Il punto di partenza per l’elaborazione di una risposta all’interrogativo proposto dal titolo, è la riflessione sul modo con cui Gesù ha vissuto l’esperienza del soffrire. Se nei vangeli non vi sono tracce per concludere che il Cristo sia stato vittima di malattie, ciò non significa, però, che egli abbia evitato di pagare il suo tributo alla sofferenza. L’autore della Lettera agli Ebrei, infatti, definisce i giorni della vita terrena di Gesù «come i giorni della sua carne» (5,7). La carne parla della fragilità, dell’imperfezione della sua natura umana, non ancora nella gloria; carne che segna l’umanità di Cristo.
Come ogni essere umano, Gesù ha provato i quotidiani dolori, la fatica, la tentazione, l’insuccesso, il pianto. Il racconto delle tentazioni nel deserto, il turbamento di fronte alla sorte drammatica che l’attendeva, la difficoltà di far maturare negli apostoli la giusta comprensione della sua identità e della sua missione, le lotte sostenute con i numerosi avversari… parlano della sofferenza vissuta da Gesù per chiarire la sua vocazione e per rimanervi fedele fino alla fine. La tristezza e il pianto non gli sono estranei. Contemplando Gerusalemme, Gesù si commuove per la mancata corrispondenza del popolo al suo messaggio di salvezza. La morte degli amici lo racchiude nel silenzio e gli provoca le lacrime. Nel vangelo di Giovanni si parla del suo pianto per la morte di Lazzaro (Gv 11,33-35): «Gesù allora, quando la [Maria] vide piangere e piangere anche i Giudei che erano venuti con lei, si commosse profondamente, si turbò e disse: “Dove l’avete posto?”. Gli dissero: “Signore, vieni a vedere”. Gesù scoppiò in pianto».
È quindi possibile ritenere che le parole dell’autore della lettera agli Ebrei: «Non abbiamo un sommo sacerdote che non sappia compatire le nostre infermità, essendo stato lui stesso provato in ogni cosa a somiglianza di noi, escluso il peccato» (4, 15), siano applicabili non solo all’episodio culminante della croce, momento in cui ha sofferto le nostri notti più scure, la morte corporale e la notte della fede, ma a tutta la vita del Cristo.
Partecipe della condizione umana, anche nei suoi aspetti negativi, Gesù ha indicato il cammino da seguire per impedire che la sofferenza si trasformi in un elemento distruttivo della persona. Infatti, come ha scritto Giovanni Paolo II nella esortazione apostolica Christifideles Laici, nell’essere umano che soffre «sono messe a dura prova non solo la sua fiducia, ma anche la stessa fede in Dio e nel suo amore di Padre» (n. 54). Senza toglierne il carattere misterioso, con la sua passione Gesù ha fatto entrare il soffrire – come si afferma nella letteraapostolica Salvifici Doloris (n. 18) – «in una dimensione completamente nuova e in un nuovo ordine», legandola all’amore, «a quell’amore che crea il bene ricavandolo anche dal male». Quanto Isaia affermava del Servo di Yhwh: «Per le sue piaghe siamo stati guariti» (53,5), ha trovato piena realizzazione in Gesù. Caricandosi delle nostre infermità e addossandosi le nostre malattie, come si legge in Matteo (cfr. Mt 8,17), il Cristo ha reso possibile dare un senso alle esperienze negative della vita, il senso cioè che hanno avuto per lui che le ha vissute come espressione del suo amore salvifico. La sofferenza ha cooperato ad aprire il cuore di Gesù, lasciando che la gente vi entrasse. Come afferma Urs von Balthasar: «L’apertura del cuore è elargizione, per un uso pubblico, di ciò che è più intimo e personale; lo spazio aperto e svuotato è accessibile a tutti».
L’imitazione di Gesù servo sofferente ha accompagnato innumerevoli persone a fare del soffrire una fonte di guarigione e di salvezza per sé e per gli altri. Grandi santi e comuni credenti hanno tratto dalla loro esperienza di dolore una generosa dedizione e un amore senza confini. Dalle loro testimonianze appare che le ferite che ci fanno soffrire non sono necessariamente destinate a distruggerci. Assunte, integrate e redente, esse possono contribuire alla crescita della persona, abilitandola a trasmettere, con accenti carichi di umanità, l’amore salvifico e sanante di Cristo. Tale operazione è resa possibile nella misura in cui il dolore è tolto dal proprio ambito egocentrico, individualista e privato, e unito con il dolore di tutta l’umanità, assunto dal Cristo. Quando ciò avviene, l’esperienza sofferente dell’uomo costituisce parte dell’esperienza di Colui che disse: «Non bisognava che il Cristo sopportasse queste sofferenze per entrare nella sua gloria?» (Lc 24, 26).
La capacità di connettere le proprie sofferenze alla sofferenza di Cristo è un dono a cui l’uomo può aderire, accogliendolo con gratitudine. Infatti, «ancor oggi, come buon samaritano, Gesù viene accanto ad ogni uomo piagato nel corpo e nello spirito e versa sulle sue ferite l’olio della consolazione e il vino della speranza», soprattutto attraverso i sacramenti, simboleggiati dal sangue e dall’acqua effusi dalla ferita del suo fianco.
Evitando la tendenza deviante del dolorismo – consistente nell’interpretare il dolore come elemento che ha un valore in sé, a volte persino esaltandolo o, in casi estremi, persino ricercandolo – il credente è chiamato ad imitare il Christus patiens – che fa del suo soffrire un’espressione di amore – per potere così imitare anche il Christus medicus, divino samaritano delle anime e dei corpi.
Come ogni essere umano, Gesù ha provato i quotidiani dolori, la fatica, la tentazione, l’insuccesso, il pianto. Il racconto delle tentazioni nel deserto, il turbamento di fronte alla sorte drammatica che l’attendeva, la difficoltà di far maturare negli apostoli la giusta comprensione della sua identità e della sua missione, le lotte sostenute con i numerosi avversari… parlano della sofferenza vissuta da Gesù per chiarire la sua vocazione e per rimanervi fedele fino alla fine. La tristezza e il pianto non gli sono estranei. Contemplando Gerusalemme, Gesù si commuove per la mancata corrispondenza del popolo al suo messaggio di salvezza. La morte degli amici lo racchiude nel silenzio e gli provoca le lacrime. Nel vangelo di Giovanni si parla del suo pianto per la morte di Lazzaro (Gv 11,33-35): «Gesù allora, quando la [Maria] vide piangere e piangere anche i Giudei che erano venuti con lei, si commosse profondamente, si turbò e disse: “Dove l’avete posto?”. Gli dissero: “Signore, vieni a vedere”. Gesù scoppiò in pianto».
È quindi possibile ritenere che le parole dell’autore della lettera agli Ebrei: «Non abbiamo un sommo sacerdote che non sappia compatire le nostre infermità, essendo stato lui stesso provato in ogni cosa a somiglianza di noi, escluso il peccato» (4, 15), siano applicabili non solo all’episodio culminante della croce, momento in cui ha sofferto le nostri notti più scure, la morte corporale e la notte della fede, ma a tutta la vita del Cristo.
Partecipe della condizione umana, anche nei suoi aspetti negativi, Gesù ha indicato il cammino da seguire per impedire che la sofferenza si trasformi in un elemento distruttivo della persona. Infatti, come ha scritto Giovanni Paolo II nella esortazione apostolica Christifideles Laici, nell’essere umano che soffre «sono messe a dura prova non solo la sua fiducia, ma anche la stessa fede in Dio e nel suo amore di Padre» (n. 54). Senza toglierne il carattere misterioso, con la sua passione Gesù ha fatto entrare il soffrire – come si afferma nella letteraapostolica Salvifici Doloris (n. 18) – «in una dimensione completamente nuova e in un nuovo ordine», legandola all’amore, «a quell’amore che crea il bene ricavandolo anche dal male». Quanto Isaia affermava del Servo di Yhwh: «Per le sue piaghe siamo stati guariti» (53,5), ha trovato piena realizzazione in Gesù. Caricandosi delle nostre infermità e addossandosi le nostre malattie, come si legge in Matteo (cfr. Mt 8,17), il Cristo ha reso possibile dare un senso alle esperienze negative della vita, il senso cioè che hanno avuto per lui che le ha vissute come espressione del suo amore salvifico. La sofferenza ha cooperato ad aprire il cuore di Gesù, lasciando che la gente vi entrasse. Come afferma Urs von Balthasar: «L’apertura del cuore è elargizione, per un uso pubblico, di ciò che è più intimo e personale; lo spazio aperto e svuotato è accessibile a tutti».
L’imitazione di Gesù servo sofferente ha accompagnato innumerevoli persone a fare del soffrire una fonte di guarigione e di salvezza per sé e per gli altri. Grandi santi e comuni credenti hanno tratto dalla loro esperienza di dolore una generosa dedizione e un amore senza confini. Dalle loro testimonianze appare che le ferite che ci fanno soffrire non sono necessariamente destinate a distruggerci. Assunte, integrate e redente, esse possono contribuire alla crescita della persona, abilitandola a trasmettere, con accenti carichi di umanità, l’amore salvifico e sanante di Cristo. Tale operazione è resa possibile nella misura in cui il dolore è tolto dal proprio ambito egocentrico, individualista e privato, e unito con il dolore di tutta l’umanità, assunto dal Cristo. Quando ciò avviene, l’esperienza sofferente dell’uomo costituisce parte dell’esperienza di Colui che disse: «Non bisognava che il Cristo sopportasse queste sofferenze per entrare nella sua gloria?» (Lc 24, 26).
La capacità di connettere le proprie sofferenze alla sofferenza di Cristo è un dono a cui l’uomo può aderire, accogliendolo con gratitudine. Infatti, «ancor oggi, come buon samaritano, Gesù viene accanto ad ogni uomo piagato nel corpo e nello spirito e versa sulle sue ferite l’olio della consolazione e il vino della speranza», soprattutto attraverso i sacramenti, simboleggiati dal sangue e dall’acqua effusi dalla ferita del suo fianco.
Evitando la tendenza deviante del dolorismo – consistente nell’interpretare il dolore come elemento che ha un valore in sé, a volte persino esaltandolo o, in casi estremi, persino ricercandolo – il credente è chiamato ad imitare il Christus patiens – che fa del suo soffrire un’espressione di amore – per potere così imitare anche il Christus medicus, divino samaritano delle anime e dei corpi.