi dietro a te, seguire i tuoi passi, accettare di compiere lo stesso percorso che conduce prima al luogo del Calvario e poi alla gloria della Risurrezione.

sabato 27 agosto 2011

273 - IL SENSO E L’ESERCIZIO DEL POTERE NELLA CHIESA - Per una pausa spirituale durante la XXIª settimana

Una volta la consegna delle chiavi di casa al figlio che diventava ‘grande’ corrispondeva alla raggiunta fiducia e alla condivisione della responsabilità nella gestione delle cose famigliari; uno dei tanti riti di iniziazione alla vita, prima della maggior età legale, come un battesimo di appartenenza al gruppo dei pari. Così, al contrario, il togliere le chiavi, il cambiare le serrature, corrisponde al sospendere la fiducia, al tagliare il rapporto di corresponsabilità. Le chiavi della macchina: il permesso di usare l’automobile di papà (e di lasciare il serbatoio vuoto…), di andare e venire e caricare gli amici.
Il potere nella vita è la forza di imporre la propria volontà, prima a se stessi e poi agli altri. Ci sono diversi poteri: il potere economico, segnato dal denaro e dalla possibilità di disporre dei beni materiali corrispondenti alle esigenze di vita delle persone; il potere politico, che corrisponde alla possibilità di gestire il bene pubblico legalmente (o con la violenza appoggiata alla forza militare o altro) a favore del popolo governato; il potere giudiziario, esercitato nei luoghi dove gli uomini gestiscono la giustizia e assolvono o condannano nel nome del popolo o dell’autorità superiore; il potere famigliare, dei genitori sui figli, o dei coniugi reciprocamente, o sulle persone messe in tutela, che si esercita in privato ed è legato sì, alla fondazione giuridica dell’istituto famigliare, ma soprattutto all’autorevolezza guadagnata con la coerenza e la trasparenza della vita; il potere religioso, che disciplina anche la vita civile facendo appello all’autorità superiore, all’‘aldilà’, che rappresenta il giudizio finale e la protezione temporale nelle vicende umane.
Il potere religioso si esercita abitualmente in una istituzione. Chi è investito di potere non è accreditato per le sue qualità personali, ma per il mandato ricevuto dall’autorità costituita. C’è anche però il potere religioso legato al carisma della persona. Questa forma sembra essere sempre più diffusa e congeniale nel mondo liquido della modernità.
Oggi la Chiesa non può presentarsi come una centrale di potere. La scomunica, pur giustificabile in una visione di comunione sacramentale, non ha più luogo e opportunità adeguata per essere esercitata nel mondo attuale. Sant’Ambrogio poteva espellere dalla chiesa l’Imperatore reo di un massacro. Il vescovo, se un prete non obbediva, mandava le sue guardie a mettere in riga il rivoltoso. Si potevano tagliare i viveri ai figli e ad ogni altro dipendente perché la società sanciva il potere e ne garantiva l’efficacia.
Oggi dobbiamo tentare di superare ogni forma di autoritarismo per recuperare l’autorevolezza. Talvolta l’autorità viene messa in discussione, o addirittura derisa, da chi ha soltanto la forza della contestazione senza che segua, al rifiuto di docilità, la coerenza del comportamento. È un prezzo da pagare alla crescita, un’adolescenza generalizzata da sopportare con pazienza perché non è destinata al conflitto distruttivo, ma al raggiungimento di una più adulta maturità.
Oggi la Chiesa deve qualificare e purificare l’esercizio del potere soprattutto su quattro direzioni:
– il potere della verità. Superando i compromessi che permettono di galleggiare, ma alla fine ostacolano la navigazione della barca di Pietro, occorre ritornare alla Verità che rende liberi. Una verità scomoda, che si paga abitualmente con il sangue. La verità dei primi cristiani, del vecchio padre dei Maccabei (2 Mac 6,18-31). La verità dei profeti e dei grandi fondatori e riformatori;
– il potere del grembiule. Ogni scandalo (pedofilia, traffici economici…) patito nei tempi recenti o ripescato nella storia con operazioni deontologicamente scorrette, indebolisce il potere della Chiesa. Ogni atto di servizio nascosto, di sacrificio in piena gratuità (Madre Teresa di Calcutta, i monaci algerini, i missionari uccisi ogni anno sul fronte dell’evangelizzazione e della promozione umana…) alimenta la forza di comunione e la coerenza al Vangelo;
– il potere della misericordia e del perdono. Nonostante la conflittualità generalizzata (tanto che appare sempre di grande attualità il vecchio adagio filosofico Homo homini lupus, «l’uomo è lupo per il suo simile»), il bisogno di incontrare nella vita le braccia aperte di un Padre accogliente è sempre urgente. La Chiesa può parlare di misericordia se essa stessa è misericordiosa;
– il potere della memoria. Su questo punto la società moderna è fortemente scompensata. Da un lato costruisce macchine sempre più potenti, capaci di confrontare in pochi istanti miliardi di dati e di tirare conclusioni operative mettendo in comunicazione in tempo reale il mondo intero. Dall’altro dimentica il passato remoto, ma anche quello recente, scritto con il sangue dei testimoni. Questa smemoratezza spinge a costruire scatole sempre più vuote (case o strutture di pensiero) dentro le quali alloggiare il tempo di una stagione. L’usa e getta della vita si fonda sull’esiguità dello spessore storico delle cose. Sedimentare e trasmettere ciò che resiste all’usura del tempo è compito della Chiesa.
Quelle chiavi che Pietro tiene tra le mani sono pesanti. Non possono essere rimpiazzate da un qualsiasi telecomando, né usate come ricatto verso i figli ribelli. La religione tende a legare. Tante volte si è presentata la legge come una siepe, forse è più giusto che sia intesa come un cartello indicatore della retta via. Di fronte al cieco nato che ha riavuto la vista gli uomini della Sinagoga cercano l’irregolarità, l’abuso, la menzogna; Cristo e i semplici cercano la libertà e la grazia del vedente. Nella Chiesa nasce talvolta la paura che ‘sciogliere’ voglia dire ‘briglie sciolte’. E forse l’istituzione deve temere che la perdita di controllo finisca per indebolire il governo. Moltiplicando i linguaggi si restituisce a molti la possibilità di esprimersi, ma si rende più difficoltoso il compito di controllo dei pochi. Un’altra tentazione, nel clima dell’enfatizzazione della libertà individuale, è quella di sciogliersi da soli. L’autoassoluzione separa la coscienza individuale da quella collettiva, scavalca il giudizio oggettivo della storia e riduce il principio all’opinione personale.
Il rapporto tra terra e cielo non deve essere fondato sulla paura del castigo, ma sul timore di Dio che spinge al rispetto della vita e del Creatore. Allora il Cielo ritrova la sua forza e ritorna ad essere il luogo del giudizio ultimo, della valorizzazione della terra, del passaggio dal tempo all’eternità. E le parole dette a Pietro: «A te darò le chiavi del Regno dei cieli», riacquistano il senso e la pesantezza delle cose ultime.

domenica 21 agosto 2011

272 - TU SEI IL CRISTO, IL FIGLIO DEL DIO VIVENTE - 21 Agosto 2011 – Domenica XXIª Tempo Ordinario - (Is 22,19-23 Rmi 11,33-36 Mt 16,13-20)

Quando Gesù vuole mostrare esemplarità di fede, o istruire in modo intenso i suoi discepoli circa la fede, esce dai confini della terra promessa, esce, cioè, dalle ristrettezze campanilistiche del giudaismo, e mostra, così, un mondo insospettato, dove il regno di Dio si rivela veramente molto più grande, e persino assai più ‘simpatico’ di quanto lo sia nel gretto mondo religioso di chi presume di credere, vittima del suo provincialismo, della sua ristrettezza mentale e spirituale. Più che di uno spostamento geografico, si tratta allora di un trasferimento antropologico e religioso, perché la fede, talvolta disprezzata, di quelli che vivono ‘in partibus’, provoca e mette in crisi un vivacchiare «in ciò che spesso han mascherato con la fede», incapace «di negare tutto ciò che è falsità, le fedi fatte di abitudine e paura, una politica che è solo far carriera, il perbenismo interessato, la dignità fatta di vuoto, l’ipocrisia di chi sta sempre con la ragione e mai col torto», così cantava Francesco Guccini, in una canzone che ha fatto epoca e scalpore. Ho fatto riferimento volutamente al testo di un cantautore che non frequenta sacrestie, ma che, come tante altre persone e situazioni, proprio per la loro liminalità, riesce a provocare e a mettere in discussione una fede assopita, rannicchiata, subita, narcotizzata. Ebbene, proprio queste persone e situazioni pongono alla coscienza cristiana domande ineludibili: «chi è Cristo per me?, quanto conta nella vita?, quanto incide sull’essere?, perché e come si crede in Lui?, per quali motivazioni continuiamo a dirci discepoli (speriamo non solo seguaci)?». E come la risposta di Pietro non è stata un lampo di genio di un soggetto, ma una illuminazione del cielo – così l’ha definita Gesù –, allo stesso modo, ciascuno deve invocare umilmente, ma insistentemente, lo Spirito Santo, perché illumini le menti ed i cuori, e ci doni la stessa percezione di quanto ci è necessario Cristo, e di come, senza di Lui, non possiamo fare nulla! Lo Spirito ci infonda la beatitudine propria di chi appartiene e gioisce di appartenere, consapevoli che questo non ci esenta dalla debolezza del tradimento – è stato così anche per Pietro –, ma ci ridimensiona nella nostra supponenza, e ci fa toccare con mano che, senza di Lui, siamo perduti, incapaci persino di essere noi stessi, a fronte alta, dinanzi al mondo. Ma tutto ciò induce anche ad apprezzare, a valorizzare, a far nostro, il servizio di Pietro e dei suoi successori in ordine alla Verità, senza la quale non saremo mai liberi. Proprio perché consci del limite umano, che il vangelo non si premura di nascondere neppure nei riguardi della roccia della Chiesa, sentiamo quanto mai necessario un riferimento, un ancoraggio, non soggetto ai mutevoli «venti di dottrina», perché roccia saldamente ancorata sino a divenire un tutt’uno con la pietra scartata dagli uomini, ma resa pietra angolare da Dio, sapiente costruttore della storia.
Davanti al Mistero della ‘elezione’, che Dio intraprende su un uomo, si rimane però, il più delle volte, perplessi e sconcertati, e ci si chiede: «perché quello e non un altro?»; oppure, quando si è vittime della superbia: «perché lui e non io?»; oppure, senza raggiungere i gradi alti dell’umiltà, quando ci si lascia prendere da semplice e sano realismo: «perché proprio me e non qualcun altro?». Sono quesiti che dichiarano quanto fitto si faccia il Mistero, talora impenetrabile. Ma il Mistero è, per natura sua, qualcosa di inesauribile, di imperscrutabile, di indicibile, di inafferrabile, di inoppugnabile, perché, quando è Mistero autentico, e non enigma ambiguo o arcano segreto, è sempre progetto di amore e di dono, realtà di gratuità e di servizio. Non per nulla, volentieri, utilizziamo il termine ‘Dio’ ed il termine ‘Mistero’ come sinonimi.
Preghiera - Gli uomini stabilivano la città sulla roccia e costruivano le loro case con la pietra per mostrare la loro potenza, la loro forza e ricchezza. Tu, Gesù, scegli di edificare la tua Chiesa, la comunità dei credenti su Pietro, sulla sua fede, sul suo amore per te e lo rendi, nonostante la sua fragilità, solido e consistente come la pietra.
Gli uomini si lasciano impaurire dalle forze oscure, dai segnali diabolici, da tutto ciò che sfugge alla loro conoscenza e di cui non riescono ad impadronirsi. Tu, Gesù, assicuri Pietro che non c’è alcun potere occulto, nessuna espressione del male, della sua astuzia e della sua cattiveria, che potrà mettere a repentaglio la comunità che gli è stata affidata.
Dopo duemila anni, Gesù, noi dobbiamo riconoscere che le tue parole sono vere. Antiche e recenti tempeste sembrano talora aver la meglio sulla barca di Pietro. Ma sei tu a condurla, tu a sostenerla e difenderla, e per questo, se si affida a te, nulla e nessuno può metterla in pericolo, a patto che riconosca in te l’unico Signore, il Figlio del Dio vivente.

271 - NESSUNA SALVEZZA FUORI DALLA CHIESA? Per una pausa spirituale durante la XXª settimana

La sorte dei princìpi teologici è segnata notevolmente dalle congiunture storiche. Queste possono generare non solo interpretazioni diverse del medesimo principio, ma pure giustificare un uso ‘politico’ dello stesso. Infatti, soprattutto i princìpi ecclesiologici si prestano a giustificare comportamenti che a distanza di tempo, in altre congiunture e con altre interpretazioni, sono ritenuti perfino aberranti. E capita che a partire da tali comportamenti si leggano i princìpi in forma pregiudicata e si giunga a rifiutarli. Il principio extra ecclesiam nulla salus al riguardo rappresenta un caso esemplare. Nei suoi confronti negli ultimi decenni è stata emessa una specie di fatwa, ritenendolo causa di metodi missionari del tutto irrispettosi delle culture e delle persone di altre religioni, di ignobili uccisioni di eretici, di illiberali costrizioni alla conversione, di conflitti tra cristiani ebrei e musulmani (per limitarci alla storia del bacino mediterraneo). Sul principio ricordato pesa quindi un giudizio tale da escluderlo dal novero delle espressioni teologicamente corrette.
Si deve riconoscere che esso è indiscutibilmente servito a quanto appena ricordato. C’è però da domandarsi se ciò sia di peso dal senso autentico del principio oppure dall’uso strumentale che di esso si è fatto. Un’attenta lettura della storia del pensiero
cristiano fa propendere per la seconda ipotesi. Si deve infatti registrare che quanto avviene oggi, cioè che nella comprensione del principio lo si assolutizzi isolandolo da un ‘sistema’ nel quale può/deve essere letto, è avvenuto anche nel passato: in alcune circostanze lo si è usato senza tenere conto che nella dottrina ogni principio è in stretta connessione, a volte perfino in tensione irrisolvibile, con altri; sicché non si può immaginare di comprenderne uno senza nello stesso tempo comprenderne anche altri. Per fare un esempio eclatante: non si può comprendere l’unità di Dio senza precisare che è l’unità della Trinità (e viceversa). Ebbene, guardando globalmente la storia, si può affermare che il nostro principio non è mai esistito da solo: fin da quando è stato formulato, indipendentemente, da Origene e da Cipriano, è sempre stato accompagnato dall’affermazione che Dio vuole la salvezza di tutti. Fu compito poi della riflessione teologica, a partire da Prospero di Aquitania (sec. v), cercare di
mostrare come la volontà salvifica universale e la necessità della Chiesa per la salvezza potessero stare insieme. Di certo, ben prima della teologia della Chiesa-sacramento venuta in auge dopo il Vaticano II, i teologi scolastici avevano la chiara comprensione che Dio può agire anche oltre i mezzi da lui stabiliti; sicché, se la Chiesa è stata disposta da Dio come luogo e mezzo di salvezza, ciò non vuol dire che Egli non possa agire anche al di fuori della Chiesa.
Che Dio non abbia legato la sua grazia ai sacramenti era convinzione comune alla grande scolastica. E da questa convinzione si formulerà, prima timidamente nella teologia spagnola (Francisco de Vitoria) al tempo delle scoperte geografiche, poi
nel magistero pontificio nel secolo xix, il principio della ignoranza invincibile: fondandosi sulla giustizia di Dio, che non può condannare alla perdizione chi non è venuto a conoscenza dei mezzi da lui stabiliti per la salvezza, si riteneva che la salvezza fosse accessibile anche al di fuori della Chiesa. Al riguardo va ricordato un episodio emblematico: nel 1949 il Sant’Uffizio invia al card. Cushing, arcivescovo di Boston, una lettera nella quale si illustra il vero senso del principio extra ecclesiam nulla salus. La Lettera era stata provocata dalla presa di posizione di P. Leonard Feeney, del Saint Benedict College, che intendeva il nostro principio in senso restrittivo, ed escludeva quindi dalla salvezza tutti coloro che non appartenevano alla Chiesa. La Lettera difende invece la possibilità della salvezza per tutti coloro che credono con fede soprannaturale informata dalla carità, supponendo che questa è possibile anche al di fuori della Chiesa. Del resto già la teologia medievale si era impegnata a individuare quali contenuti di fede fossero necessari per una fede salvifica, e li aveva trovati nel testo di Eb 11,6: «[...] chi si avvicina a Dio, deve credere che egli esiste e che ricompensa coloro che lo cercano». Certo, si trattava di un contenuto minimale. Appare tuttavia sintomatico che si trovasse in tale contenuto
la condizione indispensabile per chi non aveva ancora ricevuto il Vangelo: era indizio che non si voleva restringere la salvezza solo ai membri della Chiesa.
Se così stanno le cose, ci si può domandare perché il nostro principio sia stato (e lo è ancora) interpretato in forma rigida, tale da condannare alla perdizione tutti coloro che non appartengano alla Chiesa (cattolica). Si è già detto in apertura che i princìpi teologici non vengono né formulati né recepiti in un vuoto dottrinale. Se il contesto è polemico, si accentuerà il principio in modo tale da farlo servire a uno scopo ‘secondo’. Lo si riscontra in alcuni passaggi della storia del pensiero teologico. Anzitutto in Fulgenzio di Ruspe (467-532), il quale, scrivendo una specie di catechismo per un certo Pietro che deve recarsi in ambiente non cristiano e ha quindi bisogno di una summula della fede, pone in forma assertiva il nostro principio, anche perché, se è vero che per essere salvi si deve credere, chi non sta nella Chiesa, luogo della fede, non può raggiungere l’esito della medesima fede. Questa connessione resta lungo tutti i secoli, e non si può negare che abbia una sua pertinenza. La formulazione di Fulgenzio passerà nel concilio di Firenze (1439), anche perché le opere di questo vescovo erano ritenute di sant’Agostino e quindi dotate di notevole autorevolezza, in funzione polemica non solo nei confronti dei pagani (musulmani) ed ebrei, ma pure nei confronti degli scismatici (quelli che a Basilea continuavano
un ‘anti-concilio’). Non diversa è la prospettiva che si riscontra nella Bolla Unam sanctam di Bonifacio VIII (1302), nella quale, per risolvere il conflitto tra il Papa e il re di Francia (Filippo), si scrive che sottomettersi al Romano Pontefice è per tutte le creature umane necessario al fine di ottenere la salvezza. Questi pochi esempi stanno a mostrare che il principio posto in un contesto particolare assume un significato ‘escludente’. Leggendo però il nostro principio sullo sfondo di tutta la dottrina
cristiana, ci si avvede che non è questo il significato. Con ciò non si vuol dire che esso non abbia valore. La riflessione teologica recente, tenendo conto della storia, ha messo in evidenza due aspetti: 1. la Chiesa è il luogo e lo strumento stabilito da Dio
per la salvezza dell’umanità; 2. ciò implica che chiunque giunga alla salvezza lo può fare grazie alla Chiesa, anche solo in forma mediata: senza la Chiesa, infatti, non ci sarebbe nell’umanità la traccia storica dell’azione salvifica di Dio manifestatasi in Gesù Cristo.

sabato 13 agosto 2011

270 - MARIA ASSUNTA ALLA GLORIA DI DIO - 15 Agosto 2011 – Solennità dell’Assunzione di Maria - (Ap 11,19-12,10 1ªCorinti 15,20-27 Lc 1,39-56)

Il credo ecclesiale nella assunzione al cielo, in anima e corpo, di Maria madre di Gesù ha come riferimento il mistero pasquale di Cristo Gesù, nostro Signore. Ecco come viene formulata tale professione di fede dal Prefazio della Messa odierna: «In lei, primizia e immagine della Chiesa, (tu, o Dio) hai rivelato il compimento del mistero di salvezza; e hai fatto risplendere per il tuo popolo, pellegrino sulla terra, un segno di consolazione e di sicura speranza. Tu non hai voluto che conoscesse la corruzione del sepolcro colei che ha generato il Signore della vita...».
Accanto a queste solenni dichiarazioni della Liturgia dell’Assunta – che nel Prefazio assumono anche il tono del rendimento di grazie e di gloria al Signore – per il cammino di fede e di speranza dell’uomo contemporaneo può aiutare anche richiamarsi a quel sensus fidelium ecclesiale che da secoli ha guidato la cristianità fin sulla soglia del mistero dell’assunzione in cielo, in anima e corpo, di Maria di Nazaret.
Quel percorso conserva ancora la sua attualità, di fondazione e di sostegno, nei confronti di coloro che cercano senso alla loro concreta esistenza umana e chiedono motivazione alla loro aspirazione e speranza di vita e di immortalità.
Il sì di fede nel mistero di Maria assunta in cielo non può ridursi alla semplice affermazione verbale della sua formula dogmatica. Esso richiede di essere verificato e contemplato da vicino in uno o l’altro degli itinerari ecclesiali che lungo i secoli hanno consentito di professarlo, come appunto era stata la via della ‘tradizione vivente’, sostenuta e guidata dal soffio dello Spirito Santo e dal discernimento del Magistero ecclesiale. L’altra irrinunciabile via di accesso al credo nell’Assunta è la parola di Dio biblica.
Preghiera - La salvezza che tu ci offri, Gesù, non è destinata solo al nostro spirito: corpo e anima verranno trasfigurati dalla tua bontà e dalla tua bellezza. per partecipare ad una gioia che durerà nell’eternità.
Ecco perché la festa di oggi è un appuntamento di speranza per tutti coloro che credono in te. Ecco perché l’assunzione di Maria subito dopo la morte, corpo e anima, nella gloria del cielo, rappresenta un anticipo ed un pegno di ciò che accadrà ad ognuno di noi.
Sì, il nostro corpo non è un peso inutile di cui disfarci, un ingombro di cui liberarci: nella nostra vicenda umana, per la nostra fede e la nostra carità, esso è uno strumento indispensabile. Come potremmo altrimenti manifestare la gioia e il dolore, esprimere l’amore e la tenerezza, donare conforto e sostegno, praticare la solidarietà? Come potremmo senza questo corpo dire la tua lode, chiedere il tuo aiuto, intendere la tua Parola, ricevere i tuoi doni di grazia, i santi Sacramenti?
Fa’ dunque del mio corpo, Signore,fin d’ora un segno della tua bontà!

269 - DONNA, GRANDE E' LA TUA FEDE! - 14 Agosto 2011 – Domenica XXª Tempo Ordinario - (Is 56,1.6-7 Rm 11,13-15.29-32 Mt 15,21-28)

Il testo evangelico di oggi appartiene alla sezione che in Matteo e Marco rievoca il ‘viaggio-scuola’ organizzato e guidato da Gesù per formare i suoi discepoli alla loro missione futura. Ad una attenta lettura della redazione matteana, l’interesse è centrato non tanto sul ‘miracolo di guarigione’, quanto sul dialogo fra Gesù e la donna cananea: quasi una lezione di Gesù al gruppo presente dei suoi discepoli, che sbrigativamente erano intervenuti per suggerire al Maestro di licenziare quella cananea! Loro, che già avevano maldestramente consigliato Gesù di mandar via in fretta gli oltre cinquemila a cui invece Gesù intendeva offrire di che nutrirsi nel deserto (cfr. Mt 14,13-21).
Ma l’episodio merita di essere esaminato ancora più da vicino, nelle sue tre scene:
vv. 21-23a: c’è anzitutto un primo tempo, in cui esiste una distanza fra la donna cananèa e Gesù. Scenicamente si ascolta un grido, più che assistere ad un incontro. Ma si faccia attenzione a quella voce, che Matteo presta ad una cananèa: è la voce dell’umanità, tante volte registrata anche nei salmi di Israele (cfr. Sal 27,7). Un testo esemplare: «Ma tu, Signore... volgiti a me e abbi pietà: ... salva il figlio della tua serva» (Sal 86,16; 25,16). E tale invocazione è dalla donna rivolta al «Signore, figlio di Davide»: dunque, secondo il credo cristiano!
vv. 23b-24: i primi ad avvicinarsi a Gesù sono i suoi discepoli, per una intercessione però che ha scarsa attenzione al dramma di quella madre! Motivazione: «perché ci viene dietro gridando!». Qualcosa di simile i discepoli avevano manifestato anche nell’episodio dei pani moltiplicati nel deserto. Alcuni perciò tradurrebbero la precisa richiesta dei discepoli non con «esaudiscila», ma con «licénziala»! A meno che Gesù non intenda rifiutare la prima intercessione dei discepoli, non per aderire alla loro domanda di essere lasciati in pace, ma – come egli afferma subito – «perché non sono stato mandato se non alle pecore perdute della casa di Israele» (v. 24): coerentemente con quanto indicato anche agli apostoli, in un primo tempo (cfr. Mt 10,5-6).
vv. 25-28: è la scena centrale, fondamentalmente caratterizzata dal dialogo fra Gesù e la donna, ma una donna che è madre di una figlia malata. Perciò, in ginocchio ai piedi di Gesù, come avevano fatto altri due genitori, Giairo (cfr. Mt 9,18) e il padre del ragazzo epilettico (cfr. Mt 17,14). Ma di questa cananea pagana Matteo ci fornisce altri due elementi circa la sua «grande fede», unita all’affetto materno: la sua nuova invocazione è semplificata in una formula che fa tutt’uno di lei e la figlia: «Signore, aiutami!» (cfr. Sal 109,26); e alla affermazione dura di Gesù, quasi per metterla alla prova, la donna ha pronta una soluzione di fiducia e di speranza: chiede per sé (e per i pagani) le briciole di pane che cadono dalla mensa dei figli... di Israele. La medesima grande fede, elogiata da Gesù nella donna cananea, era già stata messa in luce da Gesù nei riguardi del centurione romano di Cafarnao (cfr. Mt 8,5-13). Quando si ama, si arriva alla fede e si trova un linguaggio semplice e diretto per dire la fede come invocazione e preghiera.
Preghiera - Sulla mia strada, Gesù, hai messo tante persone che stranamente assomigliano a quella cananea. Non nuotano nell’ambiente ecclesiale e a prima vista sembrano tanto distanti da Dio. Non offrono particolari segni di pratica cristiana o di devozione, ma al momento giusto rivelano una fede grande, solida, capace di sfidare qualsiasi avversità. E così mi rimandano, inevitabilmente, alla mia esistenza, immersa nella vita di una comunità, contrassegnata da simboli e da immagini che si richiamano a te, percorsa dalla conoscenza della tua Parola.
Agli occhi degli altri tutto ciò fa di me un discepolo vicino a te. Ma qual è veramente la mia fede? Quanta ne è la sua consistenza quando si tratta di affrontare il primo ostacolo? Che cosa mi accade quando mi rivolgo a te per chiederti qualcosa e mi sembra che tu non risponda?
Signore Gesù, donami la grazia di stupirmi della fede altrui, della fede dei ‘lontani’, della fede dei miei compagni di viaggio. Donami di accoglierla come un dono prezioso destinato a riaccendere e a ravvivare la mia fiducia e il mio amore per te.

268 - LA PAURA E LA FEDE - Per una pausa spirituale durante la XIXª settimana

Non è detto che sia proprio così scontato che l’uomo provi desiderio e voglia di incontrare Dio. Anzi, la Scrittura ci ammonisce che spesso e volentieri l’uomo ha paura di Dio e per i più svariati motivi. Anche ‘di giorno’, infatti, in piena luce, laddove è possibile riconoscere senza ombra di dubbi la presenza di Dio, è possibile avere paura di Lui. È così che Genesi ci presenta l’uomo e la donna dopo la disobbedienza a Dio: udendo i «passi del Signore Dio che passeggiava nel giardino alla brezza del giorno», si nascosero «dalla presenza del Signore Dio», perché ebbero paura a causa del loro ritrovarsi nudi, colpevolmente spogliati della dignità di figli dopo la disobbedienza (Gen 3,8-10). Si può, dunque, avere paura di Dio, proprio a causa dell’aver perso la fede, dell’aver rotto il patto di fiducia/alleanza con Dio, dell’aver consapevolmente disobbedito alla parola che si era accolta da Dio e che si era deciso di seguire. Interessante: quando si smette di fidarsi di Dio, si ha paura di Lui prima ancora che per il suo giudizio (paura di essere condannati e delle conseguenze delle proprie azioni peccaminose), per il fatto di ritrovarsi «nudi», vergognosamente esposti alla fragilità di una dignità ferita.
Ma è su altri tipi di paura che il vangelo di domenica ci invita a riflettere. Due volte, infatti, ricorre nel testo di Matteo (14,22-33) il riferimento alla paura: quando i discepoli «vedendolo camminare sul mare … furono sconvolti … gridarono dalla paura» (v. 26), e quando Pietro, poiché il «vento era forte, s’impaurì» (v. 30). Anche il discepolo più credente prova paura – come ogni uomo – di fronte all’inedito, al non consueto: il Suo venire incontro in modo insolito e inaspettato, un po’ improvviso e un po’ in chiaroscuro, oltretutto in mezzo alle intemperie della vita e alle notti dell’esistenza, spiazza; la Sua è una presenza che non si riesce a riconoscere e a comprendere, a prendere dentro gli schemi soliti con cui si era fatto i conti sino ad allora anche con Lui … e allora, la reazione è quella di «gridare dalla paura», perché si pensa di fare i conti con un «fantasma» (v. 26) e non con il Maestro conosciuto. Come a dire: potrebbe essere anche Dio, ma se è la prima volta che l’incontro (per lo meno in quel modo nuovo rispetto a come sono abituato), non solo non è facile riconoscerlo, ma si vive una vera e propria paura che fa gridare. Solo la parola che fuga il dubbio sull’identità del Maestro permette ai discepoli di rassicurarsi: «Coraggio, sono io, non abbiate paura» (v. 27).
Ma è proprio qui che il vangelo ci invita a fare i conti con un altro tipo di paura che il discepolo vive, una paura più sottile e più profonda, non data dalla difficoltà di riconoscere una presenza di Dio inconsueta, bensì data dalla sfiducia nei suoi confronti. Pietro domanda a Gesù una conferma della sua identità, chiedendogli di poter fare la stessa cosa che sta facendo Lui: «Signore, se sei tu, comandami di venire verso di te sulle acque» (v. 28). In fondo, Pietro inizialmente mostra di avere una grande fede in Gesù: se c’è davvero Lui, se è Lui che mi dice «Vieni!» (v. 29), il discepolo non ha nulla da temere, neppure se si deve vivere una cosa impossibile alle capacità umane, com’è quella di camminare sulle acque, oltretutto in mezzo a onde e vento contrario. E fin tanto che Pietro si fida di Gesù e della sua parola, fin tanto che guarda a Lui più che a sé e a ciò che lo circonda, cammina sulle acque e va verso Gesù. Ma nel momento in cui la sua attenzione e la sua fiducia non sono più riposte in Gesù, ma egli si ferma a considerare la forza del vento e ne ha paura, comincia ad affondare. E causticamente la parola di Gesù segnala il punto esatto della questione: «Uomo di poca fede, perché hai dubitato?» (v. 31); il problema, dunque, non è la forza del vento o l’impossibilità di Pietro a fare certe cose, bensì il non fidarsi più della parola di Gesù.
Per avere un’analogia facilmente percepibile di quanto indicato è impareggiabile l’esempio delle relazioni tra mamma e bimbo: quando la mamma aprendo le braccia dice al bimbo di provare a dirigersi verso di lei («Vieni!» - v. 29) la prima volta che inizia a camminare, il bimbo, perché lo fa? Perché può contare sulla certezza che non cadrà? Perché analizza e valuta la possibilità di riuscire con le sue forze a superare queste difficoltà? Perché ha esperienze pregresse tali che gli certifichino che se mette i piedi in questo modo e le mani in quell’altro riuscirà a mantenere un equilibrio tale da permettergli di arrivare alla meta? No. Lo fa, solo perché la mamma glielo dice. E se glielo dice la mamma – cioè quella creatura di cui sa benissimo che può fidarsi, perché l’ha sempre accudito, gli dà da mangiare, gli vuole bene – allora, sulla sua parola, può provare a muovere i suoi passi. Per questo l’alternativa è secca e la parola di Gesù stigmatizza l’atteggiamento di Pietro: o ci si fida di sé (delle proprie forze, del modo di vedere/percepire anche la realtà che ci circonda) o ci si fida di Gesù (della sua forza, del suo modo di indicare e aprire una strada anche laddove sembra impossibile). E se si ha paura a fare quello che dice Lui, allora vuol dire – esattamente – che non si ha fiducia in Lui, cioè non si è sicuri – per mantenere l’analogia con l’esempio della mamma e del bimbo – che Lui davvero ci voglia bene, ci accudisca, ci nutra, si preoccupi, cioè, in maniera buona al mantenimento e accrescimento della nostra vita. Per questo la domanda di Gesù appare il punto chiave su cui Egli richiama Pietro e il discepolo di sempre: se hai paura, se dubiti, se hai poca fede, se non ti fidi … «perché?» (v. 31); quali sono le ragioni che portano a fidarti più di te e del vento che di me? Per quale ragione, in fondo, Io non ti appaio affidabile? È la sfida che Gesù lancia oggi al discepolo che ha paura di Lui: prova a dirmi – se ci riesci – per quali motivi tu dovresti avere paura di me, delle mie parole … e – più radicalmente – per quali ragioni tu non ti dovresti fidare di me.

sabato 6 agosto 2011

267 - QUANDO IL SIGNORE NON PASSA LONTANO DA NOI - 07 Agosto 2011 – Domenica XIXª Tempo Ordinario - (1°Re 19,9.11-13 Rm 9,1-5 Mt 14,22-33)

Possiamo essere sulla barca della ‘Chiesa’, ma non avere ancora riconosciuto la misteriosa singolarità della presenza di Gesù suo Signore e guida. Il credente sperimenta anche paura, dubbio, insicurezza. La fede non ci elimina le nostre insicurezze, ma ci promette che Dio ci è vicino, anche se non nella forma dell’evidenza che si impone.
La barca della Chiesa nel mare della storia. L’immagine della barca nel mare in tempesta è spesso stata letta come l’immagine della Chiesa che affronta le difficoltà del tempo. L’attualità mostra un primato delle cose, uno spazio eccessivo dato all’accaparrarsi il maggior numero possibile di beni. Forse in ambito educativo si riscontra oggi una grande difficoltà nel distinguere ciò che è importante da quanto non lo è affatto. I mezzi di comunicazione sociale pongono a portata di mano e senza alcuna distinzione le notizie più diverse. Così noi adulti, ma soprattutto le giovani generazioni, ci troviamo immersi in un contesto confuso, quasi un mare in tempesta dove non riusciamo più a scorgere le dritte per poter orientare verso il Signore la nostra vita.
Alla ricerca della brezza leggera. Gesù «salì sul monte, in disparte a pregare» ed Elia al «sussurro di una brezza leggera» si coprì il volto e si fermò alla presenza del Signore. Certamente un tempo impegnato nella preghiera è necessario alla nostra vita, anche come momento di pace nella frenesia della vita quotidiana. Forse coniugare vissuto e preghiera rappresenta una meta lontana per ciascuno di noi, ma inoltrarci nella vita cristiana ci conduce in questo sentiero. Quando in famiglia ascolto l’altra persona – coniuge o figlia/o – non unisco forse relazione umana e relazione con il Signore? Così, quando percepisco la mia vita come un dono messo dalla Provvidenza nelle mie mani e per questo offro me stesso come dono nella carità, nella pazienza e nella benevolenza, non vivo e non creo quella comunione che è dono di Dio?
Alla ricerca di un incontro tra sensibilità diverse. La preghiera conduce all’incontro con il Signore. Nella preghiera liturgica si raccolgono le intenzioni di tutti e si presentano all’altare. La liturgia della Parola di oggi ci presenta personaggi diversi in relazione con Dio: il profeta Elia nell’atto di purificare la religione; il salmista che evoca ‘amore e verità’, ‘giustizia e pace’ come tracce che conducono a Dio misericordioso; gli apostoli con Pietro che eleva il grido: «Signore, salvami!» e san Paolo che ha «nel cuore un grande dolore e una sofferenza continua», disposto ad essere separato da Cristo a vantaggio degli Ebrei suoi «consanguinei secondo al carne». Ci troviamo di fronte a volti diversi, a sensibilità diverse, ma tutti orientati all’incontro con il medesimo Signore della vita e della storia.
Alla ricerca della mano tesa dal Signore. L’apostolo Pietro andò verso Gesù sulle acque, ma di fronte al forte vento s’impaurì «e subito Gesù tese la mano, lo afferrò e gli disse: ‘Uomo di poca fede, perché hai dubitato?’». Facciamo fatica ad accettare il rimprovero e siamo certamente capaci di trovare mille attenuanti al nostro comportamento. Istintivamente ci ribelliamo rinfacciando al Signore: «Quando, dove ci hai teso la mano?». È la nostra miopia, la nostra poca fede che ci mette in opposizione al Signore. Un maggior ascolto della sua Parola, la frequenza vivace e attenta ai sacramenti, la sensibilità verso quei gesti di delicatezza e di cura che possiamo scoprire nella nostra vicenda personale ci danno la possibilità di scoprire la mano tesa dal Signore nella nostra esistenza. Le alleanze e le promesse di Dio non vengono mai meno. È la nostra cecità che ci impedisce di scorgere la presenza salutare del Signore.
Fidarsi di sé o fidarsi di Dio? Come figli del nostro tempo è più facile fidarci di noi stessi che affidarci al Signore. Come cristiani non ci sentiamo né dei grandi peccatori né attratti dalla santità: ci accontentiamo della nostra mediocrità, forse qualche volta ci attira il desiderio di poter apparire. Siamo lontani dall’affidarci, dal mettere la nostra vita completamente nelle mani di Dio. Non siamo in grado di scegliere come chiave di lettura della nostra vita la vocazione, lasciandoci condurre anche attraverso le paure e le difficoltà dalla mano del Signore. Diventa così difficile anche sorprenderci ed esclamare come gli apostoli: «Davvero tu sei Figlio di Dio!». Il Signore guidi i nostri passi nella fede e ci renda famiglia capace di preghiera e vincitrice della paura dentro di noi e di fronte al mondo.
Preghiera - Ci sono momenti in cui la nostra barca affronta la traversata del lago con il vento in poppa. Allora, Gesù, quando tutto scorre liscio, mi lascio afferrare dall’ottimismo e mi pare che ogni cosa mi sorrida. Ma quando il vento è contrario, quando rimanerti fedeli significa trovarsi davanti ostacoli e difficoltà, sospetti e pregiudizi, se non addirittura qualche scherno, allora comincio ad avere paura. Paura per quello che mi accade e per quello che mi riserva il futuro, paura per quando questo vento si farà ancora più forte ed io mi sentirò sballottato dalle onde, in preda all’agitazione.
Tu, però, non mi lasci solo, non mi abbandoni alla mia fragilità: tu vieni incontro a me e a tutti quelli che si trovano nella barca. Tu ci mostri come sia possibile affrontare il mare in tempesta, lo scatenarsi degli elementi: basta che ci fidiamo di te,
della tua parola, della tua presenza, del tuo progetto d’amore. Allora siamo in grado di attraversare qualsiasi avversità, qualsiasi conflitto, senza alcun timore, perché tu sei con noi.

giovedì 4 agosto 2011

266 - I MIRACOLI E LA FEDE - Per una pausa spirituale durante la XVIIIª settimana

Il tema dei miracoli è sempre d’attualità, persino nelle trasmissioni e nelle pubblicazioni frivole. Perciò non è esente da rischi. Da una parte, l’enfasi sul prodigioso costituisce una minaccia per la fede, specie quando induce ad un atteggiamento fanatico e superstizioso. Dall’altra, però, nei confronti di ogni notizia di eventi straordinari vi può essere uno scetticismo pregiudiziale che fa leva su di una ambigua motivazione spirituale: in nome di una fede ‘pura’ tutto ciò che riguarda il corpo e i sensi non attiene al regime della Grazia. Per i cristiani la fede non può essere confusa con la creduloneria; però non è autentica se è disincarnata. Liberato il campo dal dolo sfacciato, sussiste il problema del senso, del significato di alcuni accadimenti eccezionali.
1. Il discernimento necessario trova la sua bussola nella testimonianza evangelica circa il comportamento taumaturgico di Gesù. Colpisce anzitutto la sobrietà dei racconti, che non indulgono affatto a sensazionalismi: i prodigi compiuti da Gesù non mirano a strappare applausi, tanto meno a suscitare adulazione (cfr. Gv 6,15). Anzi, proprio quando si avvede della diffidenza nei confronti della sua persona il Maestro non forza la mano per estorcere un consenso; piuttosto dichiara la propria impotenza ad agire (cfr. Mc 6,5s.; 8,11-13). Una relazione con Gesù improntata alla fiducia (come quella del centurione di Lc 7,1-10) è la condizione perché la potenza del Regno annunciato da Gesù possa dispiegarsi nei gesti di bene da lui compiuti. Anche quando il bisogno immediato viene saziato (trovare il pane, Mt 14,16; guarire dalla lebbra, Lc 7,11-19), viene offerto molto di più; ma questa eccedenza è legata alla persona stessa di Gesù e quindi può essere scoperta soltanto approfondendo la relazione che lui dischiude. L’evangelista Giovanni ne disegna magistralmente il tracciato, rinviando all’ora della glorificazione (cfr. Gv 2,4 e 13,1) la manifestazione della misura reale della potenza di Gesù.
2. Ora, però, se giudichiamo la croce di Gesù secondo i parametri generici della forza strabiliante, dobbiamo riconoscere che si tratta dell’anti-miracolo per eccellenza. La sfida lanciata da quanti si facevano beffe del Crocifisso (cfr. Mt 27,41) viene raccolta da Paolo, quando identifica la dýnamis di Dio proprio nel vangelo della Croce (cfr. Rm 1,16s.; 1 Cor 1,23s.). Nell’incontro con il Crocifisso risorto – non ostentato ai detrattori, ma offerto agli amici – le donne e gli apostoli riconoscono che le piaghe gloriose sanciscono la misura integrale ed irrevocabile dell’offerta che Dio fa di sé all’umanità nel dono del Figlio (cfr. Gv 3,16; 1 Gv 4,9). Questo è il miracolo, di cui ogni altro prodigio era anticipazione: un Dio per l’uomo. Chi non ‘vede’ questo, finirà per stancarsi presto dei benefici a intermittenza che il Cielo concede; anzi, magari giungerà a stizzirsi e a imprecare per un esaudimento che non giunge sollecito. Chi invece apre gli occhi su questo eccesso – sulla Grazia! – può fregiarsi del titolo di ‘vincitore’ in virtù di Colui che ci ha amati (cfr. Rm 8,31-39). Ecco perché nella scenografia della Passione il terremoto si scatena ed il velo del tempio si lacera proprio alla morte dell’Innocente: sono i segni che nell’oblazione di Gesù (cfr. Mc 10,45; Gv 10,18) ha inizio la nuova creazione e nel sangue dell’Agnello viene sigillata l’alleanza definitiva.
3. È quanto mai opportuna, allora, una revisione della classificazione usuale del miracolo tra i fenomeni preter-naturali; classificazione che suggeriva l’infrangimento di un meccanismo e quindi una contrapposizione alla natura. Infatti, nel miracolo che è Gesù noi riconosciamo piuttosto la verità della creazione, il mistero nascosto nei secoli, preparato pazientemente da Dio (cfr. Ef 1,3-14; Dei Verbum 3). È a partire dal Crocifisso risorto che noi possiamo rileggere la storia intera del cosmo come l’anticipazione necessaria all’incontro con lo Sposo e come il travaglio che giungerà a definitivo compimento nelle nozze con Lui (cfr. Rm 8,18-25; Ap 21–22).
4. Il prodigioso sviluppo del sapere scientifico e delle sue applicazioni tecnologiche ha svelato molti segreti del funzionamento della natura ed ha dotato l’umanità di strumenti potenti per liberarsi dalla sua indigenza. Ciò che non si può chiedere alla scienza è il senso complessivo dell’avventura umana e la causa buona per la quale impiegare l’esistenza personale. Nell’incontro con Gesù l’enigma più grande che è la nostra libertà si svela non come una finzione, né come una condizione tragica, ma come il rischio necessario ad una salvezza che ha la forma della relazione (cfr. 1 Gv 1,1-4). Dio non ci impedisce di sperimentare il nostro limite, non perché sia sadico, ma perché cerca il nostro consenso senza ingoiarci. Siamo dunque restituiti alla piena drammaticità del corso della storia, talmente devastata dal male da apparire talvolta irriconoscibile la promessa anticipata nella creazione. Chi volge lo sguardo al Crocifisso, chi si lascia attirare da lui (cfr. Gv 12,32), viene liberato dalla disperazione, perché il destino della storia è posto sotto il segno della redenzione.
5. Di fronte alla notizia di presunti eventi prodigiosi spetta alla Chiesa verificare la cristiformità di ogni dono, in particolare la compatibilità con il vangelo della Croce. Quando lo stupore non matura nelle condizioni obiettive della conversione (nell’ascolto della Scrittura, nella celebrazione del sacramento e nella comunione nel vincolo apostolico), rischia di mutarsi presto in un prurito narcisistico.
6. Infine, cosa possiamo chiedere al Signore? Tutto! Chi ha la consapevolezza di essere figlio/a non deve vergognarsi di aprire il cuore e dichiarare le necessità che lo angustiano. Lo si deve fare da figli, però. Senza tentare Dio, senza metterlo alla prova, quasi che il giudizio sull’autenticità del suo amore fosse sospeso alla realizzazione delle nostre attese. È tutt’altro che infantile e deresponsabilizzante pregare così; anzi, suppone che mentre si tende la mano al Cielo si compia un atto di abbandono incondizionato, a immagine del Figlio (cfr. Lc 22,42). Quando le nostre invocazioni sono modellate da questo atteggiamento, otteniamo da subito un dono: lo Spirito, che ci conferma nella fede, rendendoci perseveranti.