lunedì 24 giugno 2013

496 - Per una pausa spirituale durante XIIª Settimana del Tempo ordinario

Il punto di partenza per l’elaborazione di una risposta all’interrogativo proposto dal titolo, è la riflessione sul modo con cui Gesù ha vissuto l’esperienza del soffrire. Se nei vangeli non vi sono tracce per concludere che il Cristo sia stato vittima di malattie, ciò non significa, però, che egli abbia evitato di pagare il suo tributo alla sofferenza. L’autore della Lettera agli Ebrei, infatti, definisce i giorni della vita terrena di Gesù «come i giorni della sua carne» (5,7). La carne parla della fragilità, dell’imperfezione della sua natura umana, non ancora nella gloria; carne che segna l’umanità di Cristo.
Come ogni essere umano, Gesù ha provato i quotidiani dolori, la fatica, la tentazione, l’insuccesso, il pianto. Il racconto delle tentazioni nel deserto, il turbamento di fronte alla sorte drammatica che l’attendeva, la difficoltà di far maturare negli apostoli la giusta comprensione della sua identità e della sua missione, le lotte sostenute con i numerosi avversari… parlano della sofferenza vissuta da Gesù per chiarire la sua vocazione e per rimanervi fedele fino alla fine. La tristezza e il pianto non gli sono estranei. Contemplando Gerusalemme, Gesù si commuove per la mancata corrispondenza del popolo al suo messaggio di salvezza. La morte degli amici lo racchiude nel silenzio e gli provoca le lacrime. Nel vangelo di Giovanni si parla del suo pianto per la morte di Lazzaro (Gv 11,33-35): «Gesù allora, quando la [Maria] vide piangere e piangere anche i Giudei che erano venuti con lei, si commosse profondamente, si turbò e disse: “Dove l’avete posto?”. Gli dissero: “Signore, vieni a vedere”. Gesù scoppiò in pianto».
È quindi possibile ritenere che le parole dell’autore della lettera agli Ebrei: «Non abbiamo un sommo sacerdote che non sappia compatire le nostre infermità, essendo stato lui stesso provato in ogni cosa a somiglianza di noi, escluso il peccato» (4, 15), siano applicabili non solo all’episodio culminante della croce, momento in cui ha sofferto le nostri notti più scure, la morte corporale e la notte della fede, ma a tutta la vita del Cristo.
Partecipe della condizione umana, anche nei suoi aspetti negativi, Gesù ha indicato il cammino da seguire per impedire che la sofferenza si trasformi in un elemento distruttivo della persona. Infatti, come ha scritto Giovanni Paolo II nella esortazione apostolica Christifideles Laici, nell’essere umano che soffre «sono messe a dura prova non solo la sua fiducia, ma anche la stessa fede in Dio e nel suo amore di Padre» (n. 54). Senza toglierne il carattere misterioso, con la sua passione Gesù ha fatto entrare il soffrire – come si afferma nella letteraapostolica Salvifici Doloris (n. 18) – «in una dimensione completamente nuova e in un nuovo ordine», legandola all’amore, «a quell’amore che crea il bene ricavandolo anche dal male». Quanto Isaia affermava del Servo di Yhwh: «Per le sue piaghe siamo stati guariti» (53,5), ha trovato piena realizzazione in Gesù. Caricandosi delle nostre infermità e addossandosi le nostre malattie, come si legge in Matteo (cfr. Mt 8,17), il Cristo ha reso possibile dare un senso alle esperienze negative della vita, il senso cioè che hanno avuto per lui che le ha vissute come espressione del suo amore salvifico. La sofferenza ha cooperato ad aprire il cuore di Gesù, lasciando che la gente vi entrasse. Come afferma Urs von Balthasar: «L’apertura del cuore è elargizione, per un uso pubblico, di ciò che è più intimo e personale; lo spazio aperto e svuotato è accessibile a tutti».
L’imitazione di Gesù servo sofferente ha accompagnato innumerevoli persone a fare del soffrire una fonte di guarigione e di salvezza per sé e per gli altri. Grandi santi e comuni credenti hanno tratto dalla loro esperienza di dolore una generosa dedizione e un amore senza confini. Dalle loro testimonianze appare che le ferite che ci fanno soffrire non sono necessariamente destinate a distruggerci. Assunte, integrate e redente, esse possono contribuire alla crescita della persona, abilitandola a trasmettere, con accenti carichi di umanità, l’amore salvifico e sanante di Cristo. Tale operazione è resa possibile nella misura in cui il dolore è tolto dal proprio ambito egocentrico, individualista e privato, e unito con il dolore di tutta l’umanità, assunto dal Cristo. Quando ciò avviene, l’esperienza sofferente dell’uomo costituisce parte dell’esperienza di Colui che disse: «Non bisognava che il Cristo sopportasse queste sofferenze per entrare nella sua gloria?» (Lc 24, 26).
La capacità di connettere le proprie sofferenze alla sofferenza di Cristo è un dono a cui l’uomo può aderire, accogliendolo con gratitudine. Infatti, «ancor oggi, come buon samaritano, Gesù viene accanto ad ogni uomo piagato nel corpo e nello spirito e versa sulle sue ferite l’olio della consolazione e il vino della speranza», soprattutto attraverso i sacramenti, simboleggiati dal sangue e dall’acqua effusi dalla ferita del suo fianco.
Evitando la tendenza deviante del dolorismo – consistente nell’interpretare il dolore come elemento che ha un valore in sé, a volte persino esaltandolo o, in casi estremi, persino ricercandolo – il credente è chiamato ad imitare il Christus patiens – che fa del suo soffrire un’espressione di amore – per potere così imitare anche il Christus medicus, divino samaritano delle anime e dei corpi.

495 - LA VIA VERSO LA VITA - 23 Giugno 2013 – XIIª Domenica del Tempo ordinario

(Zaccaria 12,10-11;13,1 Galati 3,26-29 Luca 9,18-24)

«Poi Gesù, a tutti, diceva: “Se qualcuno vuole venire dietro a me, rinneghi se stesso, prenda la sua croce ogni giorno e mi segua. Chi vuole salvare la propria vita, la perderà, ma chi perderà la propria vita per causa mia, la salverà. Infatti, quale vantaggio ha un uomo che guadagna il mondo intero, ma perde o rovina se stesso?”» (Luca 9, 23-25). Questa frase è stata interpretata in modi molto diversi, come richiamo all’ascesi, alla mortificazione, all’accettazione di umiliazioni spesso ingiustificate, ma presenti in ogni percorso umano. Talora è stata abusata per giustificare un atteggiamento passivo di fronte ad ingiustizie presenti in ambito civile ed ecclesiale. Nel tentativo di comprendere il testo, iniziamo ad analizzarne la struttura: si tratta di una condizionale in cui si prospetta la situazione di qualcuno che liberamente sceglie di seguire Colui che ha appena annunciato il suo destino di «Cristo di Dio», perseguitato, ucciso, risuscitato. Per seguirlo, il discepolo deve operare alcune scelte.

• La prima: «rinneghi se stesso». Il verbo, anche se talora indica apostasia, non ha di per sé una connotazione negativa. Indica la negazione di un dato o di uno stato precedente: se riferito ad un rapporto personale (in questo caso con se stessi), indica separazione. Si tratta dunque di quella che potremmo definire una presa di distanza da se stessi.

• Il secondo verbo prosegue sollecitando il discepolo a «prendere la sua croce ogni giorno». L’interpretazione del termine ‘croce’ ha assunto sfumature diverse: per qualcuno ricorda il ‘tau’ (Ez 9,4.6) posto come segno di protezione e sigillo di appartenenza sulla fronte dei fedeli (Ap 7,2). Nel linguaggio cristiano è divenuta segno dell’appartenenza a Cristo. Non penso dunque che in questo contesto indichi sofferenza accolta o autoinflitta, ma rappresenta il segno di un’appartenenza totale in cui la persona si gioca tutto. Il cambio di prospettiva implica una salvezza che non passa per la strada dell’affermazione di sé, della ricerca idolatrica della propria affermazione, ma nell’appartenenza al Messia crocifisso. La croce del Cristo di Dio diventa la ‘nostra’ croce, perché la scelta per lui è – e può essere – soltanto personale.

 • In questa luce il terzo imperativo «mi segua» indica distacco da se stesso e appartenenza a Cristo manifestato nella sequela. L’aggiunta di Luca «ogni giorno» sottolinea la perseveranza richiesta: non è una decisione presa una volta per tutte, ma è una scelta ripetuta istante dopo istante. Seguire Lui per divenire Lui, per fare dell’ ‘io’ del Cristo il proprio ‘io’. È quello che Paolo esprime in termini diversi: «Sono stato crocifisso con Cristo e non sono più ‘io’ che vivo, ma il Cristo vive in me» (Gal 2,19-20). Ai discepoli non è dunque richiesto di ‘capire’, ma di ‘seguire’ il Cristo di Dio, un Messia crocifisso: i versi che seguono ne chiarificheranno la ragione.

 • Qui il discepolo mette in gioco la sua vita. Il termine tradotto con ‘vita’ è psychḗ, un termine greco che designa la parte dell’uomo che sopravvive alla morte, l’anima. Ma nel contesto semitico, dove non esiste distinzione tra corpo ed anima, indica l’esistenza concreta, la persona nella sua individualità. I due versetti si riferiscono dunque alla vita reale di una persona nel suo rapporto con il Cristo: «per causa mia». Salvare e perdere la vita indicano allora due opzioni: vivere in funzione di se stessi o vivere per Cristo, abbracciando la logica del Regno. L’opzione è tra la scelta di fare di se stessi lo scopo ultimo della propria esistenza, trasformando il sé in un idolo, o di offrire la propria vita come dono nella sequela del Messia, abbracciando la sua mentalità, i suoi valori, condividendo i suoi sentimenti e la sua passione per il Padre ed il fratello. È la migrazione da una vita chiusa in se stessi ad una aperta all’irruzione di Dio. Siamo dunque ben lontani dal distacco stoico dalla realtà, dall’ascesi fine a se stessa e auto-gratificante. Il testo indica che soltanto chi sceglierà di fare della propria vita un dono, di porre il Regno come ragione delle proprie scelte, scoprirà il significato ‘pieno’ della vita.

PREGHIERA
Sono in molti ad attendere il Messia, ma ognuno se lo raffigura a modo suo, illudendosi di pensare come Dio. Ecco perché, Gesù, tu non esiti, subito dopo la risposta di Pietro, ad evocare uno scenario imprevisto. Sognano la gloria e tu, invece, passerai attraverso l’umiliazione; pensano al potere, all’esibizione della forza, mentre vai incontro alla sofferenza; si immaginano un consenso strepitoso e tu, al contrario, verrai rifiutato, condannato dalle autorità religiose e dal rappresentante di Roma.
No, non sei decisamente il forte che scaccerà gli occupanti, il pio che restituirà il Tempio allo sfarzo dei tempi antichi e neppure il giudice implacabile che colpirà i malvagi.
Tu sei il servo, disposto a soffrire per la salvezza di tutti. Tu sei il Figlio, obbediente al Padre fino alla morte, e alla morte di croce. Tu sei il misericordioso, che perdona anche quelli che lo uccidono. Tu sei il povero, che si dona interamente, sicuro che Dio non lo abbandona. Così tu salverai il mondo: ecco perché ci proponi la tua stessa strada, percorso di morte e di risurrezione.

494 - L’AMORE DI DIO VINCE IL PECCATO - 16 Giugno 2013 – XIª Domenica del Tempo ordinario

(2ºSamuele 12,7-10.13 Galati 2,16.19-21 Luca 7,36-8,3)

È ancora una donna a porsi oggi come mater et magistra per l’intera Chiesa. Una donna che, per ciò che è, e per ciò che fa, sfida l’onorabilità di una casa ed il rigore nell’osservanza della Thorà del suo proprietario. Da buon fariseo questi si indigna per una presenza tanto ingombrante da farlo persino dubitare sulla consistenza profetica di Gesù. A questo dubbio la pagina evangelica risponde sottolineando la capacità di Gesù, tipicamente divina, di conoscere i pensieri del cuore (cfr. Salmo 138), e di educare un popolo dalla dura cervice. Gesù non giudica né la donna né il fariseo. Semplicemente li prende per mano, li porta a fare un esame di coscienza, a lasciarsi giudicare dalla voce interiore di Dio, e a comprendere che l’etichetta è un fatto umano, mentre l’amore è l’habitat divino.
Dio, che è amore, si riconosce naturalmente nell’amore, non nel protocollo, e dove trova amore lo porta a compimento con un perdono che eccede qualsiasi misura umana. L’amore chiama amore, e l’incontro del povero amore umano con l’immenso amore divino non può che avere, come effetto, la salvezza della vita, la risurrezione della vita. Credere che questo amore vi sia, e sia possibile per qualsiasi essere umano, è ciò che, veramente, conferisce un volto nuovo, una consistenza inedita, alla vita umana.
Mentre il fariseo che ha invitato Gesù in casa sua rischia di continuare a portare sulle sue spalle il fardello dell’«uomo vecchio», a motivo della impenetrabilità in lui dell’amore e del perdono di Dio, la donna sperimenta, invece, la condizione dell’«uomo nuovo», poiché assume con i suoi gesti la cittadinanza del mondo dei salvati; constata su di sé la personale restaurazione e l’instaurazione di tutte le cose in Cristo; ritrova la perduta dignità creaturale; e si sente, a pieno titolo, appartenente alla famiglia di Dio. Il ‘metanoêite’ evangelico, il cambiare testa ed il cambiare comportamenti, può apparire intollerabile a chi lo riduce ad un puro sforzo etico, ma diventa estremamente facile, ed assolutamente necessario, se ci si lascia avviluppare da un amore che ci precede, ci accompagna, ci segue, e ci sovrasta. Se non si entra in questa logica del nuovo ‘essere’, prima che del nuovo ‘fare’, la conversione sarà sempre un itinerario ascetico pressoché impraticabile e, quindi, fatalmente ed inesorabilmente abbandonato al primo sforzo ‘eccessivo’ per un cuore abituato solo alle mezze misure. Come Simone è stato invitato a specchiarsi in questa donna, volgendo su di lei lo sguardo non del giudice minaccioso, ma del Dio misericordioso, così anche noi siamo invitati a specchiarci in questa salvata dalla misericordia, per verificare se, nel cuore di ciascuno, vi è almeno una scintilla dell’amore, capace di far scoccare questo felice incendio che lei ha sperimentato, oppure se ci troviamo ancora parcheggiati su una sorta di iceberg che impedisce a qualsiasi fiamma di prendere corpo.

PREGHIERA
Ne ha avuto di coraggio quella donna pur di raggiungerti, Gesù, nel bel mezzo di un pranzo. È una peccatrice, una che certo non gode di buona reputazione: del resto, con il suo stesso aspetto, con il suo trucco marcato, con i suoi abiti sgargianti, con i suoi capelli sciolti dichiara la sua identità.
Sa, dunque, di non essere bene accetta nella casa dei benpensanti, dei devoti, dei pii che osservano ogni regola con scrupolo e la considerano una creatura perduta. Ma a lei non importano i giudizi che fioccheranno alle sue spalle, la faccia offesa e risentita del padrone di casa e dei suoi invitati. A lei interessi tu: cerca proprio te e un contatto che avrebbe messo in imbarazzo ogni uomo.
Bagna i tuoi piedi con le lacrime, li asciuga con i suoi capelli, li copre di baci e li cosparge di profumo. Tu la lasci fare perché vedi quello che sfugge a tutti: il suo amore e il desiderio struggente di trovare pace e misericordia. Allora non ti tiri indietro e osi addirittura sfidare chi ti ospita: dichiari infatti che quella donna lo precede di gran lunga nei sentieri del Regno.
 

493 - DIO HA ANCORA COMPASSIONE DI NOI?

Per una pausa spirituale durante xª Settimana del Tempo ordinario

Dietro la madre del vangelo di domenica (Luca 7,11-17) vi è una lunga fila di madri come lei: quelle che hanno perso un figlio in un incidente stradale; quelle che l’hanno perduto, rapito da una malattia precoce e crudele; quelle che l’hanno perso perché le scelte della vita l’hanno portato sulle strade del prodigo, a buttar via la propria esistenza nell’illegalità, nel disordine, nella droga, nel non senso. Il pianto di una madre che ha perso un figlio può essere il simbolo di tutti i dolori che suscitano domande drammatiche, senza risposta ragionevole. L’unica risposta che accetterebbero è quella del gesto di Gesù: la restituzione del figlio alla vita!
L’esperienza del dolore, soprattutto di quello che ferisce negli affetti più cari, è fonte di tanti drammatici interrogativi, che sono quelli che si fa Giobbe davanti ad un Dio che lo ha privato di tutto e lo ha reso come un rifiuto di umanità: perché? Perché questa malattia? che cosa abbiamo fatto di male? perché proprio a noi? E poi le più difficili: se Dio c’è, perché permette questo? se Dio è buono, perché permette questo male che ci ferisce, che ci toglie la voglia di vivere, che rende la nostra esistenza amara e senza senso?
Forse qualcuno si pone questi interrogativi; qualche altro rimane muto, come svuotato da un dolore che sembra togliere la vita, anche a chi le sopravvive. Si vorrebbe vedere arrivare Gesù con il suo seguito di discepoli e di folla, e pronunciare anche per noi le parole che restituiscono la vita: «Dico a te: àlzati!». Ma Gesù non arriva in questo modo, e il racconto del vangelo di questa domenica potrebbe apparirci una bella favola: bella come tutte le favole, ma senza consolazione nella sua vacuità. Dio ha ancora compassione di noi? Non appare Gesù a restituire la vita, ma egli si presenta con un’altra immagine: quella di un uomo sfigurato dal dolore, che cammina verso il luogo del suo supplizio, che viene inchiodato ad una croce su cui agonizza per ore, in attesa che le leggi della natura facciano il loro corso e che il Padre lo accolga. Anche a noi viene da gridargli, come quelli che stavano ai piedi della croce: «Se sei figlio di Dio…» compi ancora un miracolo; scendi dalla croce, risana tutti i malati, vieni a risuscitare i nostri morti. Lui ci risponde con il suo silenzio, e poi con le parole dell’abbandono: «Padre, nelle tue mani consegno il mio spirito». E noi siamo ributtati nella nostra lotta con Dio, a decidere se restare chiusi nella nostra rabbia amara contro la vita, o arrenderci facendo nostro l’atteggiamento di obbedienza e di fiducia di Gesù. Dio ha ancora compassione? La compassione di Dio oggi è quel Figlio appeso alla croce, carico della sofferenza di tutta l’umanità, quel dolore e quel male che solo l’amore possono vincere. Davanti al volto sfigurato e umiliato di questo Uomo è impossibile non provare compassione; e avvertire che il nostro cuore è preso da un sentimento che ci trafigge il cuore, come al centurione che davanti al modo con cui muore questo uomo innocente capisce che solo Dio può avere nel cuore un amore così grande da accettare la morte con tanta mitezza: «Veramente questo uomo era il figlio di Dio!», esclama. Anche i due che sono crocifissi con Gesù, uno alla destra e uno alla sinistra, stanno quasi a simboleggiare un’umanità che si divide davanti a lui: vi è chi è convinto dalla sua testimonianza di amore e chi sente che proprio questa morte accresce la sua rabbia e costituisce motivo di scandalo. Dio ha ancora compassione, ma tocca a noi decidere se vogliamo riconoscerla nel volto dell’Uomo della croce o se vogliamo respingerla. La lotta dell’uomo con Dio continua nel tempo e si distende, giorno dopo giorno, lungo i secoli. Ho conosciuto persone che davanti alla sofferenza si sono intristite nella rabbia e nell’amarezza verso la vita, verso Dio e verso gli altri, e hanno quasi smesso di vivere. Altri nelle stesse circostanze hanno trovato la compassione di Dio, immergendosi nella misteriosa compassione per Dio. Ricordo Alessia, un’adolescente che a quattordici anni ha scoperto di avere un tumore devastante. Ha passato i primi mesi a imprecare contro la vita, a piangere e a lottare, con coraggio e determinazione. Poi, a poco a poco, ha cominciato a entrare nel mistero del dolore, ha scoperto che vi è Dio che ama tutti, anche i giovani malati di tumore. Nelle ultime settimane di vita, a chi l’ha accompagnata nel suo calvario, confidava che aveva scoperto l’altezza, la larghezza e la profondità dell’amore di Dio e che viveva in esso. E provava compassione per tutti i giovani che avevano una malattia diversa dalla sua e per certi versi più grave: il cuore vuoto, la testa piena di cose futili e la mancanza di un senso alla loro vita. È morta indicando nell’arcobaleno, ponte tra cielo e terra, il modo per continuare a rimanere in comunione con le persone che aveva avuto care. E testimoniando che quando si prova compassione per gli altri, si riesce ad entrare nella compassione di Dio e ad esserne consolati.

492 - GESÙ CRISTO HA VINTO LA MORTE - 09 Giugno 2013 – Xª Domenica del Tempo ordinario

(1ºRe 17,17-24 Galati 1,11-19 Luca 7,11-17)

È veramente una notizia straordinaria, quella che la liturgia della Parola oggi ci comunica. Ancor prima, e ancor più, del fatto che Dio sa, può, e vuole, risuscitare i morti (cosa vi è di straordinario per Dio in ciò?), è rilevante e consolante la motivazione soggiacente: Dio freme di compassione per l’uomo che soffre e che muore.

LA COMPASSIONE DI DIO. Sì, Dio è esperto nell’arte di ‘com-patire’. Dio, cioè, sa soffrire insieme a noi, e sa amare noi e le nostre vicende. In lui la ‘passione’ è, insieme, sofferenza e slancio amoroso. La buona notizia sta appunto nel fatto che abbiamo a che fare con un Dio visceralmente compassionevole, totalmente partecipe delle nostre croci, assolutamente presente su tutti i nostri calvari, perennemente inchiodato a qualsiasi legno doloroso gravi sulle nostre spalle. Scrive in proposito il convertito André Frossard: «Se per salvare gli uomini la giustizia e la misericordia potevano benissimo fare a meno del Calvario, per l’amore non esisteva altra via».

IL LIBERATORE DA QUALSIASI TIPO DI MORTE. Ma la notizia ancora più significativa è che Gesù Cristo non si è rivelato fonte di risurrezione e di vita unicamente di fronte alla morte fisica, che, in taluni casi, è invocata da qualcuno, o attesa da chi riconosce che non vi è proprio più niente da fare e l’unica speranza rimasta è che venga presto la sera di certi drammatici e interminabili ‘venerdì santi’. Gesù Cristo, Messia e Signore compassionevole, è Colui che sa ridare vita a situazioni di morte spirituale e morale perduranti mesi e anni, ad agonie di umanità e di coscienza che rischiano di devastare non solo i soggetti che ne portano il peso, ma anche il contesto familiare o sociale che li circonda. Penso a menti, a coscienze, ad anime, a cuori, derubati di tutto ciò che è nobile e prezioso, e ricolmati dal ciarpame assurdo delle futilità che offendono la vita, perché la privano di senso, e la uccidono interiormente.
Gesù Cristo ci offre una lezione di umanità straordinaria e quanto mai necessaria per una società che si sta diseducando e disamorando alla compassione ed alla misericordia, una umanità che abbrutisce per il fatto di voltare le spalle al comandamento «ama il prossimo tuo come te stesso», per abbracciare la logica infame della regola alternativa al comandamento di Dio: «frega il prossimo tuo, prima che lui freghi te!!!». L’epidemia di indifferenza – «il più grave di tutti i peccati» l’ha definita qualcuno – che sta dilagando nelle nazioni che tentano di aggrapparsi ai relitti del benessere, dichiara palesemente come la compassione vera e profonda non è una specialità umana, ma è un’arte divina tanto necessaria quanto pregiata, perché sa compiere autentici miracoli.

CHI È COSTUI?. Incomincia a delinearsi, grazie a queste pagine scritturistiche, l’identità di Colui che è risurrezione e vita, non solo per singole persone, ma per razze e culture, per popoli e società. Ovunque la morte regni incontrastata nelle coscienze personali e sociali, Cristo, scontrandosi con la morte, e vincendola, si rivela Signore della vita. Egli non ha bisogno, come i profeti veterotestamentari, di mediazioni operate mediante verba et gesta. Egli è la Parola forte che, una volta pronunziata, ha la stessa efficacia della parola di Dio effusa sulla creazione, anzi, di più, perché là era un infondere vita dal nulla, mentre qui è un suscitare vita addirittura dalla morte. Egli è il gesto di amore intenso che il Padre pone, e che possiede quella forza inaudita raffigurata ed immortalata in modo sublime da Michelangelo sul soffitto della cappella Sistina. Il problema, per noi, sta nel riconoscerlo per ciò che è, poiché ci sentiamo fortemente e direttamente interpellati da quella domanda cruciale che Gesù Cristo porrà alla sorella di un altro uomo da lui risuscitato: «Credi tu questo?». Ci aiuta a rispondergli l’anonima vedova di Sarepta di Sidone: «Ora so che tu sei» non semplicemente «un uomo di Dio», ma il Figlio di Dio! Tu sei Dio stesso. Lo sappiamo bene che, nel contesto socioculturale odierno, siamo rimasti in pochi a professare esistenzialmente questa fede e che, in mezzo a tanti cristiani, serpeggia la stessa radicale incredulità che regnava in Israele, o dilaga il fascino per teorie esotiche quali la reincarnazione, ma, proprio per questo, ancora di più, siamo sollecitati dall’Anno della Fede che stiamo celebrando e vivendo, a dichiarare apertis verbis, con franchezza, con coraggio, e con gioia, che Gesù Cristo è il Signore, il Crocifisso ed il Risorto, il Vivente per sempre, il Signore del tempo e della storia, dell’oggi e dell’eternità.

PREGHIERA
È la compassione a muoverti: tu, Gesù, partecipi al dolore straziante di quella donna che ha perso il marito e ora anche l’unico figlio. Tu, Gesù, ti lasci colpire dalla sua pena, dalla sua solitudine, dal suo dolore. E le mostri che niente, neppure la morte, risulta ineluttabile ai tuoi occhi. Le riveli che tu puoi sconfiggerla proprio quando essa appare nel suo potere devastante, proprio quando sembra che nulla possa arginare il suo dilagare nella nostra vita.
Quel giorno, sulla via del cimitero, tu ti sei manifestato per quello che sei veramente: colui che ama la vita e lotta, a mani nude, contro qualsiasi morte che deturpa e lacera, che colpisce tutti impunemente. Sì, tu l’affronterai la morte, e ne sperimenterai l’angoscia, offrirai il tuo corpo perché venga percorso dagli spasimi dell’agonia, e riuscirai a sconfiggere il nostro nemico mortale proprio mentre riteneva di averti sopraffatto.

491 - PER LA VITA DEGLI UOMINI - 02 Giugno 2013 – SS. Corpo e Sangue di Cristo

(Genesi 14,18-20 1ªCorinti 11,23-26 Luca 11b-17)

La festa odierna richiama la nostra attenzione sul mistero eucaristico. Chiediamoci da dove nasce la necessità di riflettere nuovamente sul dono del Corpo e Sangue del Signore, dopo averlo celebrato nel contesto del Triduo pasquale. Forse perché la quotidianità di questo mistero rischia di trasformarlo in routine. Forse perché una certa formazione catechetica ne sottolinea la componente intimistica, trasformandolo in un incontro ‘personale/sentimentale’ con il Cristo, da vivere nel silenzio e nell’adorazione. Tra tutti i sacramenti l’Eucaristia è certamente quello più frequentemente celebrato, perché il più necessario, ma, proprio per questo, il più a rischio, il più vittima dell’abitudine che logora il Mistero. Non è dunque per un desiderio di rievocazione storica del miracolo di Bolsena, che, ogni anno, celebriamo la solennità del Corpus Domini, ma perché abbiamo continuamente bisogno di concentrare la mente ed il cuore sul Mistero per eccellenza e per antonomasia.
È la parola di Dio che aiuta la Chiesa a scoprire e a ri-scoprire le mille sfaccettature di questo splendido ‘diamante’ eucaristico. E la nostra non può, non vuole, non deve essere una contemplazione avulsa dal vissuto, perché il motivo sostanziale per cui noi celebriamo il Mistero eucaristico sta nel fatto che desideriamo costruire una graduale conformazione a Cristo, componendo così il suo Corpo, che è la Chiesa, ed edificandolo. Una Chiesa che sia Eucaristia tanto quanto l’Eucaristia che celebra: questo è il fine del Sacramento eucaristico. L’Eucaristia è un mistero di rendimento di grazie. Lo svelarsi di questo tipo di Mistero, nella narrazione evangelica di oggi, è causato non solo da una oggettiva fame che attanaglia una folla sterminata, ma, ancor più, da una forma di grettezza dei discepoli, che ragionano in termini di puro assolvimento del dovere, in termini di «ministero a tempo», sancito da tabelle ‘sindacali’: scaduto il tempo, tutti a casa! Gesù, come sempre, coglie al volo la situazione e se ne serve per educare i discepoli, ancora lontani da una condivisione di mente e di cuore con i pensieri di Gesù e con l’amore di Gesù. Essi denotano sì la capacità di condividere le cose, ma non ancora il coraggio di condividere se stessi, mentre Gesù li porterà gradualmente al banchetto dell’ultima sera della sua vita, buttandoli a capofitto nel Mistero del donare se stessi sino all’effusione del sangue. E questo è l’unico e vero rendimento di grazie possibile per il dono della vita, di quella fisica e di quella spirituale, della vita dei figli, immeritatamente donataci e compresa come dono, solo nella misura in cui essa stessa diviene, a sua volta, dono.
Questo è il rendimento di grazie che si eleva nell’Eucaristia, per il dono che riceviamo e per il dono che diventiamo. Ogni Eucaristia ci ricorda e ci ammonisce che le cose che doniamo, se non comportano il dono di noi stessi, non sono donate, ma semplicemente poste in vetrina perché qualcuno ci elogi. In tal modo possono divenire la forma di più sottile egoismo, anziché di sincera e larga generosità. È solo il dono di se stessi che fa sgorgare dal cuore un ‘grazie’ immenso. È solo la carità, vissuta sui criteri di Dio, che diviene amore radicale e viscerale per i fratelli, nella certezza che ciò che doniamo è sempre poco, rispetto al molto che riceviamo in dono, quando abbiamo il coraggio di farci dono. È così che la moltiplicazione dei pani diventa possibile anche a noi e in noi.

PREGHIERA
La proposta dei Dodici è semplice: lasciare ad ognuno il compito di trovarsi il cibo necessario. Del resto il loro ragionamento appare del tutto sensato: la folla è troppo numerosa ed il luogo è deserto. L’onere di dare nutrimento a così tante persone chi se lo può permettere? Tanto più che le risorse a disposizione sono veramente esigue: cinque pani e due pesci!
La logica umana, in effetti, non fa neppure una grinza: peccato che abbandoni tutti ai loro problemi e li induca a cercarsi una soluzione ciascuno per conto suo.
Ma tu sei venuto proprio a mostrare che il contrario è possibile: che Dio prende la vita di ognuno nelle sue mani forti e sicure e apre ad una speranza inaspettata. Tu vuoi che la folla abbia un segno della compassione e della bontà di Dio e scopra che c’è un pane che non si guadagna con il sudore della fronte. Sei tu quel Pane offerto e spezzato, donato e condiviso, che nutre e sostiene nel nostro pellegrinaggio.